Riforma del Papato, il banco di prova sarà il Sinodo

Nulla di nuovo nel documento di studio sull’esercizio “ecumenico” del primato petrino, ma per il card. Grech sarà il processo sinodale la “grande occasione” per innescare i cambiamenti. Che chiamano in causa l’essenza della Chiesa.

di Luisella Scrosati (14-06-2024)

Il Vescovo di Roma. Primato e sinodalità nei dialoghi ecumenici e nelle risposte all’enciclica Ut unum sint, è il documento frutto del lavoro del Dicastero per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, presentato ieri, giovedì 13 giugno, durante una conferenza stampa presso la Sala Stampa della Santa Sede.

Il Prefetto del Dicastero, cardinale Kurt Koch, ha subito precisato che si tratta di un documento di studio che intende fare il punto sulle proposte giunte da esperti e autorità delle varie denominazioni cristiane, dopo che Giovanni Paolo II aveva aperto ad un confronto per raggiungere «una forma di esercizio del primato che, pur non rinunciando in nessun modo all’essenziale della sua missione, si apra ad una situazione nuova» (UUS, 95). Nel 2020, venticinquesimo anniversario dell’enciclica Ut unum sint, il Dicastero presieduto dal cardinale svizzero aveva iniziato questo lavoro di sintesi delle diverse posizioni, frutto di dialoghi e confronti.

Stando a quanto comunicato dal cardinale e dai due interventi da remoto, la situazione relativa al modo di intendere l’esercizio del ministero petrino sembra ferma al palo. Sebbene si sia giunti ad una consapevolezza comune circa la necessità di un riferimento unico universale che possa servire all’unità della Chiesa, le modalità di questo esercizio continuano ad essere molto distanti tra loro.

Al momento delle domande, Koch ha mostrato un evidente imbarazzo nel cercare di spiegare come mai papa Francesco abbia ripreso il titolo di Patriarca d’Occidente, eliminato dal predecessore: «Dobbiamo avere un po’ di fantasia per commentare questo fatto». Ed ha altresì constatato con fine umorismo che Fiducia supplicans non ha provocato problemi «solo nell’ecumenismo, ma anche nella Chiesa cattolica; è una grande cosa se un continente si oppone alla decisione del Santo Padre».

L’arcivescovo Barsamian, intervenuto da remoto in rappresentanza della Chiesa apostolica armena, ha espresso chiaramente che un reale riavvicinamento contenutistico tra la parte cattolica e quella ortodossa non è affatto dietro l’angolo. Barsamian ha rievocato il consueto riferimento al “mitico” primo Millennio della storia della Chiesa, ha mostrato apertura verso i titoli di Vescovo di Roma e Patriarca d’Occidente, ma ha decisamente rifiutato il «modello giuridico» del primato romano, ossia il potere di giurisdizione supremo e pieno del Papa sulla Chiesa universale.

Ancora più distante l’intervento di Ian Ernest, rappresentante personale dell’arcivescovo di Canterbury presso la Santa Sede, che auspica una riformulazione della Pastor Æternus del Concilio Vaticano I secondo una “ecclesiologia di comunione”, ossia un primato di comunione che si realizzi a livello universale con le altre chiese, nella linea di una sorta di «sinodalità ad extra», espressione più volte rievocata durante la conferenza stampa.

Fin qui, verrebbe da dire, nihil novi. A destare maggiore preoccupazione è stato invece l’intervento del cardinal Grech, il quale ha proposto il processo sinodale come la cornice più adatta per mettere in atto questa “revisione del papato”. Il punto di riferimento evocato da Grech è il discorso di papa Francesco in occasione del cinquantesimo anniversario del Sinodo dei Vescovi, nell’ottobre 2015. Francesco aveva spiegato che il Papa sta nella Chiesa come un «battezzato tra i battezzati e dentro il Collegio episcopale come vescovo tra i vescovi, chiamato al contempo, come Successore dell’apostolo Pietro, a guidare la Chiesa di Roma che presiede nell’amore tutte le Chiese». Una concezione del papato chiaramente insufficiente, che sembra rappresentare il contenuto effettivo di quella problematica «conversione del papato» che il Papa proponeva in Evangelii gaudium, 32; perché il Papa non è chiamato semplicemente a presiedere nell’amore le Chiese, ma a guidare la Chiesa universale.

