Il Vaticano II, un concilio tradito… o del tradimento?

Il Concilio Vaticano II fu un tradimento gigantesco nei confronti della Chiesa: il suo coronamento consiste nella “rimozione della memoria”, in modo che, i giovani non sappiano ciò che oggi viene spacciato per quello che “Cattolico non è”.

di Francesco Lamendola (05-07-2018)

Non è facile spiegare a una persona che ha meno di cinquant’anni il senso della presente riflessione: come, cioè, il Concilio Vaticano II si è risolto in un tradimento inaudito, di proporzioni drammatiche, della Chiesa cattolica. Una simile proposizione, agli occhi di una persona relativamente giovane, suona quasi come uno scherzo: ma come è possibile, dal momento che il Concilio è stato convocato dal papa Giovanni XXIII, si è svolto nel rispetto delle nome del diritto canonico, ed è stato adottato, dai papi successivi, quale punto di riferimento imprescindibile della pastorale, tanto che la Chiesa e il Concilio, ormai, sembrano esser diventati una cosa sola?

Il Concilio, infatti, per quanti sono nati dopo di esso, ha sempre fatto parte del loro orizzonte, come l’evento ecclesiastico per antonomasia: il più importante, il più decisivo, quello a partire dal quale si pensa e si ragiona da cristiani, da cattolici moderni. Prima, non si sa bene come ragionassero e come sentissero i cattolici; certo in maniera, come dire, un po’ antiquata. Ma dal 1965, vuoi mettere, è tutta un’altra cosa. Per un giovane cattolico, pensare ai fatti del Concilio è la stessa cosa che pensare alla sua necessità, alla sua indispensabilità, alla sua provvidenzialità: non è stato forse definito, da voci autorevolissime, una seconda Pentecoste?

Dunque, nessuno oggi può pensare la Chiesa senza il Concilio; e studiare la storia della Chiesa anteriormente ad esso, anche solo di pochi decenni, di pochi anni, acquista un sapore un po’ strano, quasi patetico, come sfogliare un vecchio album di fotografie ingiallite, e osservare, con un sorriso sulle labbra, gli abiti un po’ buffi dei nonni, i loro mobili un po’ così, le loro espressioni goffe, impacciate, davanti alla macchina fotografica. Senza dubbio, non erano abituati a posare spesso. E il fatto stesso che le foto dei nonni siano in bianco e nero, e che loro non avevano la televisione, o che, quando arrivarono le prime, erano appunto, anch’esse, in bianco e nero, tutto questo non fa che rafforzare quella patina strana, un po’ malinconica, che avvolge, nella nostra coscienza, loro e le loro esistenze: anche se sappiamo che, quando essi erano giovani, vivevano, tutto sommato, come oggi viviamo noi, nel senso che provavano sentimenti, emozioni, e avevano pensieri non del tutto diversi dai nostri, se non in alcuni contenuti specifici, nei quali si è maggiormente mostrato lo scorrere veloce del tempo; eppure, quando pensiamo a loro, non possiamo fare a meno di pensarli come delle creature un po’ strambe, un po’ obsolete, insomma improponibili. Tutto, di loro, ci appare buffo; il fatto che in viaggio di nozze, per esempio, si limitassero a fare un giro in carrozza, o, tutt’al più, un viaggetto di un giorno o due nella città più vicina…

Oggi studiare la storia della Chiesa “preconciliare” acquista un sapore un po’ strano, come sfogliare un vecchio album di fotografie ingiallite.

Ebbene, la stessa cosa, gli stessi pensieri e sentimenti provano i giovani cattolici, oggi, quando si trovano a pensare a com’era la Chiesa prima del Concilio. Le foto dei libri, i racconti dei nonni o dei bisnonni, quelli che ancora sopravvivono, hanno avvolto in una cortina favolosa quel passato, che appare incredibilmente remoto. E che buffi, quei parroci, che se ne andavano in giro con l’abito talare, anche quando uscivano dalla chiesa e sbrigavano le faccende d’ogni giorno, in mezzo alla gente. E le nonne, che si coprivano i capelli entrando in chiesa, e si sedevano in disparte, e recitavano interminabili rosari, e non si azzardavano a mangiare carne il venerdì: quante abitudini strane, sorpassate, che oggi nessuno si sognerebbe più di osservare. Figuriamoci; oggi si va a far la spesa alla domenica, nei supermercati e nei centri commerciali, e nessuno ci trova niente di strano; semmai, si salta la santa Messa, ma non ci si scorda di fare un bel giretto fra i negozi, in cerca dell’ultimo modello di telefonino, o dell’ultimo modello di scarpe firmate…

