Morte (e vita pubblica e privata) poco cristiana, parecchio anarchica e per niente eroica di un pover’uomo di Stato, che si credeva lo Stato, ma senza alcun senso dello Stato. Per tacer del “santo”…
di Antonio Margheriti Mastino, da Papale Papale (16/05/2012)
NEI CORRIDOI DELLA SAPIENZA. LA RAGAZZA CHE AMAVA MORO
Guardo adesso, l’ho qui davanti, la sezione della mia biblioteca destinata agli studi sui 54 uomini che governarono l’Italia: i nostri capi del governo, da Cavour a Monti. Le ho collezionate non per fancazzismo, ma per una ragione seria. Un tempo, infatti, avevo deciso di dedicarci la tesi di laurea ai nostri (allora) 53 primi ministri, tanto più che mi dovevo laureare alla sezione storico-politica di Scienze Politiche, alla Sapienza.
Emblematico luogo accademico quello: da lì, fin dagli albori ad oggi, ma ai miei tempi soprattutto, di capi del governo hai voglia quanti ne erano passati, se ne erano fatti, ci avevano bivaccato, persino governato da quel mio dipartimento. Per tacere della mole di ministri e presidenti di qualcosa che ancora vi pullulavano: nei miei anni di studente ricordo Giuliano Amato e moglie, la Diana Vincenzi (che a un esame di diritto privato quasi mi fece piangere, e come non bastasse mi bocciò tre volte in un mese); ricordo Giovanni Caravale che nessuno sopportava da ministro ma che era peggio da professore, e poi Antonio Marzano ministro di Berlusconi, mezzo governo Dini, l’antico Giovanni Galloni, il presidente Capotosti, Fisichella, tanti altri notabili. Spesso avevamo in comune aule e professori con Giurisprudenza, e del resto i locali delle due facoltà si fondevano insieme. Poco tempo prima, sotto le nostre finestre era stata ammazzata Marta Russo, poco dopo era toccato a un altro dell’ambiente: Massimo D’Antona. Anni prima, sulle scale di questa mia tormentata Facoltà avevano assassinato Bachelet, che era accompagnato dalla sua allora giovane (e già brutta) assistente: Rosy Bindi, che lo vide morire; ancora più tardi un altro della nostra Facoltà fece la stessa fine: Ruffilli. Andando ancora indietro con la memoria, c’era stato negli anni ’70 lo scandaloso omicidio-suicidio dei Casati Stampa: il ragazzo che si scopava la marchesa con la benedizione del marchese guardone, era un nostro “collega” di Scienze Politiche. Una Facoltà un po’ maledetta, insomma.
Per concludere: mi piaceva l’idea di scrivere la tesi su capi del governo italiani che, a decine, in quei corridoi avevano lavorato: da Salandra a Orlando a Luzzatti, da Amato ad Antonio Segni, da Giuseppe Pella a Leone. E Moro. Sì, Aldo Moro è stato forse il più assiduo e appassionato frequentatore di quelle stanze, non solo come professore ma specie come “maestro”. Ossia: gli piaceva moltissimo il rapporto diretto con gli studenti, circondarsene, fare seminari con loro, persino in case private: si sentiva allora al suo stato naturale, il Maestro per diritto divino e i suoi discepoli per legge di natura. Si rilassava a fare il prof, quasi un hobby. Negli ultimi mesi della sua vita, conscio dell’amore appassionato che una studentessa dell’alta borghesia romana nutriva per lui, che certamente aveva un suo anomalo fascino, aveva cominciato ad accettare di tenere cenacoli accademici con i suoi studenti in casa di questa ragazza. Sequestrato, indirizzò alla ragazza che lo amava ben due lettere, che per motivi immaginabili, e la famiglia Moro e le istituzioni, avevano tenute lontane dai riflettori. Sì, lui che in vita sua, in qualsiasi contesto sempre in cattedra era stato e mai ne era sceso, alla cattedra universitaria ci rimase attaccato ostinatamente anche quando impegni maggiori avrebbero dovuto allontanarlo.
FORSE ERA MEJO ME STAVO ZITTO. AL CONTRARIO DI COSSIGA IL COBRA SOFFIATORE
E’ di Moro che voglio parlare. No no, mica per fare un’analisi storico-politica del personaggio, Dio me ne scampi: ne sarei capace, sia chiaro, ma la pigrizia me lo impedisce. Oltretutto non servirebbe a una mazza su questo sito. E per giunta mi annoierei da morire: in caso, ci sono tanti libri seri sull’argomento che potreste consultare. Gli stessi che ho qui davanti a me: decine di volumi biografici e analitici, la metà dei quali con la stessa dignità scientifica delle agiografie di santi del primo millennio, pessimi, se escludiamo la prima analisi critica e acida post-mortem, quella di Italo Pietra Moro: fu vera gloria?; libro coraggioso e facondo di un antico cavallo di razza del grande e perduto laicissimo giornalismo d’inchiesta all’italiana, del quale riparleremo. Anche se direi che l’opera più profonda, seria, lunghissima, puramente politologica, e per tutte queste succitate qualità, pedantissima e noiosissima, è quella scritta da don Gianni Baget Bozzo. Teologo mirabile, politologo stimabile, prete malamente, uomo peggiore.
Non voglio analizzare né psicoanalizzare Moro, non voglio ricostruire una ceppa di niente. Dice: che scrivi a fa’ allora?, ma statte zitto e nun fa’ perde’ tempo alla ggente! Sì, dovrei chiudere qui il discorso, anche perchè alcuni mi ricordano che Moro ha lasciato al mondo una famiglia assai suscettibile, dalla querela facile, come è anche facile alle recrimininazioni. Per esempio (vi dirò in seguito), l’unico maschio di Moro, il figlio Giovanni, or sono un quattro anni, querelò nientemeno Cossiga, così stimato dal padre, per “diffamazione” (vedi qui: http://www.blitzquotidiano.it/politica-italiana/cossiga-indagato-torino diffamazione-figlio-aldo-moro-342513/). E l’ex presidente, come suo costume, se la legò al dito per poi vendicarsi: da allora, infatti, non perse occasione di sputtanare i Moro, raccontando in pubblico, nelle interviste, nei libri, particolari intimi piuttosto imbarazzanti della famiglia del leader DC. Cossiga era così: se lo provocavi, se lo sfidavi, stante la sua lunga consuetudine questurina con il lerciume degli incartamenti degli italici servizi più o meno segreti più o meno veritieri e più spesso no, dei quali dal Viminale sempre si era occupato, stante questa sua mal-forma mentis, pigliava carte o ricordi con cose riservate su di te, foss’anche una cartella clinica con dentro i cazzi ed emorroidi tua (se eri fortunato), e li gettava sornione in mezzo la strada in pasto al pubblico. Poi, magari pentito o simulando contrizione, porgeva le sue scuse: a buoi scappati, naturalmente… se no che vendetta è?
