Il papa nero (Arturo Sosa) del papa bianco (Francesco)

Notizie e domande (anche inquietanti) sul nuovo generale dei gesuiti che dubita di «cosa ha detto veramente Gesù» e si sente chiamato con Francesco a «concretizzare il Concilio».

di Aldo Maria Valli (16-05-2017)

Il “papa nero” ha il baffetto bianco malandrino e il sorriso accattivante. Classe 1948, porta bene i suoi sessantanove anni. Quando non indossa il clergyman, ma una polo a righe orizzontali, lo si può scambiare per un tranquillo pensionato. Di pensione, tuttavia, neanche a parlarne dopo che i confratelli gesuiti lo hanno eletto preposito generale della Compagnia, ovvero successore numero trenta di sant’Ignazio.

Arturo Sosa Abascal SJ

Primo generale dei gesuiti non europeo, e primo a convivere con un papa anch’egli gesuita, padre Arturo Marcelino Sosa Abascal arriva dal tormentato Venezuela e ha una spiccata passione per la politica. Nato a Caracas, figlio di un economista per due volte ministro delle Finanze (anche durante la dittatura militare degli anni Cinquanta), ordinato sacerdote nel 1977, Sosa ha una laurea in filosofia e una in scienze politiche, e proprio la politica è da sempre il suo campo di studi privilegiato. È stato ricercatore presso l’Istituto di studi politici dell’Università centrale del Venezuela e più tardi, nello stesso ateneo, docente nella Scuola di studi politici del dipartimento di Storia delle idee politiche. Scelto a maggioranza nella congregazione generale numero trentasei da 212 gesuiti (con la presenza, per la prima volta, di una delegazione di fratelli laici della Compagnia di Gesù), padre Sosa è subentrato a padre Adolfo Nicolás, dimessosi a ottant’anni come il suo predecessore Peter Hans Kolvenbach.

«Ho l’impressione di aver bisogno di tanto aiuto: adesso incomincia una grande sfida», dice alla Radio Vaticana il 14 ottobre 2016, subito dopo l’elezione. Parole improntate a umiltà, ma il padre Sosa non è certo un novellino e possiede una vasta esperienza di governo oltre che accademica: è stato infatti provinciale dei gesuiti in Venezuela, consultore del padre generale e delegato per le case e le opere interprovinciali della Compagnia di Gesù. Amico dell’attuale pontefice («Ci sentiamo spesso e lui mi chiama Arturo», ha rivelato alla rivista Jesus), Sosa conosce bene anche il segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin, che fu nunzio apostolico in Venezuela all’epoca del regime di Hugo Chávez, in un periodo molto delicato nei rapporti tra Santa Sede e governo di Caracas.

Le scelte «singolari» del Conclave

«Farò del mio meglio. Sono molto sorpreso e molto grato al Signore», dice il padre Sosa alla Radio Vaticana a commento dell’elezione. Espressioni di circostanza, che passano quasi inosservate. Per niente inosservate, invece, passano le risposte date, il 18 febbraio 2017, al vaticanista ticinese Giuseppe Rusconi per il sito Rossoporpora. Nella quiete del grande ufficio di Borgo Santo Spirito, a due passi da piazza San Pietro, padre Sosa definisce «speciale» la situazione in cui si trova la Chiesa. Perché? Risposta: «Perché un gesuita divenga papa ci dev’essere per forza una situazione speciale. È stata la Chiesa a chiedere questo. Per di più l’ha chiesto a un gesuita anziano, alle soglie del pensionamento: e anche questo è un aspetto singolare».

Padre Sosa non spiega ulteriormente in che senso la situazione sia «speciale», però fa capire che nella Chiesa, a suo giudizio, c’era la necessità di una decisa svolta in senso conciliare e in salsa sudamericana: «Questo è un papa che, come me, viene dalla Chiesa latinoamericana. Io sono entrato in Compagnia proprio quando si stava concludendo il Vaticano II. Il noviziato l’ho finito nel 1968, al momento della Conferenza generale di tutti i vescovi latinoamericani a Medellin, aperta da Paolo VI. La nostra elezione è certo un segnale che in questi cinquant’anni la Chiesa latinoamericana ha saputo concretizzare seriamente il Concilio, essendosi convertita a tutti i livelli». Una «conversione» necessaria per «far entrare aria fresca» e «scoprire i cambiamenti del mondo», a partire dalla «differenza tra ricchi e poveri».

