Parla alla Bussola padre Nazir-Ali, ex vescovo anglicano e oggi cattolico, che sottolinea l’importanza dell’autorità. E sulla sinodalità avverte: «Non è solo consultazione. Chi viene consultato ha bisogno di essere catechizzato», in accordo al deposito della fede, senza cedere alle pressioni del mondo. E poi aggiunge: «Sul papato ci sono molti malintesi nell’anglicanesimo».
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Vescovi tedeschi contro il card. Koch che “osa” criticare le derive sinodali
Il porporato svizzero punta il dito sulla Chiesa in Germania che insegue lo “spirito del tempo”, rievocando l’errore di quei cristiani che negli anni Trenta pretendevano di mescolare Rivelazione e nazismo. Il presidente della conferenza episcopale replica risentito: “Lo dico al Papa!”, ma non argomenta sui contenuti.
Continua a leggere “Vescovi tedeschi contro il card. Koch che “osa” criticare le derive sinodali”I cattolici liberal hanno perso la guerra culturale ma non vogliono ammetterlo
Al dossettiano Massimo Faggioli va riconosciuto almeno un merito: quello di mostrare una candida franchezza dicendo ciò che i suoi compagni cattolici liberal o progressisti si rifiutano di ammettere, nascondendo la testa sotto la sabbia.
Continua a leggere “I cattolici liberal hanno perso la guerra culturale ma non vogliono ammetterlo”Guareschi e la “parabola” delle mele
Nell’ultima opera di Guareschi la contestazione colpisce il “mondo piccolo” a suon di neolingua e ideologia che non si arrestano neanche di fronte al Cristo dell’altar maggiore. Ma dichiarare guerra al passato in vista dei frutti che verranno può riservare amari raccolti.
Continua a leggere “Guareschi e la “parabola” delle mele”Il peccato più grave? La mancanza di fede. Anche nella Chiesa
Secondo il teologo benedettino dom Giulio Meiattini «anche una buona parte della teologia odierna soffre di questa tendenza a ridurre il mistero di Dio e di Gesù Cristo alla misura umana».
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Io dico no alla “Chiesa dei papi”
Se i Papi sono la Chiesa, allora siamo tutti un po’ più poveri.
di Don Cristiano Mauri (30/04/2014)
Eccoli qui, nella locandina stile cinema pubblicata domenica su Avvenire, come “I tre tenori” in concerto. Peccato non ci sia il povero Benedetto XVI. “I fantastici 4” come titolo sarebbe stato più carino, ma si sa che Ratzinger è poco fotogenico e poi un Papa dimesso fa calare l’audience. Via, accontentiamoci di tre. E poi lo spettacolo è stato garantito lo stesso. E pure in 3D.
Perché anche di spettacolo si è trattato, non certo solo di celebrazione. D’altronde l’evento era di portata storica e in questi tempi iper-mediatici è inevitabile che i fatti divengano anche uno show a tutti gli effetti.
Nulla di male, per carità. O forse sì? Chissà, certo che in un caso o nell’altro occorre chiedersi di che spettacolo si sia trattato e che cosa sia andato in scena.
La santità? Senza dubbio. Celebrata, spiegata, proposta in tutti i modi possibili. Gli sguardi sono stati guidati proprio lì, su una santità che è un vero spettacolo per quanto appare bella e convincente.
Ma è anche andato in onda lo show dei Papi.
Credo sia innegabile – e per certi versi inevitabile – che un evento come quello del 27 aprile porti con sé un forte risvolto auto-celebrativo del papato. Dico “risvolto” perché credo che sia poco più di un effetto collaterale, ma che il risultato di una simile celebrazione sia anche una sovra-esposizione della figura papale credo sia incontestabile.
Ciò potrebbe non essere in sé un gran problema, se non fosse che si accelera ulteriormente quel processo di esaltazione della centralità del papato che sembra aver caratterizzato l’ultimo secolo e mezzo, come ben descrive Aldo Maria Valli, in questo articolo: Un’auto-celebrazione che non è un modello.
Il fatto che – come sostiene Valli – l’auto-rappresentazione dei cattolici sia oggi fortissimamente legata al Papa, unito al dato evidente che tale identificazione raggiunga livelli prossimi alla papolatria in corrispondenza di pontefici carismatici, questo sì mi pare proprio un problema.