In effetti molte cosette delle quali vorrei dire, dove la gola profonda è proprio manco a dirlo il Picconatore, pure quelle le lascerò cadere: qua non stiamo oltretutto su Dagospia, sito che fra le altre cose pare avesse proprio Cossiga fra i suoi principali cobra soffiatori. E sia chiaro: manco per niente voglio discettare della tipologia di cattolicesimo di Moro, se fosse dossettiano o meno (e non lo è, secondo me, non del tutto). Dice: non vuoi parlare di Moro politico, non di quello cattolico, non vuoi parlare manco di Cossiga cobra, non vuoi parlare de ‘na pippa e nonostante ciò stai blaterando da mezzora… ma de che voi parlà nzomma?
NON ERA UNO STATISTA: ERA UN IDEOLOGO. LAICO!
Ma di niente. Bazzecole, pinzellacchere, quisquilie. Spunti, ecco, cosette che ho trovato qua e là su Moro, da quel lettore e bibliofilo onnivoro e compulsivo che sono. Cosette che però mi hanno fatto riflettere a lungo. Su questo statista che ho sempre avuto sullo stomaco.
E prima di dire perchè non lo reggo, fia cosa laudabile soffermarci un secondo sul termine “statista”. Lo era il Moro? No, direi. Se a questo termine, pomposa Treccani a parte, devo dare la definizione che ne ha dato un uomo attendibile stante il suo curriculum. Tal prof. Francesco Cossiga, sempre lui: “E’ uno statista colui che governa avendo come vero e unico criterio lo Stato. Anche per Mussolini il fascismo era una pseudocostruzione ideologica ma tutta basata sul primato dello Stato. E infatti i grandi statisti italiani sono stati soltanto Cavour, Giolitti, Mussolini e De Gasperi”. Moro no, sostiene questo suo allora giovane prediletto. “Non fu uno statista né un grand’uomo di governo. Fu un grande leader politico-ideologico. Forse il più grande. Laico. Non come Andreotti. Andreotti era il segretario di Stato permanente della Santa Sede. Moro era laico nell’agire”.
A proposito di questa sua “laicità” e più ancora del suo essere “leader politico-ideologico”. Ascoltavo qualche mesotto fa Giuseppe De Rita al convegno romano pieno di dinosauri che celebrava il non so più quanti “secoli” della DC – certo è che se li portava malissimo a giudicare dai 2/3 d’ospizio che c’era in sala, e per il restante comunisti scudocrociati, De Mita e Bindi in primis – . Ebbene, il dinosauro di Stato, arcivescovo del dossettismo e dottore serafico del cattocomunismo, De Rita, racconta questo episodio.
Anni ’70, Moro e Andreotti aprono una polemica a distanza, sulle illeggibili e anestetizzanti riviste di solfa ideologico-omiletica democristiana, ciascuno su quella della sua corrente o spiffero politico. Moro con dolorante sicumera da abate Faria dice: “La politica ha il compito di orientare e dirigere la società”. Un programma decisamente e radicalmente rivoluzionario, leninista. Risponde Andreotti con gelida cattolica-romana saggezza di alta sacrestia d’altri tempi: “No, la politica non ha il compito di orientare né dirigere un bel niente. Tantomeno la società. Ha semmai il dovere di accompagnarla, sostenerla, assecondarla, seppure in modo vigile, nella strada che ha intrapreso”.
Qui si vede l’astrattezza ideologica del primo – pensavo fra me e me – e la concretezza scettica del secondo. Qui, pensavo sempre, si vede quanto la Dc fosse utile, nell’uno e nell’altro caso, al cattolico: almeno quanto a me è utile una cirrosi o un carcinoma. Qui si vede pure, mi dicevo, come Moro abbia potuto teorizzare e realizzare il per nulla casto connubio con i socialisti, la stessa cosa che stava per fare con i comunisti; e, dal canto suo, Andreotti, teorico dell’assecondare la società nel suo cammino, firmare la legge sul divorzio e guidare un governo, il primo, sostenuto dai comunisti. E nonostante ciò, sentirsi la coscienza a posto.
Ma non rischiamo di fare della politologia, altra scienza amena gentile omaggio del secolo passato, maledettissimo. Stiamo alle bazzecole-pinzellacchere, come promesso.
L’ECCENTRICITÀ D’ACCETTAR CARICHE ISTITUZIONALI CONTROVOGLIA
Da “studioso” della storia dei governi italiani mi sono sempre meravigliato di una cosa. Mentre durante il Regno d’Italia la presidenza del consiglio era il vertice delle aspirazioni e anche del potere dei notabili liberali, poi, con la prima repubblica, le cose son cambiate. Un po’ perchè comunisti e democristiani alla Costituente, diffidenti gli uni degli altri e incerti sull’esito che avrebbero avuto le prime elezioni repubblicane, ancora ossessionati dai fantasmi del governo autoritario fascista, erano interessati, chiunque avesse prevalso, a dar vita a governi di gracile costituzione, anemici di poteri, paralitici nelle articolazioni, rachitici da cadere come foglia secca al primo venticello. Un po’ perchè i democristiani, poi, superata l’era degasperiana, del governo se ne strafottevano. Non erano uomini di stato, erano uomini di potere, talora ideologi, intellettuali, o gente di sacrestia che da perfetti chierici avevano imparato l’arte di non essere ossessionati dalle cariche, smania indecorosa, appariscente, vanitas vanitatis, e anche perchè spesso altro non erano che gusci vuoti. Sapevano infatti i giovani marpioni da sacrestia DC, che il potere spesso era altrove, nella sfera magica delle indefinibili alchimie che li raccordavano alle masse dalle quali promanava la potenza che essi avrebbero incarnato come sacerdoti austeri e terribili. Nei partiti, per esempio, nei posti più grigi e apparentemente meno gallonati e appetibili. Ma i DC non erano dei vanitosi, erano uomini di geometrico realismo.
