Una Compagnia tumultuosa come la Chiesa intera

Intervista allo storico Claudio Ferlan sul rapporto fra i “papi neri” e i papi bianchi.

di Pietro Piccinini (17-05-2017)

Se c’è una persona preparata sul rapporto fra i “papi neri” e i papi bianchi, quella persona è Claudio Ferlan. Ricercatore presso l’Istituto storico italo-germanico della Fondazione Bruno Kessler di Trento, solo negli ultimi due anni ha firmato per il Mulino una monografia su I gesuiti (sintesi storica dalle origini fino all’elezione di papa Bergoglio) e ha curato sempre per il Mulino, con Michela Catto, una raccolta di studi su I gesuiti e i papi (dalla creazione dell’ordine fino a Giovanni Paolo II). Cosa non scontata per un accademico, Ferlan conversando con Tempi accetta anche il rischio di “escursioni” nell’attualità.

Professor Ferlan, nei suoi studi lei evidenzia come la Compagnia di Gesù, in tutte le sue fasi storiche, perfino nell’Ottocento, quando l’ordine appena ricostituito diventò «il simbolo della restaurazione», ha sempre rappresentato una “casa” per anime diversissime: conservatori e progressisti, intransigenti e moderati… Come si spiega questa capacità di attrarre tanti opposti?

La spiegazione secondo me richiede un’analisi di due concetti. Il primo è quello di obbedienza. Si tende a considerare la Compagnia di Gesù come un ordine nel quale l’obbedienza vincola in maniera rigida qualsiasi appartenenza, il che è vero solo parzialmente. Noi che studiamo i gesuiti ci siamo abituati a parlare di una “obbedienza negoziata” in cui c’è spazio per il dialogo. C’è una libertà di pensiero che si traduce in obbedienza nella prassi, ma proprio perché è libertà può portare a prassi diverse. Il secondo concetto è molto ignaziano: il modo di procedere. Dal 1540 fino ad oggi i gesuiti si sono sempre domandati quale fosse il modo migliore per intervenire nel mondo. Perciò esiste in loro – anche perché sono persone che studiano parecchio – la capacità di adeguarsi al mondo, sia sul piano cronologico che su quello geografico. Dunque il modo di agire può cambiare da un paese all’altro, da una generazione all’altra.

Perché i gesuiti sono stati così importanti per la costituzione dell’élite europea?

Perché capirono qual era la necessità dell’Europa del tardo Cinquecento e del Seicento: servivano grandi forze educative. In origine Ignazio era dell’idea che non ci dovessero essere né lezioni né maestri nel suo ordine, ma proprio grazie alla sua capacità di leggere la realtà cambiò posizione, e diede il via libera all’organizzazione di un vero e proprio ordine insegnante. I collegi gesuitici si svilupparono molto rapidamente, prima in Europa e poi in tutto il mondo. Offrivano un’educazione di altissimo livello eppure gratuita, enorme novità per l’epoca. Avevano l’idea di accogliere tutti, mantenendo però un occhio di riguardo per le future classi dirigenti. Si possono fare molti esempi di questa attenzione, il più chiaro è quello che riguarda la formazione dell’imperatore Ferdinando II d’Asburgo.

Come è cambiato nella storia il ruolo che ha avuto l’ordine rispetto alla civiltà europea, in particolare dopo la ricostituzione? E dopo il Concilio?

Quando la Compagnia fu ricostituita, si trovò ad essere formata da un manipolo di persone molto vecchie che avevano vissuto l’esperienza lacerante della soppressione e che per questo erano un po’ immalinconite, arrabbiate con il mondo, quindi poco aperte alle novità che l’Ottocento portava nel pensiero e nelle costituzioni politiche. Così divenne un ordine arroccato su posizioni reazionarie. Pian piano, però, riuscì ad aprirsi anche a esperienze molto moderne, magari in luoghi decentrati o in casi minoritari, in singoli pensatori. Un cammino tortuoso che è arrivato fino ai nostri anni, quelli del post-Concilio, che sono stati anni di nuove grandi aperture. Si potrebbe dire forse – ma è una mia interpretazione personale – che quello spostamento di centro a cui assistiamo oggi nella Chiesa di papa Francesco, la Compagnia di Gesù ha iniziato a viverlo in anticipo. Penso alle riflessioni sull’apostolato nelle “periferie del mondo” e alle nuove proposte pastorali in Asia meridionale e in America latina, che hanno le loro radici nel pensiero di Arrupe, un uomo che bene interpreta il senso del Concilio Vaticano II.

I gesuiti hanno anche una nomea di teologi poco ortodossi. Quanto c’entra questo con i diversi contrasti che si sono creati tra l’ordine e il Vaticano?