Un vero problema di Chiesa. Di identità, di natura, di esperienza di Chiesa, che la canonizzazione di due pontefici fortemente carismatici ad opera di un terzo ormai – suo malgrado – “pop-star” non ha potuto che rinforzare.
Un problema di identità, perché la Chiesa è di Cristo, non dei Papi. Non si dica: “Questo si sa”, perché la realtà è che si parla più del Papa che di Cristo, si citano di più i pontefici del Vangelo, si conoscono con maggior facilità i discorsi di Giovanni Paolo II o le frasi a effetto delle omelie di Santa Marta che il discorso della montagna di Gesù.
E basta confrontare lo sbandamento che ha accompagnato il pontificato di Ratzinger con l’entusiasmo attuale per non poter negare che il riferimento ultimo a Cristo, se non scompare, certo sbiadisce in modo palese dietro la forza o la debolezza dei carismi personali.
I Papi portano a Cristo? Non dubito sia loro intenzione, il risultato della sovra-esposizione della loro figura resta discutibile.
Un problema di natura, perché al ruolo predominante del papato è strettamente connessa l’ideologia dell’«uomo della Provvidenza» secondo la quale le sorti della Chiesa, dell’umanità, del mondo sembrano dipendere direttamente dalle straordinarie capacità di un uomo solo.
Francesco è visto oggi – e non è affatto detto che lo sia – come l’unico a lottare per una Chiesa autenticamente evangelica come un condottiero solitario. Così fu, in parte, per Giovanni Paolo II su altri terreni e pure Giovanni XXIII a volte sembra l’unico fautore del Vaticano II.
Ma la natura della Chiesa non è affatto quella di un ammasso di poveretti guidati a salvezza da un super-eroe! La Lumen Gentium ha detto con chiarezza che tutto intero il popolo di Dio è strumento di salvezza offerto al mondo e dunque ogni uomo e ogni donna sono “della Provvidenza” nella loro ordinarietà e semplicità, compresi coloro che, pur non riconoscendo ancora Dio, cercano di condurre una vita retta.
Questa responsabilità personale, se non è negata, certamente non è affatto incentivata dall’esagerato rilievo dato al Papa.
Infine, un problema di esperienza perché la pervasiva presenza del Pontefice e l’incredibile facilità di accesso alla sua figura rischiano di far saltare le altre mediazioni ecclesiali perdendo così la complessa ricchezza della Chiesa intera.
Francesco, dentro la pancia della Chiesa popolare, non è Vescovo di Roma ma Vescovo del mondo, anzi, a causa del suo stile è diventato il parroco del mondo. Peccato che sia il Papa e non un parroco. E non è raro avvertire oggi in molti la sensazione che farebbero volentieri a meno del loro parroco e del loro Vescovo che, poverini, non sono come il Papa.
Certo, è bello sentire Francesco così vicino ma se ciò va a detrimento dell’esperienze locali, allora quella vicinanza è solo un impoverimento, perché la Chiesa universale esiste come comunione di Chiese particolari, di cui il Papa è fondamento di unità ma soprattutto servo. Se le Chiese locali, con parroci, vescovi e parrocchiani spariscono dentro “la Chiesa del Papa”, sparisce anche la vera Chiesa universale.
I Papi sono un dono per la Chiesa, ma non sono l’unico, anzi. E l’ingigantimento del ruolo papale, soprattutto se carismatico, può dare risultati immediati apparenti ma siamo certi che sia nella logica dell’edificazione della Chiesa e della valorizzazione della ricchezza dei suoi doni?
A me restano dei dubbi e continuo a dire “Credo la Chiesa”, perché invece “la Chiesa dei Papi” mi sembra semplicemente meno bella.
E tu che ne pensi?
© LA BOTTEGA DEL VASAIO
Meglio il Borgia che Papa Francesco, Pietrangelo Buttafuoco
Autodifesa di Buttafuoco dall’inquisitore Dario Fo, che gli ha dato di macchinista del fango per le sue predilezioni rinascimentali rispetto all’idolatria furba e up to date di Bergoglio: “La Maddalena è Bertone”.
di Pietrangelo Buttafuoco (30/04/2014)
Certo che il Papa Borgia è meglio di Papa Francesco. L’ho detto a Dario Fo, autore adesso di un formidabile romanzo, “La figlia del Papa” (è il racconto di Lucrezia, ed è edito da Chiarelettere). A maggior ragione gliel’ho sottolineato ascoltandone una sua lettura di scena: il discorso tenuto da Alessandro VI al Concistoro. Il Tevere restituisce il corpo del figlio Juan, assassinato, e quel padre, quel grande Papa, chiamato dalla verità evangelica, in forza dello strazio accetta quella morte: è la condanna per il suo turpe operare.