Apro qui adesso un libro di storia repubblicana a caso… una Storia dell’Italia Repubblicana di un allora giovane Giorgio Bocca… sfoglio… ecco un esempio: ennesimo governo Moro negli anni ’70, Forlani è chiamato agli interni, il più nobile dei ministeri, ma scocciato e sbadigliante lo rifiuta. Misteri democristiani! Oggi non accadrebbe: magari succede che abbandonano il partito se non hanno ottenuto il ministero. Forlani, da vecchio chierico DC, sapeva però che non stava rinunciando al potere: sapeva di rinunciare soltanto a un potere formale per uno sostanziale; sapeva, da vecchio residuato di sacrestia, che molte volte il vicario generale di una diocesi dal suo posto riesce a contare più del vescovo. È gusto del potere allo stato puro, è roba da intenditori sopraffini.
SE NE FREGAVANO DEL GOVERNO: AVEVANO IL SENSO DEL POTERE MA NON DELLO STATO
Dunque, cosa mi meraviglia? Voglio ancora insistere sul concetto di prima. Conosco più o meno tutti gli uomini che sono stati ministri della prima repubblica, e conosco tutti i primi ministri di quell’epoca. E mi sono sempre meravigliato (ma fino a un certo punto) di come questi qui talora rifiutassero con assoluta leggerezza se non indifferenza cariche che altri avrebbero ucciso per ottenere. Per una cazzata banalissima rifiutavano di essere ministri degli esteri, per scetticismo e pigrizia rinunciavano al ministero della giustizia, con svogliatezza salivano al Quirinale per essere incaricati di formare il governo, e alla prima scusa se ne lavavano le mani rinunciando e rifilando ad altri l’incarico, che con eguale apatia sì e no l’accettavano. Ma come, mi chiedevo, ma possibile che un figlio di operai, di contadini, di maestri di scuola gli capita l’occasione più unica che rara di essere il successore di Cavour, di Crispi, di sedere sulla poltrona che fu di Giolitti e Mussolini, e se ne sbatte altamente? Probabilmente, mi rispondo, partito di governo senza alternativa la DC, carriere politiche che diventavano al suo interno a vita, per loro non era affatto un’occasione unica e nemmeno rara una poltrona del genere: prima o poi gli sarebbe ricapitata. O più realisticamente, uomini di potere puro, sapevano benissimo che presidenza del consiglio e ministri non contavano davvero quasi una cippa. Il potere era altrove, nel partito, lì era anche il segreto della loro longevità politica. Significa anche che mentre avevano il senso del potere, al contempo mancavano di senso dello Stato. Non è un caso che tutti i democristiani che avevano più senso dello Stato che non del potere, prendi Scelba, videro cessare la loro sfolgorante carriera già negli anni ’50, agli albori della repubblica cioè, mentre evaporavano anche i ricordi del degasperismo, altro uomo tutto senso dello Stato e zero del potere.
In questo c’è anche un’altra qualità del chierico democristiano: le virtù da sacrestia della pazienza e della temperanza. O come diceva Machiavelli, “dell’essere golpi per sbigottire i lupi”.
Ecco, Moro questo, tutto questo lo aveva capito.
LA TEOLOGIA DEL POTERE DI MORO: CONTANO I “DISEGNI” NON I FATTI
Moro era così. Tutti erano concordi nel dire che del governo non gliene fregava nulla. A meno che questo non fosse stato veicolo per realizzare in potenza, come disegno nell’aria, il contesto per un mutamento ideologico, parafulmine terreno di astrattezze speculative, “ragionamenti” che fluttuavano impalpabili lassù nel cielo, nella speranza che presto, non sapendo come e quando, s’abbattessero sulla testa degli uomini, delle cose, della nazione mutandone la forma e la sostanza, polverizzando in un attimo quello che era prima. Sistema di pensiero moroteo, che in soldoni poteva così sintetizzarsi: mutare i massimi sistemi con la forza d’urto dell’inerzia. Con lo scetticismo del “servir non credendo”. E in definitiva accontentarsi del “disegno” soltanto, anche perchè già fare il “disegno” maledetto, per il Moro corrispondeva all’aver assolto al 99% del compito… e questo è quanto!
Cose da intellettuali della Magna Grecia appunto, da ideologi, e Moro ideologo era. Un teorico fumoso. Quando nel 1963 gli fu, giovane com’era, consegnata la guida del governo, succedendo al ducetto Fanfani che aveva messo tutti in allarme, non solo per i suoi trascorsi di “mistico fascista”, per la quadrata mascella, le mani sui fianchi, il concionare metallico, isterico e ducesco, ma soprattutto per il suo strafare attivista, nevrotico e alacre, per essersi autoincoronato con la tiara dalla triplice corona di capo del governo, ministro degli esteri e segretario della Dc, ebbene succedendo al Mezzo Toscano sapete quale fu l’atteggiamento di Moro? Di svogliatezza, stanchezza, indifferenza. Era diventato il successore di Cavour e lui non se ne fregava niente, nemmeno ci pensava. Viveva il governo, l’amministrazione concreta del potere, come un impiccio, una faccenda futile. Erano le idee, e più che le idee i disegni fatti col dito ad altezze incommensurabili, fra le nuvole. Il quotidiano, che è la realtà del governo – gli spazi angusti e delimitati di legalità entro cui si muove, – non lo interessava: le sue astrattezze dai contorni sfumati dovevano fare a meno dello spazio e del tempo, della quotidinità appunto. Lui era già oltre la terra, nel limbo semantico di iniziati angelicati, ancora di forma umana ma già stemperati in essenza acorporale, asessuata, in ogni caso ormai mondati dalle passioni umane e liberati dal destino dei comuni mortali. Creature sospese, a metà fra cielo e terra, semidei. Ecco, così moralmente, politicamente e intellettualmente si percepiva Moro.