Ora, noi siamo convinti che il Concilio, anche se ciò non era nelle intenzioni di tutti i padri conciliari, e forse neppure della loro maggioranza, fu, realmente, un gigantesco tradimento nei confronti della Chiesa; e che il suo coronamento consiste nella rimozione della memoria, in modo che i giovani non sappiano che ciò che oggi viene spacciato per cattolico, cattolico non è; non sappiano che la neochiesa si è resa protagonista di una gigantesca apostasia, e nessuno deve averne neanche il sospetto.

Per farsi un’idea di quel che veramente è stato il Concilio, di ciò che veramente ha rappresentato nella storia della Chiesa – oltre che, oseremmo dire, nel costume e perfino nell’antropologia di centinaia di milioni di persone, e non solo di fede cattolica – si deve ascoltare le poche voci fuori dal coro, come quella dello storico Roberto De Mattei; il quale, nella giornata di studi sul tema: Il modernismo, radici e conseguenze storiche, tenuto a Roma il 23 giugno 2018, ha osservato, fra le altre cose:

Scrivendo al card. Ottaviani il 9 maggio 1961, il cardinale Ernesto Ruffini si esprimeva senza mezzi termini: “L’ho detto altre volte e lo ripeto: il modernismo, condannato da S. Pio X, oggi viene diffuso liberamente in aspetti ancor più gravi e più deleteri di quanto non fosse allora!”.

Lo stesso cardinale Ruffini, assieme al cardinale Ottaviani aveva suggerito a Giovanni XXIII, succeduto a Pio XII nel 1958, di convocare un concilio ecumenico, pensando che esso avrebbe condannato in maniera definitiva gli errori del tempo. Però Giovanni XXIII, nell’allocuzione con cui inaugurò il Vaticano II, l’11 ottobre 1962, spiegò che il Concilio era stato indetto non per condannare errori o formulare nuovi dogmi, ma per proporre, con linguaggio adatto ai tempi nuovi, il perenne insegnamento della Chiesa.

Quel che in realtà accadde è che il primato attribuito alla dimensione pastorale operò una rivoluzione nel linguaggio e nella mentalità. Fu questo nuovo modo di esprimersi che, secondo lo storico gesuita padre John W. O’Malley, “segnò una rottura definitiva con i Concili precedenti”. 

I Padri conciliari erano affiancati da “esperti”, o “periti”, incaricati di redigere e rielaborare gli schemi e, spesso, di preparare gli interventi dei Padri. Molti di questi teologi erano stati sospettati di eterodossia durante il pontificato di Pio XII. Il primo obiettivo che essi raggiunsero fu quello di rigettare gli schemi conciliari delle commissioni preparatorie. Il rifiuto di questi schemi elaborati dai teologi della Scuola Romana, segnò una svolta capitale nella storia del Concilio Vaticano II.

Un vescovo italiano, mons. Luigi Carlo Borromeo, fin dalla prima sessione del Concilio, annotava sul suo diario: “Siamo in pieno modernismo. Non il modernismo ingenuo, aperto, aggressivo e battagliero dei tempi di Pio X, no. Il Modernismo d’oggi è più sottile, più camuffato, più penetrante e più ipocrita. Non vuol sollevare un’altra tempesta, vuole che tutta la Chiesa si ritrovi modernista senza che se ne accorga. (…) Così il Modernismo d’oggi salva tutto il Cristianesimo, i suoi dogmi e la sua organizzazione, ma lo svuota tutto e lo capovolge. Non più una Religione che venga da Dio, ma una Religione che viene direttamente dall’uomo e indirettamente dal divino che è nell’uomo”.