Niente a che vedere con l’idolatria che accompagna il Papa, questo di oggi, celebrato da tutti in virtù del suo farsi pastore dello Spirito del Tempo – arrivare a molestare Marco Pannella, nei suoi digiuni – piuttosto che testimoniare la luce dello Spirito Santo. Un mio argomento, questo, su cui ho avuto un’immediata reprimenda da Dario Fo, prima da Lilli Gruber, in una puntata di “Otto e mezzo” andata in onda sabato scorso, e poi ancora ieri, con un’intera pagina, sul Fatto quotidiano.
Eravamo dunque insieme, Fo ed io, e nel salutare quella sua vertiginosa recitazione – spettacolare ancorché ristretta nel tempo televisivo dell’assaggio – nel dirne bene, benissimo, ho anche fatto appello al canone di Orson Welles, questo: “Sotto i Borgia ci sono stati spargimenti di sangue, stupri, rapine e terrore. Ma hanno generato Michelangelo, Leonardo e il Rinascimento. Tutto ciò accadeva mentre in Svizzera vivevano in amore fraterno: cinquecento anni di pace e democrazia. Ebbene, cosa hanno prodotto? L’orologio a cucù”.
E’, certo, il contesto della grandezza terrena, quello dei Borgia. Ne beneficia la potenza di bellezza dell’arte e, perfino, del mirabile destino del Duca Valentino, tutto politico, tutto machiavellico, dove però la gloria della religione – come una quercia eterna rispetto alla ghianda secolare – rifulge nella sofferta traversata della chiesa nel mondo.
E’ l’immondo che si monda, la Chiesa del Borgia, Fo l’ha evocato con lucente maestria nel suo libro e nel racconto, ed è una chiesa – quella, quella del Borgia – che trova lavacro nel perpetuare un’autorità sporca di peccato ma senza mai consegnarsi all’Errore. E i cristiani, quelli che lo sono al modo di Cristina Campo, si affidano allo Spirito Santo il cui patrimonio è infinito nelle varietà di negazioni e di affermazioni segnanti, in modo eguale, il cammino da seguire a dispetto del mondo.
Niente a che vedere con l’idolatria. E’ quella che solletica il Papa – questo – a cui piace assecondare il luogo comune in luogo dell’Eterno. Ed è un Papa, questo – furbacchione, ebbene sì – consapevole di ricavare molto più potere da un selfie che da un attico; indossa scarpacce disadorne, disdegna gli ori, piace a tutti e lascia gli appartamenti terrazzati a Tarcisio Bertone, sacrificato sull’ara del ridicolo, perché, insomma, il Santo Padre attualmente regnante conosce bene la regola numero uno per sfangarla con le vicende del mondo: ed è quella di lisciare il pelo dal verso giusto, ripetere paro paro ciò che l’alfabeto irresistibile del conformismo esige. Per esempio tenersi, mano nella mano, con don Ciotti. Una photo opportunity così, manco Oliviero Toscani nella fortunata campagna Benetton poteva immaginarsela.
Liscia a tal punto il pelo, il Papa, da conquistare pure l’anarchico Fo, il sublime fustigatore del potere, oggi mio bastonatore, ma la regola numero uno del Cristo – mettersi accanto una puttana, contro i sepolcri imbiancati – dovrebbe ripetersi in un’altra photo opportunity. Come minimo, Bergoglio, dovrebbe mettersi a braccetto Bertone. La Maddalena di oggi, infatti, è questo sconfitto principe della chiesa, perso nella lussuria immobiliare e allora sì che – mano nella mano, col puzzone – sarebbe tutto “un effetto che fa”.