Era una teologia del potere la sua. La legittimazione a permanere sulla scena a un così svogliato e pessimo governante era data non dai risultati della sua vaporosa azione di governo, ma da una giustificazione per sola fide nella politica come sinfonia di idee astratte, e più che dalle idee dai “disegni” morotei; che poi altro non erano che un “ragionar” allo sfinimento purchessia, disegnar ragionando. Al di là dello spazio e dei tempi, al di là del bene e del male. Per diritto divino, volontà degli arcana imperia, rassegnazione devota della nazione, paralisi provvidenziale del sistema, forza dell’inerzia di Moro stesso.
Un simile fancazzista cervellotico in qualsiasi paese normale non sarebbe stato cacciato a pedate dal Palazzo: non ci sarebbe mai entrato a Palazzo: in Inghilterra sarebbe rimasto un direttore delle poste a Liverpool, a Mosca un campione di giochi agli scacchi, in Germani non avrebbe avuto neppure il fegato di essere un burocrate dello sterminio. De Mita era uguale: pur mancando della sottigliezza di Moro, era egualmente incomprensibile: in più aveva la volgarità, fisica, di stile, morale, linguistica anche… mentre Aldo era pur sempre un gran signore; come Moro, De Mita era privo di senso dello Stato, più di Moro però aveva il senso del potere, ma un senso terragno, territoriale, aggressivo, animale, cagnesco, da guappo assessore al bilancio vita natural durante del comune di Nusco. De Mita era un anticlericale e un agnostico, non aveva nessuna reale fede se non come dato culturale, nominale: Moro ci credeva sul serio.
LE IMPRESENTABILI FAMIGLIE DEI POTENTI
Pure le mogli dei leader democristiani erano così… come dire?… donnone de casa, matrioske russe come quelle dei leader sovietici. Se si esclude la signora Leone, la bella e giovane donna Vittoria, della quale però ci si accorse solo dopo l’elezione al Quirinale del marito che pure aveva cariche ininterrottamente dagli albori della repubblica, le altre mogli di notabili DC non solo mostravano totale indifferenza e spesso fastidio per la carica altissima conquistata dal marito; ma questa loro apatia era visibile anche fisicamente, nella sciatteria con la quale si vestivano, si conciavano, si comportavano. Dalla ostinata vocazione all’invisibilità, alla repulsione per i teleobiettivi. E onestamente, massaie rurali e provinciali come erano rimaste, non era manco decenza presentarsi o presentarle in pubblico. Qualcuno dirà che i leaders democristiani sembravano perennemente “vedovi e senza prole”, e forse fu Pansa a dire che in un congresso DC si respirava ferale aria “vedovile” ma al maschile. Tutti indici che ci indicano di quanto poco incidesse, rispetto, che so, alle first ladies americane, il potere, le cariche istituzionali sulla vita privata dei capi democristiani, su mogli e figli. Eleonora Moro gli italiani la conobbero soltato all’uccisione del marito: solo in un’occasione ufficiale in cui era obbligatorio l’accompagnatrice fu vista e fotografata, con un fazzoletto in testa come una contadina marchigiana, accanto al marito. Non mise mai piede in alcun palazzo del potere. Così le altre signore della repubblica. C’è qualcosa di molto curiale, di celibato ecclesiastico figurato in questi atteggiamenti, di monacale e di sacrestanesco. Dopotutto i notabili della DC non abbiamo detto si percepivano come austeri sommi sacerdoti del potere? Dunque, le loro “perpetue” non c’era bisogna salissero sull’altare: la canonica bastava e avanzava.
I MORO? “UNA FAMIGLIA PASTICCIATA”. ELEONORA “GLI RESE UN INFERNO LA VITA”. PAROLA DI COSSIGA
A proposito della famiglia Moro. Difficilmente i grandi leader italiani sono fortunati con i figli. Del resto è difficile competere con padri tanto ingombranti. Se questi padri riescono a mettere al mondo dei figli mediocri è già un successo. Se non ne mettono prorpio al mondo, è grasso che cola. Più spesso hanno famiglie penose in tutti i sensi, per mogli e figli. Fin qui parlo in generale.
Andando nel caso specifico mi ha molto colpito scoprire una cosa sulla famiglia Moro. Qualcosa che non la fa proprio corrispondere al santino di sacra famiglia che in contemporanea alla canonizzazione laica di Moro, quale presunto santo dottore e martire (e a momenti pure vergine) di una sorta di res-publica christiana immaginaria, gli è stato dipinto addosso. Viene fuori una famiglia Moro lacerata, con figli contestatori, con la madre che un giorno sì e l’altro pure veniva alle mani con le figlie, di una moglie che aveva pessimi rapporti col marito, di un Moro che ogni sera cercava ogni scusa per non rientrare a casa prima dell’una di notte, di modo da trovare moglie e figli già a letto; che non trovava neppure un piatto coperto, tanto che si faceva un uovo al tegamino da sé nottetempo. Chi racconta tutto questo è sì uno che si è legato al dito le insolenze e le eccentricità di alcuni figli di Moro, che “giocano a fare i figli della vittima”; è anche un amico stretto di Moro, col quale il leader si confidava per sfogarsi di tutte le amarezze che subiva in famiglia; è persino un uomo potente, che a sua volta ha anch’egli una tristissima e desolante, nonché fallimentare, storia coniugale alle spalle: è Francesco Cossiga. Il quale, facendomi rimanere di stucco, in un libro con Sabelli Fioretti racconta del periodo che precedette il sequestro Moro:
“Io e Andreotti conoscevamo la vera situazione della famiglia, una famiglia pasticciata… con le moglie Eleonora le cose non andavano bene… Se Moro ti incontrava alle dieci di sera eri fottuto perchè ti teneva a discorrere fino a mezzanotte pur di non tornare a casa presto. Lui tornava a casa all’una e si faceva un uovo al tegamino. Quando lessi [nelle lettere dalla prigionia] ‘Dolcissima Norina…’ Andai da Andreotti e gli dissi: ‘Qui c’è qualcosa che non funziona… dolcissima Norina? Ma quale dolcissima Norina?’. Pensi che quando fu pubblicata la prima fotografia da sequestrato lui aveva un cerotto in faccia. Noi dicemmo, mentendo, che tirandolo fuori dalla macchina i brigatisti lo avevano fatto sbattere contro la portiera ferendolo. E non era vero. La verità è che lui era andato a sbattere contro un comodino e si era fatto male cercando di separare la moglie e la figlia”… che se le davano di poco santa ragione. Probabilmente è di Maria Fida Moro che si parla.