Mons. Borromeo intuì la “svolta antropologica” del Concilio Vaticano II che traduceva sul piano teologico il principio filosofico di immanenza del modernismo. Il maggior interprete di questa svolta fu il gesuita Karl Rahner, il teologo che esercitò la maggior influenza sul Concilio Vaticano II e sul post-concilio.

I Padri conciliari conservatori avevano una chiara consapevolezza degli errori che serpeggiavano all’interno della Chiesa, ma sopravalutavano le proprie forze e sottovalutavano quelle degli avversari, la “nouvelle théologie” non era solo una scuola teologica, ma un partito organizzato, con un obiettivo e una strategia ben precisi. La voce di mons. Antonino Romeo, che all’inizio di gennaio 1960 aveva sferrato su Divinitas un attacco a fondo contro l’Istituto Biblico, denunciando l’esistenza di una cospirazione articolata da parte dei neo-modernisti che operavano all’interno della Chiesa, rimase isolata.

L’epoca del Concilio è anche quella della maggior diffusione del comunismo, il principale errore del XX secolo che il Vaticano II ignorò. Non è difficile cogliere nel “primato della pastorale”, che si fece strada in quegli anni, la trasposizione teologica del “primato della prassi” enunciato da Marx nelle sue “Tesi su Feuerbach”, con queste parole: “È nella prassi che l’uomo deve dimostrare la verità, cioè la realtà e il potere, il mondano del suo pensiero” e “i filosofi hanno solo interpretato il mondo in modi diversi; ora però si tratta di mutarlo”.

La teologia della liberazione dell’America Latina, nelle sue diverse versioni, fu il punto di confluenza tra la teologia progressista e il pensiero marxista del Novecento. L’incontro tra queste due correnti sta proprio nell’affermazione del primato della prassi, cioè nell’idea che più importante della verità è l’esperienza che si trae dall’azione. Perciò un teorico comunista degli anni Ottanta, Lucio Lombardo Radice, scriveva che l’essenza della teologia della liberazione sta nel “rovesciamento del rapporto teologia-prassi. Non una prassi da una teologia, ma una teologia a partire da una prassi di fede”. Coerentemente con questa prospettiva, Giuseppe Alberigo, che ha voluto fare della scuola di Bologna la continuazione di quella di Le Saulchoir, affida alla storia il compito della “riforma ecclesiologica” auspicata dalla “nouvelle théologie” e, prima ancora, dal modernismo. Nel post-concilio, la prassi storica divenne un “locus theologicus”.

Il rapporto verità-storia fu riformulato secondo il cardinale Walter Kasper, in forma di “teoria critica della prassi cristiana ed ecclesiale. “La teologia sviluppatasi nella recezione del Vaticano II si caratterizza dunque per la sua peculiare storicità”, scrive mons. Bruno Forte, riecheggiando il “Manifesto” di Le Saulchoir. È in questa prospettiva che bisogna collocare parole chiavi dell’epoca conciliare come “pastorale”, “aggiornamento”, “segni dei tempi”, che negli ultimi anni hanno operato una vera e propria rivoluzione culturale attraverso il linguaggio».

Eppure, sulla stragrande maggioranza dei libri di storia, anche e soprattutto quelli scritti da autori di orientamento cattolico, la narrazione del Concilio è stata, e lo è più che mai, completamente diversa: tutta di segno positivo, tutta pervasa di un ottimismo che sconfina sovente nel trionfalismo. A leggere quelle storie, pare che il Concilio, per la storia della Chiesa nel XX secolo, sia stato ciò che è stata la comparsa di san Francesco nel XIII (e non è certo un caso che Bergoglio, colui che vuole “attuare definitivamente il Concilio”, ha scelto, unico papa della storia, il nome del santo di Assisi). Come sempre l’ideologia si costruisce rimuovendo le testimonianze vive dei contemporanei e sostituendo alla freschezza della realtà la rigidezza della retorica.