L’idolatria, temo, ha preso Fo che sia a “Otto e mezzo”, sia ieri dalle colonne del Fatto, ha ribadito un paragone: quello tra Papa Francesco e Francesco d’Assisi. Ribadisco anch’io. E’ un paragone impossibile. Le vicende dei papi e della cristianità, ovvio, interessano i cristiani ma anche quelli che non sono credenti. Fo non è un credente e il Poverello, che è il più guerriero dei santi, non un gruppettaro, a me è molto caro perché pur da saraceno – da credente – ne riconosco la profondità spirituale. Se c’è jihad nell’anima smarrita dell’occidente, infatti, è nella sequela di Assisi e quando Fo mi obietta – “nulla si può dire di Francesco perché tutto ciò che lo riguarda è stato censurato” – rispondo che negli esiti della sua predicazione, nella generazione d’amore della famiglia francescana, c’è già la risposta. Ecco, due santi: sant’Antonio di Padova e Padre Pio. Santo a tal punto, quest’ultimo, da non dover ricorrere alla qualifica dell’aureola per farsi riconoscere, santi fortissimamente forgiati nella sacralità entrambi, da elargire luce di pietas e misericordia e non l’ammaestramento etico, quel “tenetevi pulito il dito, in qualche buco dovrete poi mettervelo”. Mi riesce difficile vedere l’attuale Pontefice, così bisognoso di farsi accreditare nella casamatta del potere culturale – applaudito come neppure una star del Grande Fratello globale, up to date – svelare al mondo il profumo e le piaghe della sanguinolenta verità della messa per come l’affrontava Pio da Pietrelcina. Piuttosto, lui – ebbene sì, furbacchione – ammaestra i politici convocati al mattino, in tempo per i lanci di agenzia. Fosse questa, la religione, basterebbe Beppe Grillo.
L’idolatria, temo, avrà spinto Fo tra le botole del luogo comune, poi, quando nel dar conto delle sue ragioni mi accusa di stare alla manovella della macchina del fango e lordare la candida veste del Papa. A un certo punto ho pensato al contrappasso, ritrovarmi in uno dei suoi spettacoli ma nei ruoli inaspettati: io, quello di eretico e lui in quello di inquisitore. In un certo senso è così ma nelle botole alligna l’equivoco e non si può fare appello al caso di Giordano Bruno, no. Ancora una volta un esempio sbagliato. Il nolano non incontrò il rogo perché desideroso di libertà. Non era né laico né un Pannella di quei tempi, al contrario: era un mago. Un mago tra i più potenti. E solo chi legge per davvero i suoi libri si guarda bene dal farne un testimonial del Partito radicale. Esempio sbagliato è anche quello di Galileo Galilei, per quel che mi compete, perché la scienza – ebbene sì, la scienza – storicamente ebbe casa presso i musulmani e su vicende di casa altrui, più di tanto non posso dire. Ed esempio fuori luogo, infine, tra i tanti cari nomi evocati da Fo nell’officiare un’anatema contro di me, è quello di Giovanni Hus perché la storia del Veridico, quella tremenda epopea, la scrisse Benito Mussolini. E resta un ottimo antidoto contro l’idolatria, perfino quando si veste d’ermellino, ops, di sobria tonaca bianca.
© IL FOGLIO
Ferrara e Gnocchi alla Fondazione Lepanto
di Mauro Faverzani (27/03/2014)
Non un laico minuto di silenzio, ma una convinta, partecipata preghiera recitata per Mario Palmaro dagli oltre 200 presenti ha aperto la conferenza, promossa da Fondazione Lepanto martedì scorso a Roma, per presentare Questo Papa piace troppo (ed. Piemme, Milano 2014, €15,90), il libro, l’ultimo, scritto da Palmaro a sei mani con Alessandro Gnocchi e Giuliano Ferrara, presenti all’evento.
«Mario Palmaro non è presente soltanto nel ricordo – ha detto, aprendo la serata, il Prof. Roberto de Mattei – ma anche con l’esempio ed il modello lasciatoci di cristiano integro e libero». Appassionato e coinvolgente l’intervento del direttore del “Foglio”, Giuliano Ferrara, che fin dall’inizio ha avuto il coraggio ed accettato la sfida di ospitare senza filtri, senza infondati timori e senza inutili censure gli articoli di Gnocchi e Palmaro sul proprio giornale, aprendo così le sue pagine ad un interessante dibattito teologico e culturale. «La Chiesa aveva bisogno di nuovo cemento – ha detto ad un pubblico numeroso ed attento – dopo la pastoralità arrembante e vigorosa di Giovanni Paolo II e dopo il dialogo forte avviato col mondo da Joseph Ratzinger, come Cardinale prima, come Benedetto XVI poi».