Vedremo come i figli di Moro prenderanno nella loro vita strade politiche (e non solo) del tutto divergenti dall’indole e dalle idee di Moro. Il guaio più grosso, però, è che cominciarono a imboccarle già a babbo non ancora morto. Sbattendogliele in faccia. E per giunta, nei momenti più difficili e sofferti della carriera del padre. Ora, non c’è cosa più brutta e umiliante nella storia domestica di un padre di famiglia, che ha dato tanto lustro alla famiglia col suo solo lavoro, che ritrovarsela compatta e all’unisono recriminante, tutta contro, nei momenti in cui avrebbe più bisogno del sostegno di ciascuno. È così che Cossiga racconta a Renato Farinaquesta amara storia familiare dell’amico Aldo: “Non accetto il ruolo di Eleonora Moro come sposa innamorata. Gli rese la vita infernale. Lui resisteva in casa solo perchè tornava tardi la notte. Non voleva mai rientrare, sperava che la moglie dormisse. Altrimenti erano litigi con lei o con i figli da lui amatissimi. Lo ricordo una volta scendere dall’aereo in arrivo da Bari da dove era giunto con la famiglia. Era rabbuiato: gli avevano detto in coro (moglie e figli) che non avrebbero votato Democrazia Cristiana. In quel momento in cui si decideva tutto quanto il loro padre avesse a cuore…”.
A proposito di Eleonora, un amico, attivista pro-life, su facebook mi ha raccontato una cosa, che spero (anzi, no) sia vera. Questo amico, dunque, Fabrizio, abitando come la moglie di Moro all’EUR, frequentava anche la sua stessa messa domenicale. Una volta, all’uscita, l’ha voluta salutare. E le ha posto delle domande a tema… cattolico, su divorzio e aborto. Ora non ricordo i termini esatti, però in soldoni la vecchia gli rispose: “Noi dobbiamo molto al femminismo, e a questo è dovuta l’emancipazione. La donna ha il diritto di poter scegliere. Anche se portare avanti una gravidanza”. Se è vero, la Bonino non avrebbe saputo dir di meglio. Il peggio è che si era all’uscita dalla messa. […]
“DI PROFESSIONE FIGLIO DELLA VITTIMA”. DICE COSSIGA DI GIOVANNI MORO. CHE LO QUERELA
E per la verità alla domanda di un giornalista – “dalle lettere di Moro traspare un forte legame con la moglie….” – il figlio Giovanni ha risposto dicendo e non dicendo: “Sì, ma era un rapporto molto… insomma, nella vita famigliare, Moro non era granché presente. Lui usciva la mattina, e magari tornava alle due di notte. Non c’era la domenica, nè le feste… Non ricordo che fossimo andati, neanche una volta a mangiare fuori. Se si voleva chiacchierare con lui, lo si faceva da mezzanotte in poi, e per cena lo si doveva aspettare. Non esisteva la dimensione quotidiana”. Che grossomodo conferma le confidenze di Cossiga. Se non fosse che la stessa Maria Fida Moro a sua volta, a conferma dei cattivi rapporti famigliari, proprio sul fratello Giovanni poco tempo fa ha fatto insinuazioni terribili (vedi qui testo completo: http://orianomattei.blogspot.it/2012/03/34-anni-dalla-morte-di-aldo-moro-la.html):
Qualche giorno dopo il sequestro, i miei fratelli non volevano che io partecipassi ai funerali degli uomini della scorta (…) Quell’episodio fu l’inizio della guerra in famiglia contro di me e costituì uno dei punti di svolta dell’intera vicenda Moro. La tensione era tale che un giorno mia madre si gettò in ginocchio e, in lacrime, mi supplicò di andarmene via di casa (…) Io mi sarei battuta per fare esattamente quello che papà ci chiedeva dalla «prigione del popolo». Voleva che ci mobilitassimo, che facessimo qualcosa per tirarlo fuori da lì. E probabilmente io sarei riuscita a convincere anche la mamma. Ma forse era quello che qualcuno temeva. La liberazione di Moro non era proprio l’obiettivo della famiglia? È ovvio che fosse così. Ma a giudicare dai fatti, chi dava suggerimenti al resto della famiglia doveva essere proprio un pessimo consigliere. Un gruppo esterno aveva «occupato» casa nostra sin dal giorno del sequestro: quelli del movimento Febbraio 74 diretto dall’avvocato Giancarlo Quaranta, cui aveva aderito mio fratello Giovanni. Quindi io in casa davo molto fastidio. Ma perchè? Bisognerebbe capire come ragionavano i leader di quel movimento, dove volevano andare a parare e se a loro volta erano consigliati da altri. Certo è che avevano la pretesa di «gestire» l’atteggiamento della famiglia: loro, non Aldo dalla prigione, non Eleonora dall’esterno, e tanto meno la figlia primogenita Maria Fida che era stata cacciata di casa (…) Mio padre conosceva il movimento Febbraio 74. E lo detestava. I suoi collaboratori mi avevano raccontato che, nelle elezioni del 1976, Febbraio 74 aveva fatto campagna contro la Dc con un manifesto in cui si accusavano i democristiani di essere tutti ladri, e che tra i primi firmatari c’era anche mio fratello Giovanni. Mamma poi riferì che papà si era talmente offeso che, da quel momento, non aveva più voluto rivolgere la parola a mio fratello: comunicava con lui soltanto tramite lei.Questo movimento indirizzava la mamma e i miei fratelli verso un atteggiamento che, a mio avviso, non avrebbe potuto mai portare a risultati positivi. Un atteggiamento di chiusura, di astio nei confronti di tutto e tutti. Riuscirono a mettere la famiglia persino contro la Dc. Rimanemmo completamente isolati. Era a questo che si riferiva Francesco Cossiga, quando diceva che all’interno della famiglia c’era chi si comportava come se non volesse la liberazione di Moro? Sembrerebbe un paradosso, ma ho ragione di ritenere che Cossiga si riferisse proprio a questo. Tra le persone che giravano in casa in quei giorni, oltre a tanti cari amici, c’era anche chi sembrava essersi introdotto esclusivamente per dividerci. Di questo io sono sempre stata convinta. Se fossimo rimasti uniti e avessimo seguito i consigli di papà, avremmo fatto tutto il possibile per salvarlo rivolgendoci direttamente all’opinione pubblica. Papà ci diceva che sarebbero bastate le firme di 100 parlamentari per costringere lo Stato a trattare. Ma invece eravamo divisi, isolati, troppo deboli. Inevitabile che finisse com’è finita.