Come si vede, da parte del nuovo preposito generale un’impostazione dal forte carattere politico-sociale, in sintonia con quella del Papa, perché «siamo figli di questa storia», e anche in linea con l’esigenza, tanto cara a Francesco, che la Chiesa sia «cantiere aperto a chi vuol discernere», una richiesta che secondo padre Sosa può essere accolta solo dal «mondo meno clericalizzato», ovvero «quello meno attaccato ai legalismi “farisaici”».

Parla Sosa, ma effettivamente sembra di ascoltare Bergoglio, e la conferma arriva poco dopo, quando il generale, sulla scorta di quanto Francesco ha sostenuto più di una volta, spiega che anche i cristiani, proprio come gli islamici, hanno il loro fondamentalismo e i due fondamentalismi «si possono paragonare», perché «è certo fondamentalista l’atteggiamento di chi critica radicalmente il Concilio Vaticano II, questo nuovo modo di essere Chiesa che oggi è incarnato dal magistero di papa Francesco».

“Dottrina”, una brutta parola

Di fronte a queste argomentazioni ce n’è abbastanza per restare dubbiosi e ci sarebbe molto da discutere, ma la vera scossa arriva poco dopo. Rusconi chiede: dunque sarebbe un fondamentalista anche il cardinale Gerhard Ludwig Müller, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, per il quale ciò che ha sostenuto Gesù sull’indissolubilità del matrimonio non può essere messo in discussione da nessuno, nemmeno da un Concilio, dal papa in persona o da un pronunciamento dei vescovi? Risposta: «Intanto bisognerebbe incominciare una bella riflessione su che cosa ha detto veramente Gesù. A quel tempo nessuno aveva un registratore per inciderne le parole. Quello che si sa è che le parole di Gesù vanno contestualizzate, sono espresse con un linguaggio, in un ambiente preciso, sono indirizzate a qualcuno di definito».

Incalza Rusconi: «È discutibile anche l’affermazione (cfr Matteo 19,3-6) “Non divida l’uomo ciò che Dio ha congiunto”?». Risposta: «Io mi identifico con quello che dice papa Francesco: non si mette in dubbio, si mette a discernimento». Osserva l’indomito Rusconi: «Vediamo se ho capito bene: se la coscienza, dopo il discernimento del caso, mi dice che una certa azione la posso compiere, lo posso fare senza sentirmi in colpa e con l’approvazione della comunità? Posso per esempio fare la Comunione anche se la norma non lo prevede?». Risposta: «La Chiesa si è sviluppata nei secoli, non è un pezzo di cemento armato… è nata, ha imparato, è cambiata… per questo si fanno i concili ecumenici, per cercare di mettere a fuoco gli sviluppi della dottrina. Dottrina è una parola che non mi piace molto, porta con sé l’immagine della durezza della pietra. Invece la realtà umana è molto più sfumata, non è mai bianca o nera, è in uno sviluppo continuo».

Molti altri sono i temi al centro dell’intervista, ma non c’è da stupirsi che le parole sul «registratore», che ai tempi di Gesù non c’era, facciano subito il giro del mondo suscitando sconcerto. Davvero il generale dei gesuiti ha parlato così? Interpellato, Rusconi conferma. Lui il registratore l’ha usato! Non solo: prima della pubblicazione padre Sosa ha riletto l’intera intervista dando il via libera alla pubblicazione.

Tra le numerose reazioni alle parole di padre Sosa, da segnalare quella di don Roberto Maria Bertacchini, di Carpi, indignato a tal punto da inviare una lettera a papa Francesco e al cardinale Müller per sostenere che le tesi del nuovo generale «sono di una gravità tale che non è possibile passare sotto silenzio senza farsene complici», perché il rischio è di «sfociare in un cristianesimo senza Cristo». Da Santa Marta e dintorni, in ogni caso, nessuna reazione.