Questo riferimento di Grech lascia intuire che la sua proposta di considerare il prossimo Sinodo come l’occasione fondamentale per attuare questa revisione dell’esercizio del ministero petrino in chiave ecumenica, non sarà foriera di buone notizie per i cattolici. Grech ha illustrato il quadro di questa nuova rilettura sinodale: come il Concilio Vaticano II, nella Lumen Gentium, è stata una rilettura della Pastor Æternus del Vaticano I, così il Sinodo potrà essere a sua volta una rilettura del Vaticano II. Vediamo come.

Il cardinale indica la soluzione nella «ecclesiologia conciliare quando la si rilegga nell’orizzonte della sinodalità», perché «non possiamo parlare di primato e collegialità senza collegarli alla sinodalità». Il capitolo di Lumen gentium sul popolo di Dio, ossia il secondo, avrebbe «destrutturato la societas inequalium fondata sulla dicotomia tra Ecclesia docens-discens». Tradotto: secondo Grech, con il Concilio Vaticano II sarebbe venuta meno la divisione tra Chiesa gerarchica docente e popolo di Dio discente. Il cardinale dev’essersi fermato al capitolo due, perché già nel terzo si afferma invece la marcata distinzione tra queste due dimensioni della Chiesa, affidando i tradizionali tre poteri di insegnare, santificare e governare ai vescovi, e non ai fedeli. Si comprende dunque che l’inserimento di fedeli laici con diritto di voto al Sinodo dipenda da e voglia promuovere chiaramente questa ecclesiologia errata.

Se la mai teologicamente definita “sinodalità” ha portato ad un’errata attribuzione ai fedeli battezzati delle potestà proprie dell’episcopato, si può immaginare cosa accadrà per la rilettura sinodale del primato del papa.

Questa preoccupazione è amplificata dalla seguente affermazione del cardinale, a cui bisogna prestare particolare attenzione: la via sinodale si basa sul «principio ecclesiologico affermato dal Concilio, (…) quando si comprende la Chiesa come il corpo delle Chiese, perché è in esse e a partire da esse che esiste la Chiesa cattolica una e unica». Anche quest’affermazione, che si ispira a Lumen gentium 23, è però nuovamente incompleta e, così com’è, porta a conclusioni erronee. La Congregazione per la Dottrina della Fede intervenne con una lettera Communionis Notio (28 maggio 1992), proprio per spiegare che l’affermazione «la Chiesa nelle e a partire dalle Chiese (Ecclesia in et ex Ecclesiis), è inseparabile da quest’altra: Le Chiese nella e a partire dalla Chiesa (Ecclesiæ in et ex Ecclesia» (n. 9). Nello stesso paragrafo, la Congregazione spiegava infatti che la Chiesa universale «è una realtà ontologicamente e temporalmente previa ad ogni singola Chiesa particolare». Dunque, è la Chiesa a partorire le Chiese particolari, come una madre le figlie, ma queste ultime sono vere Chiese particolari, e non “filiali” di una sede centrale.

Ora, è piuttosto chiaro che l’affermazione dell’anteriorità della Chiesa universale si riflette sul modo di comprendere il primato del papa, precisamente come colui che su questa Chiesa universale ha potere diretto di giurisdizione. Se invece si afferma semplicemente che la Chiesa universale si trova solo nelle e a partire dalle Chiese particolari, dunque senza un’anteriorità ontologica, allora ne deriverà quella concezione del papato indicata da papa Francesco e ripresa da Grech: fedele tra i fedeli, vescovo tra i vescovi, con una semplice «presidenza nell’amore» delle Chiese particolari, dal momento che la Chiesa universale non è altro che la comunione di queste ultime. La duplice omissione di Grech – mancata citazione del capitolo III di LG e mancata interpretazione di LG 23 a partire da Communionis Notio – rivela piuttosto chiaramente quale vento tirerà nella prossima sessione del Sinodo.

(Fonte: La Nuova BQ)

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