Ma perché mia madre lasciava fare? Possibile che non si rendesse conto?
Si illudeva che in quel modo potesse limitare i danni mantenendo almeno un’unità formale della famiglia. Sapeva che io avrei comunque rispettato le sue decisioni. Pur non condividendole e sapendo che cosa diceva papà di quel movimento. Pensi che, sin dal 16 marzo, i suoi capi si comportavano come se la nostra casa fosse la loro, sentendosi in diritto persino di spostare.
Così Maria Fida, la figlia “ribelle”. Non più la “sola”… a quanto pare. InFida? Bah: qui pare molto lucida e sincera.
QUEL “MATTO DI GIOVANNI MORO” CHE NON SE LA PRENDE MAI COI COMUNISTI. FIRMATO COSSIGA
Certe volte mi verrebbe da sospettare – e per la verità, qui pure, è Cossiga che fa filtrare l’insinuazione – che quando i media si scordano del clan dei Moro, questi poi per rinfrescare la loro memoria e finire sui giornali, si inventino un altro nome da aggiungere alla lunga lista di quelli che già hanno accusato di come minimo “omicidio colposo” (e magari pure “premeditato”) nella persona del padre. Tutti, tutti hanno accusato: tranne i comunisti, e Berlinguer, che fu il più granitico e persino leninista spietato assertore della linea della fermezza a qualsiasi costo, a cominciare dalla pelle di Moro. Confessa Cossiga nel suo commovente libro-testamento a Renato Farina proprio a proposito di Giovanni Moro che definisce “matto”:
“Devo dirla questa banale verità. Ci si dimentica sempre questo: che gli assassini sono i brigatisti. E che tra coloro che hanno deciso la condanna a morte c’è, e in una posizione decisiva, di intransigenza estrema, Enrico Berlinguer con il suo Partito Comunista (…) Perchè gli assassini di Moro, secondo i suoi familiari, siamo io, Zaccagnini e Andreotti? Avete mai sentito parlare uno della famiglia Moro dire che la linea della fermezza era voluta innanzitutto da Berlinguer e dai suoi? Perchè i comunisti fanno ancora paura (…). Nel suo ultimo libro, quel matto di Giovanni Moro indica queste persone come gli assassini del padre: me, Andreotti, Zaccagnini e… papa Paolo VI! Ancora una volta Berlinguer lo lascia fuori. Nessuno della famiglia l’ha mai lontanamente indicato anche solo come appena appena responsabile. O i comunisti sanno su di loro cose per cui li minacciano oppure la realtà è metafisica e fanno paura in sè”.
Paolo VI mò a sentire il clan (Giovanni specialmente) incorreggibile dei Moro, è l’ultimo loro acquisto per completare la collezione già affollatissima di preziosi pezzi da 90, insigniti graziosamente del titolo di “assassini” del padre. Prima o poi tireranno in ballo pure il “destino cinico e baro”. Se non fosse che… a sentire Maria Fida (leggi intervista sopra), pare invece che qualche responsabilità nella gestione confusa della faccenda ce l’avrebbero proprio loro. Il fratello Giovanni in primis. Qualche critico esame di coscienza per ogni membro della vivace famiglia Moro, forse, giunti a questo punto, sarebbe consigliabile.
MARIA FIDA. MA NON FIDA…RSI È MEGLIO
Personaggio curioso assai, questa figlia di cotanto padre. Che si ostina a impicciarsi di politica senza capirne assolutamente nulla – com’è destino dei figli dei grandi politici, specie quelli morti in tragico odor di “santità” laica – facendo solo pasticci. Non capendo che non si fa politica con i sentimenti domestici o con le nevrosi domestiche, che non la si può fare per vendetta, né in memoria del caro estinto, memoria assai spesso travisata da figli stessi non di rado viziati e incapaci di comprendere la reale portata politica dei genitori. Che si tratti di Stefania Craxi o di Maria Fida Moro. Semmai di un vizio dei genitori, quello sì, sono portatori sani (ma non troppo): considerare il potere, le cariche, in una parola la cosa pubblica, come un bene immobile, di famiglia, una proprietà privata, da ereditare pari pari. Per diritto divino e meriti sul campo, assai presunti, dei genitori.
Ma dicevo di Maria Fida Moro, già madre di Luca che ha aspirazioni di cantante e, va da sé, qualche testo (e man mano tutti) lo ha “ispirato” al celebre nonno. Ebbene, Maria Fida ha avuto una fulminea e infausta esperienza parlamentare nella X legislatura, dove si è segnalata più che altro per le polemiche inutili e a vuoto ma soprattutto per essersi girata in un solo mandato tutto l’arco costituzionale e oltre: eletta in Puglia, terra del padre, al senato per la DC nel 1987, nel 1990 è già passata al gruppo di Rifondazione, nel 1991 – e qui c’è da ridere! – in quello del MSI candidandosi pure a sindaca fascista di Fermo. Ma mica si è fermata, no! È arrivata a essere fra i fondatori di Alleanza Nazionale, ma l’acqua di Fiuggi deve averle procurato impropri effetti diuretici se è vero che poco più tardi si è candidata alle europee per Rinnovamento Italiano-Dini: un plebiscito: 900 voti, ultima dei non eletti. Nel frattempo aveva trovato pure il tempo di scrivere una commedia teatrale insieme al figlio (io l’ho vista per caso: per carità di patria… fia laudabile tacerci!), naturaliter intitolata “Un 8 maggio”, cioè data della morte di Moro, che a me sembrò una trovata di cattivissimo gusto, come un voler spremere l’ultima goccia di sangue da un cadavere. E probabilmente ha ritenuto di non aver spremuto abbastanza se allo scoccare del Terzo Millennio si è scoperta – dopo essere stata democristiana, fascista, comunista, diniana – fiammeggiante pasionaria del Partito Radicale. Qui pure, alle solite: ha fondato [leggo da wikipedia] l’Associazione Radicale “Sete di verità – che attraversa le nostre vite”, che si propone di affrontare le verità che asserisce negate dal caso Moro ed episodi quotidiani di informazione non veridica, “disattenzioni” delle istituzioni, di impossibilità per le vittime e per gli ultimi di avere voce ed ascolto”. Ovverossia, in termini meno vittimistici, un modo di passare la giornata ad accusare ora questo ora quello, ora Cossiga ora Andreotti, di correità o premeditazione o colposità nel sequestro e uccisione del padre da parte delle BR (vedere per credere).