D’altra parte l’identità di vedute tra Francesco e il “papa nero” è davvero totale, come si nota in tutti gli interventi pubblici del padre Sosa. Dal discernimento alle periferie, dalla «Chiesa in uscita» alla misericordia, dal «poliedro» (che va preferito alla sfera come immagine della complessità umana), al netto no al proselitismo (visto come una forma di propaganda), l’intero armamentario dialettico del nuovo generale è sovrapponibile a quello del Papa. Idem per quanto riguarda una certa impressione di incompiutezza che si ricava dalle parole di Sosa. Che significa che la Chiesa deve uscire? Che cosa vuole dire, esattamente, discernere? E accogliere? E accompagnare il popolo? E quale dev’essere il rapporto tra legge e libertà? E tra misericordia e giustizia?

La mediación marxista de la fe

D’accordo, il suo campo d’indagine è quello sociopolitico, non filosofico e teologico, ma il preposito generale sembra accontentarsi di formule che suonano bene alle orecchie del progressismo, senza andare in profondità. Altre domande nascono guardando agli anni della formazione di padre Sosa. Lui stesso ha raccontato di aver frequentato la Comunità di San Paolo, a Roma, dove nei primi anni Settanta l’abate Giovanni Franzoni raccolse attorno a sé i cosiddetti “cattolici del dissenso”, interpreti in chiave cristiana della contestazione post Sessantotto. Di recente poi è rispuntato un testo che Sosa scrisse negli anni ruggenti in cui tanti cattolici, per mettersi dalla parte degli oppressi, sposavano con entusiasmo il marxismo.

È il 1978, il gesuita Sosa ha trent’anni e sulla rivista Sic del Centro Gumilla de Investigación y Acción Social, gestito dai gesuiti di Caracas, pubblica un articolo intitolato “La mediación marxista de la fe cristiana”, nel quale sostiene che tale mediazione è non solo «legittima», ma «necessaria», perché la critica marxista della religione colpisce non il vero Dio, schierato con i poveri, ma il dio falso utilizzato dal capitalismo e dallo Stato borghese per opprimere e asservire. All’epoca il “papa nero” è il padre Pedro Arrupe e il giovane Sosa ne è conquistato. Non stupiscono quindi le sue valutazioni, che ricalcano quelle della teologia della liberazione in voga in quel periodo. Curioso è notare che sulla fotocopia del vecchio articolo, messa in rete dalla stessa rivista Sic, compaiono alcune annotazioni di un confratello di Sosa, per nulla d’accordo con lui.

In più di quarant’anni tantissima acqua è passata sotto i ponti, e anche il gesuita Sosa ha rivisto molti giudizi. Per esempio, sempre su Sic (maggio 2014), ha scritto un articolo nel quale ha condannato la «rivoluzione statalista» imposta al Venezuela da Hugo Chávez, per il quale dimostrò inizialmente qualche simpatia.

Ma oggi che cosa pensa il “papa nero” della teologia della liberazione? Intervistato da Tv2000, il 30 gennaio 2017, padre Sosa afferma: «Quello che la teologia della liberazione ha sottolineato chiaramente è qual è il luogo teologico: da dove noi vogliamo sentire, interpretare e pensare la relazione con Dio. E questo luogo sono i poveri, e non è il marxismo ma il Vangelo». Anche in questo caso sembra di ascoltare Francesco. E di nuovo sorgono domande: davvero possiamo pensare che il «luogo teologico» da cui «sentire, interpretare e pensare la relazione con Dio» siano solo i poveri? E i poveri in che senso? Quali poveri? E perché?

«Quando parla di periferie e frontiere – ribadisce padre Sosa a Jesusil Papa fa riferimento all’intuizione più forte della teologia della liberazione, al luogo dove si fa teologia. Se non siamo alla periferia, se non guardiamo con gli occhi dei poveri, non facciamo una teologia evangelica che liberi gli oppressi. Da lì parte il movimento della giustizia che è di liberazione, per arrivare alla libertà di tutti». Difficile non avvertire qui gli echi del peronismo nazional-cattolico nel quale si è formato Jorge Mario Bergoglio, mescolati a quelli del marxismo latinoamericano dei vari Castro, Mujica, Evo Morales, Chávez. C’è un’idealizzazione del popolo che è quasi una mitizzazione, come se il popolo fosse una realtà organica, sempre virtuosa e rigeneratrice. E sullo sfondo ecco l’immancabile, e facile, polemica anti-capitalistica. Padre Sosa, come papa Francesco, interprete ed erede del tipico populismo latinoamericano?

(fonte: tempi.it)

I gesuiti e la scomparsa del segno di contraddizione (Giuliano Ferrara, Tempi, 16-05-2017)

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