Se un cattolico in buona fede, desideroso di capire ciò che realmente è accaduto, in Vaticano, dal 1962 al 1963, per poi estendersi a un miliardo di cattolici sparsi nei cinque continenti, avesse l’umiltà di leggere quel che scriveva nel suo Diario uno dei padri che c’erano, e non uno che ha sentito dire le cose di seconda o terza mano, il vescovo di Pesaro, monsignor Luigi Carlo Borromeo (Graffignana, Lodi, 26 ottobre 1893-Pesaro, 4 luglio 1975), forse avrebbe materia per riflettere a lungo, in una prospettiva ben diversa da quella prospettata dal pensiero cattolico progressista, oggi assolutamente dominante:

«Siamo in pieno modernismo. Non il modernismo ingenuo, aperto, aggressivo e battagliero dei tempi di Pio X, no. Il modernismo d’oggi è più sottile, più camuffato, più penetrante e più ipocrita. Non vuol sollevare un’altra tempesta, vuole che tutta la Chiesa si ritrovi modernista senza che se ne accorga. Così il modernismo d’oggi salva tutto il Cristianesimo, i suoi dogmi e la sua organizzazione, ma lo svuota tutto e lo capovolge. Non più una religione che venga da Dio, ma una religione che viene direttamente dall’uomo e indirettamente dal “divino” che è nell’uomo».

E queste riflessioni, semplicemente tragiche, monsignor Borromeo non le faceva verso la fine del Concilio, dopo tre anni di lavori, ma già dopo le prime settimane: precisamente, le scriveva il 3 dicembre 1962, mentre il Concilio era iniziato l’11 ottobre, meno di due mesi prima.

Come Giovanni XXIII non vide i rischi e le subdole trame, mentre mons. Borromeo le vide e le capì al volo?

Questo era lo stato delle cose, per chi aveva occhi per vedere e orecchi per udire, a breve distanza dall’inizio dei lavori; questo era il clima, questo l’indirizzo dei vescovi progressisti, e questo accadeva per iniziativa e sotto la supervisione del “papa buono”, quel Giovanni XXIII, forse troppo lodato, i cui apologeti non si stancano di lodare la prudenza, la saggezza, il coraggio, ammettendo che sì, esisteva il pericolo di “fughe in avanti”, ma che nulla di meno che buono poteva venire da un concilio apertosi, come disse Roncalli, non per condannare gli errori, né per formulare nuovi dogmi (il che sarebbe stato impossibile, e già qui si sarebbe dovuto avvertire il puzzo di bruciato), ma per proporre, in forma adatta ai tempi moderni, il perenne insegnamento della Chiesa. Abilissimo gioco di parole, deliberatamente studiato per trarre in inganno le anime schiette, incapaci di sospettare tanta malizia.

L’insegnamento della Chiesa, il Magistero, non è affatto perenne; quel che è perenne, è il Deposito della fede; tuttavia è possibile cambiarlo, senza averne l’aria, semplicemente modificando il significato delle parole. Monsignor Borromeo lo vide e lo capì al volo; e chissà quanti altri lo videro e lo capirono. Eppure tacquero, o reagirono in maniera debole e incerta; mentre gli autori del colpo di mano, i progressisti, erano molto decisi, protetti dall’alto, e avevano le idee terribilmente chiare.

Perciò non concordiamo con quanti, come padre Cavalcoli e, in parte, lo stesso de Mattei, parlano di un Concilio tradito (da Giovanni XXIII); a noi pare che fu proprio il Concilio a tradire la Chiesa.

(fonte: accademianuovaitalia.it)

Un pensiero riguardo “Il Vaticano II, un concilio tradito… o del tradimento?

  1. Sono del 36
    50 anni a Buenos Aires, dirigente arcidiocessno dell’Azione Cattoloca,
    Sono d’accordo con l’articolo
    Mi considero anti Cociliare non pre conciliare
    Mi ha solo scandalizzato
    L’ultimo vescovo che ho dovuto sopportare la è stato Jorge Bergoglio
    Adesso lo devo sopportare qua in Italia!!!!!
    Dio mio aiuta la Tua Chiesa e che JB si converta e non confonda più la Tua Chiesa
    È l’intenzione di tutti i miei rosari giornalieri

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