FARE DELLE LETTERE DEL NONNO CANZONI. CON MORUCCI AD APPLAUDIRE
Ancora una volta, avrebbe detto Cossiga (lo ha detto al fratello di Maria Fida, Giovanni, l’unico maschio di Moro), il professionismo del “figlio della vittima”. E nonostante tutto questo pandemonio, alla fine non ha neppure partecipato al funerale della madre Eleonora, morta ultranovantenne nel 2010. Funerale, del resto, com’è giusto celebrato dal più vieto clero cattocomunistizzato. Poco prima, il figlio Luca aveva sfornato una canzone blues per il nonno, Se ci fosse luce, avendo il “buongusto” di ricavarne il testo dalle lettere del nonno prigioniero: ospite d’onore in platea, Valerio Morucci, il terrorista delle Br che partecipò al sequestro del nonno e all’uccisione degli agenti di scorta. Tutte le lagne finiscono in blues. E in omaggio alla logica la signora Maria Fida per l’occasione denuncia che non può parlare del padre in televisione perchè “nella tv pubblica di recente hanno rievocato il povero Domenico Ricci, autista di Moro, ed è giusto ricordare le persone non note, però a noi non è stato consentito ricordare Aldo Moro. Inoltre lo Stato in questi anni ha delegato agli ex brigatisti il compito della memoria”. E tutto questo con invitato speciale, allo spettacolino canoro-familista, proprio il sequestratore del padre e l’uccisore della scorta: sempre il Morucci (che plaudente ma spocchioso, per l’occasione s’improvvisa critico musicale, storico, politologo e persino moralista, rievocando proprio l’affaire Moro). Senza contare anche la poltrona d’onore riservata ai terroristi Fioravanti e D’Elia: a momenti dentro quella sala dei Radicali sembrava essere ripiombati negli anni di piombo. Ma come fai a no ride?
MARIA FIDA VUOLE CLINT EASTWOOD. TRA SCENEGGIATURE E SCENEGGIATE
Leggo ancora: “Maria Fida Moro vorrebbe che l’anniversario della strage fosse l’occasione per ricordare l’umanità dello statista, il padre, il nonno, non c’interessano i misteri. Spesso invece è stato ridotto ad un oggetto nel portabagagli di una Renault”. Ci manca poco che non si precipiti dal “portabagagli” al Bagaglino, seguendo questo andazzo. E ci è andata vicino quando ha detto che vorrebbe fare un film su “com’era mio padre Aldo Moro e vorrei Clint Eastwood come regista”. Anzi, è andata già oltre. Se è vero come è vero che ha aggiunto: ““Questo film surreale comincerà in una buca di quelle usate per la ginnastica artistica piena di palle di gommapiuma e l’attore che impersonerà papà parlerà con un ragazzo a proposito del senso dell’essere. Così comincerà”.
”Per ora – spiega Maria Fida Moro – ho sul tavolo sette ipotesi di sceneggiatura”: quanto i peccati capitali. “Tutte scritte da me”, precisa: una garanzia! ”Luca, mio figlio e nipote adorato da Aldo Moro, scriverà la colonna sonora del film: questa è l’unica condizione che porrò. Nel caso ci servisse un Moro giovane, a interpretarlo sarà proprio Luca, che oggi ha 32 anni”. E siamo già alla seconda, e fatti bene i conti alla decima pretesa: si sa, la mamma è mamma e i figli so piezz e core. Sarà un caso se ancora stiamo aspettando questo capolavoro del kitchs all’amatriciana cinematografica. Mentre non stiamo nelle mutande per l’ansia di assistervi, magari accanto a Moretti: sono passati già 3 anni. Auguriamoci ne passino altri 30. Ma siccome la signora (a cercare su google è una fonte inesauribile la Maria Fida) ama smodatamente la logica, così conclude l’intervista: “Mio padre non era un pacco ma una persona che va ricordata nel giusto modo. Oggi preferisco il silenzio, che è più rispettoso”. Queste furono le ultime parole famose. Ma non le ultime parole. Purtroppo.
MORO “E’ LA BONTÀ”
Ma ora basta, me so’ scocciato de ‘sta lunga premessa de bazzecole-pinzellacchere-quisquiglie.
Veniamo al nocciolo della questione.
E ancora una volta il casus belli me lo offre la logorroica Maria Fida Moro. “”La verità è che se Aldo Moro tornasse, lo ucciderebbero ancora. Lo metterebbero a morte tutti coloro che hanno voluto la sua fine e non parlo solo dei brigatisti. C’è ancora oggi un rancore – nota la signora Maria Fida, autore de ‘La casa dei cento Natali’ – che serpeggia sottile nei confronti di mio padre. Interrogarsi sulla sua morte è come interrogarsi sulla morte di Cristo: come il Nazareno lui dava scandalo perché era buono. Questa era la caratteristica della sua politica: la bontà. Questo era il modo di essere di Aldo Moro: non un debole, ma un grande maestro di coraggio e di pace“.