C’entra molto, perché la riflessione teologica è parte dell’identità gesuitica e dunque rappresenta il divenire dell’ordine. Infatti, tra novità e chiusure, è una riflessione molto varia. Ed è una teologia che spesso è andata incontro alle esigenze pastorali più concrete: si vedano le storie dei confessori del Sei-Settecento ma anche i casi, più vicini a noi, di applicazione della teologia della liberazione in America latina. Questo tipo di aperture ha creato storicamente molti fastidi presso altri ordini religiosi, mentre in tempi più recenti ha creato dissidi anche con la Sede pontificia, come è stato con Paolo VI e soprattutto con Giovanni Paolo II. Però attenzione alle eccessive semplificazioni. Se si prova a superare le etichette appiccicate con troppa facilità per esempio a studiosi del livello di Carlo Maria Martini o di Karl Rahner, si scopre che la Compagnia di Gesù in realtà è uno specchio che riflette efficacemente la varietà che esiste dentro la Chiesa cattolica. È chiaro: un ordine che si impegna molto nel pensiero, si espone anche al dissenso da parte dell’opinione pubblica. Se però si studia più in profondità la Compagnia, si comprende che è un ordine fortemente legato al pensiero cattolico nella sua varietà. Ne rappresenta tutta la complessità.

Nell’elezione di Francesco che peso ha avuto la capacità gesuitica di adattamento e di lettura dei segni dei tempi?

Abbandonando di nuovo i panni dello storico, dico che secondo me la scelta di Bergoglio è stata principalmente la scelta di un papa argentino, e solo in seconda battuta di un papa gesuita. Ovviamente è difficile dividere le due cose, ma, come dimostra il suo pontificato, l’elezione di Francesco indica che la Chiesa sta cambiando il proprio centro. Il centro non è più Roma. Certo, che sia un gesuita, un uomo abituato a ragionare di periferie, di sicuro ha avuto un peso, ma con questa piccola nota.

Secondo lei quale delle diverse anime dei gesuiti è arrivata al soglio pontificio?

Un’anima aperta, capace di dialogo. Una cosa poco nota è che già lo stesso Ignazio di Loyola all’inizio dell’esperienza della Compagnia raccomandava ai suoi confratelli di aprirsi il più possibile al dialogo con i luterani per evitare lo scontro: mentre nell’immaginario comune Ignazio è lo strenuo difensore della fede arroccato sulle posizioni della Chiesa romana, in realtà l’anima aperta era già presente nel fondatore. Quando il Papa parla di ecumenismo, un tema che mi appassiona nell’attualità, vedo all’opera proprio questa anima pronta all’ascolto – altra caratteristica della Compagnia di Gesù, ordine di grandi confessori – e pronta al discernimento. Anche il discernimento è una parola molto gesuitica: è l’idea che prima di agire bisogna conoscere, studiare e confrontarsi molto. Non si agisce di impulso. Ecco un ritratto di Francesco: apertura, ascolto, discernimento.

Il nuovo generale dell’ordine, padre Arturo Sosa Abascal, ha fatto alcune esternazioni controverse. Crede che finirà per aggiungersi al prossimo studio sui conflitti fra papi e gesuiti?

A me pare che quella di padre Sosa non sia una scelta in conflitto ma in continuità con il pontificato di Francesco. È un uomo che a sua volta viene da una regione del mondo – la stessa di Bergoglio – che si considerava periferica e che tale non va più considerata. Inoltre è un uomo di pensiero, ha studiato la scienza politica. Mi sembra che sia stato scelto con piena consapevolezza per affrontare le questioni poste dalla contemporaneità, soprattutto rispetto alle crisi politiche dell’America latina, dove la Chiesa sta cercando di fungere da mediatrice di pace.

(fonte: tempi.it)

2 pensieri riguardo “Una Compagnia tumultuosa come la Chiesa intera

  1. Tutto bello.
    Ma ritengo che l’accademico dottor Ferlan – per non rischiare di essere troppo ‘normalizzante’ verso il gesuitismo in generale, e quello di alcuni gesuiti di spicco dell’oggi – dovrebbe anche scendere nel pratico e commentare certe esternazioni, certi provvedimenti, certe nomine pruriginose e quant’altro fatti da costoro.
    Se no non si capisce nulla e si lasciano i credenti (sempre più trasecolati di fronte al grandinare di stranezze – eufemismo – che precipitano sulle loro teste dal vertice della Chiesa).
    Il tutto detto col massimo rispetto.

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  2. Il pensiero gesuitico non è più cattolico da un bel pezzo, la varietà del pensiero è tale solo nell’ortodossia, ma è ormai un secolo che sconfina ed è divenuta varietà dell’eresia; il pensiero deve servire a comprendere meglio il Cristo per poter salvare il mondo, non adattarsi al mondo pervertendo il Cristo.
    Il pensiero gesuitico non poggia più sul Signore, ma su se stesso, quando parlano del Signore è “solo una scusa per parlare d’altro”.
    L’analisi di Ferlan è sicuramente magistrale dal punto di vista storico, ma teologicamente parlando è profondamente discutibile, non cattolica.

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