Ci risiamo col santino. Ci risiamo con l’ennesimo gesucristo laico. Oggi per tutti tale è: per la famiglia che certo non addolcì i suoi ultimi anni; per i democristiani che pure fra mille tormenti si erano rassegnati al male minore, salvare lo Stato invece di Moro; per i comunisti per i quali il bene maggiore era non essere assimilati ai brigatisti, costasse anche la vita di Moro; per Paolo VI e il suo “amico buono, giusto, fedele” che proprio così giusto e fedele non doveva essere stato stante la sua freddezza sul referendum divorzista e prima ancora permettendo il compromesso con i socialisti, tramando per l’alternativa con i comunisti, favorendo la progressiva comunistizzazione dei movimenti politici cattolici e della DC stessa alla faccia dell’amico Montini che condannava; per tutti quelli che abbisognano di questo santino come foglia di fico per coprire le proprie vergogne o nascondercisi dietro o per benedire le più immonde alchimie da bassa cucina politica cattocomunista mignon in nome degli “alti volori dei quali sono portatori Moro-Sturzo-De Gasperi”, non capendo manco le enormi differenze fra i tre; per gli appassionati di commemorazioni necrofile ufficialissime, afflitti dalla sindrome comica del “santo subito” e da quella del “santo del giorno dopo” fosse anche un cane ma che è suscettibile di essere sbandierato per ogni verso specie per laddove tira il vento; per tutti i retori della repubblica che magari in quegli anni avversarono Moro e qualcuno, so, brindò persino alla sua morte. Per gli ipocriti. Per quelli che “uccidono i morti”. Per quelli che non li lasciano riposare. Per quelli che addirittura li fanno votare.
Moro come il Nazareno, dice la primogenita.
E per dimostraci la Maria Fida che è la figlia di Gesucristo, non ha trovato di meglio da fare che partecipare alla marcia della giornata dell’Orgoglio Laico in contrapposizione alla contemporanea marcia della giornata del Family Day, propossa dai laicisti e anticattolici più bavosi e da pederasti assatanati d’ogni risma. Come ci informa, in una aggiornatissima lista dei “promotori”, il forum di lesbiche e bisessualiorgogliosi, che classifica la Maria Fida come “comitato promotore ed esponenti politici” (prego leggere qui).
Quando la Nostra accusa l’universo mondo di ogni sozzura e di fare qualsiasi torto alla memoria e al pensiero, alla vita e alla morte del padre, con un sorriso vorrei mostrarle questa lista, ricapitolarle i suoi più recenti rocamboleschi trascorsi politici e domandarle: “Maria Fida, tesoro, dolce e aspra Maria Fida: tuo padre sarebbe contento di tutto quel che fai per – a tuo e solo TUO dire – onorare la sua memoria? Non ti è venuto il sospetto che così non stai facendo altro che travisarne, svilirne e offenderne quella stessa memoria che credi di magnificare? Non pensi di oltraggiare così facendo, frequentando certe compagnie, anche la fede che fino all’ultimo istante fu quella di tuo padre? Perchè fai tutto questo? Cui prodest?”.
Dulcis in fundo, proprio una settimana fa. Maria Fida Moro, annunciano i giornali, mette all’asta l’ultima lettera-testamento che “con le lacrime” la madre Eleonora, morta nel 2010, ha vergato e le ha consegnato nel 2006. E dove, specifica la Fida figlia, non si sa se per dovere di cronaca o per incrementare il valore del povero manoscritto, la madre “ha scritto ai suoi quattro figli per dire cose privatissime”. Restando gli altri 3 figli del tutto contrari a quest’ultima penosa trovata della sorella maggiore. Ma tant’è!
Perchè lo fa? Naturalmente – e che te pare! – per “onorare” la memoria del padre, perchè “non abbiamo ancora la verità” (mettendo all’asta le lettere private dei suoi, arguiamo, sarà più facile ottenerla) e soprattutto per “provocare le coscienze”.
Di chi? Per cosa? A me m’ha provocato: ma non la coscienza, la nausea.
Complimenti!
Dopo che ha “onorato” la memoria del padre… adesso è passata a “onorare” per bene la “memoria” della madre.
Aveva detto di Aldo la moglie Eleonora: “In politica mio marito era vedovo e senza prole”. E mò abbiamo pure capito perchè.
Gli americani sono sbarcati sulla Luna, nel 1969; viene facile la tentazione di negarlo, anzi è l’attitudine più naturale, per lo zappatore che, stanco, si ferma a riposarsi alzando lo sguardo e fissando la luna: “possibile che io sono ancora qui a zappare” si chiede “mentre lassù ci sono già stati, tanti e tanti anni fa ? Io dico che è impossibile che ci siano stati”. Altra storia è quella di Aldo Moro. Nel suo caso, ciò che passerà alla storia sarà l’evidenza dell’ovvio: sono state le BR a ucciderlo, come dice Cossiga, che esorta a non dimenticare quanto l’ovvio offra comodo rifugio. Il tuo lavoro, signor mastino, attorno a questo pezzo, rimodellato, piallato, lisciviato e istituzionalizzato ormai da anni, è inutile. Inutile, perché la “verità” che studieranno su Moro i futuri studenti, se studenti ce ne saranno ancora in futuro, e sperando che qualche altra religione più sveglia della vostra non ve ne carpisca la maggior parte, è che Moro fu rapito dalle BR e ucciso dalla medesima organizzazione. Tutto il tuo lavoro, intento a ungere un ingranaggio che ha già compiuto il suo giro, è, scusa se te lo ripeto, assolutamente inutile. Anche i termini che copi dalla Cederna lo sono (tra l’altro, non ti basta il casino che fece quel libro ?), così come lo è la soluzione che la tua doppia coscienza ti suggerisce di dare velatamente, mediante l’appellativo de “Il Moro”. Questa “soluzione”, tesa evidentemente a indicare nei patti “del moro coi mori” l’origine e la causa di quella operazione, è soltanto una ipotesi tra tante. Sai bene che la vera soluzione è conservata in uno dei luoghi più sicuri al mondo, e che forse verrà sviscerata quando saranno in pochi a fregarsene ancora qualcosa, di quella vicenda. O, forse, sei in grado di spiegare perché fu ucciso poche ore prima che Fanfani cedesse finalmente alla trattativa a cui tanto miravano le BR ? Oppure il motivo della mostruosa scia di delitti che quella storia si è portata dietro ? O perché sono sparite le foto formato super 8 ? O perché Moro non fa menzione della strage della scorta ? O perché il processo alla SIP, che doveva appurare l’origine del black out telefonico, non ha portato a niente ? Oppure sai spiegare l’appunto sulle gocce di atropina ? Il fatto che lo chiami “Il Moro” contiene una qualche verità, nella tua mente ? Io non credo, ma se tu ne sei convinto, perché non ne parli ? In fondo, chi può essere più temibile di un mastino ?
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