Ma il nuovo Pontefice, Papa Francesco, divenuto sacerdote dopo il Concilio Vaticano II, latinoamericano con radici europee, corrisponde a questo cemento? Il fatto che di botto le violente critiche, vomitate dal mondo sulla Chiesa flagellata dall’accusa di pedofilia, fossero sparite di fronte al «gesuita che dice buonasera» ha ingenerato in Ferrara la percezione che «le forze che vogliono democratizzare e laicizzare la Chiesa ce l’avessero fatta». Bastano il «patetismo e il sentimentalismo mimetico versato nell’abisso del perdono, trascurando i rigori della giustizia, dell’etica cattolica, della pedagogia esterna all’interiorità del credente», bastano «uno stile ed un atteggiamento pastorale diverso», per «operare la riconquista» del mondo secolarizzato?
La «Chiesa Cattolica esce indebolita dalla frattura, dall’abisso tra ciò che insegna e le pratiche dei credenti – ha detto ‒ Giocando la carta della collegialità confusa, si passerà dalle nuove forme di pastoralità ad una nuova esperienza di dottrina e questo rappresenta un cedimento strutturale, il trionfo del relativismo. Io – ha proseguito – sono innamorato della Chiesa che contraddice il mondo e che si lascia anche contraddire dal mondo , portando Verità e Tradizione. Una rottura dottrinale sulla famiglia, ad esempio, costituirebbe un dramma dalle conseguenze incalcolabili».
Alessandro Gnocchi ha invece proposto un sentito, commosso ricordo dell’«amico fraterno» e collega Mario Palmaro: «Io e Mario parlavamo quotidianamente del fatto di non essere di fronte ad una cesura tra tradizione e progresso, bensì tra Chiesa e mondo», una Chiesa lentamente, progressivamente privata delle proprie connotazioni più specifiche ovvero degli aspetti sacramentale, dogmatico e liturgico. Dal «“buonasera” di Papa Francesco è giunta una popolarità mediatica, che ne ha fatto un leader invece del Sommo Pontefice». Ciò cui siamo oggi di fronte è uno «stravolgimento di quella che è la struttura della Chiesa» e questo «con la connivenza dei mezzi di comunicazione. Ciò che ha spaventato me e Mario è stato constatare come tutti coloro ai quali questo nuovo Pontificato piace tanto siano gli stessi, che noi abbiamo sempre combattuto». Ma Mario Palmaro oggi porta avanti la propria battaglia ad un altro ed alto livello, dopo aver accolto con «piena sottomissione» la volontà divina. Osservarlo attraverso le lenti del male che progrediva, della sofferenza che avanzava inesorabile, ma anche della serenità con cui attendeva l’abbraccio col Padre, «è stato per me un motivo di Grazia», ha ricordato Gnocchi, commuovendosi e commuovendo con le parole e con uno sguardo, in cui si leggeva con chiarezza la profonda fraternità cristiana vissuta con l’amico e collega.
Il prof. de Mattei, dopo un ampio, partecipato dibattito, ha concluso, proponendo un confronto: «Se pensiamo allo stile della Compagnia di Gesù, una formidabile armata guidata come da un generale da S.Ignazio di Loyola e capace di fermare il protestantesimo dilagante della Riforma, e lo confrontiamo con certe scelte quali lo show canoro proposto in tv da Suor Cristina, capiamo come certe parole e certe movenze non esprimano una Chiesa capace di conquistare il mondo, bensì un mondo capace di secolarizzare la Chiesa». Una prospettiva, cui è urgente opporre, invece, un progetto di riconquista culturale e spirituale della società e dell’uomo.
© CORRISPONDENZA ROMANA
Pastorale dialogante e condanne selettive
di Marco Bongi (27/03/2014)
Preti anti-mafia ed anti-camorra: hanno saputo condannare e combattere la criminalità organizzata. Qualcuno è stato pure ucciso e dunque meritano lodi, encomi e processi di beatificazione. Nessuno ha nulla da contestare ai loro metodi pastorali.
Vescovi che si sono coraggiosamente opposti alle dittature sud-americane. Hanno condannato i soprusi e tuonato contro i regimi anti-democratici. Bene…, bene. Anche per loro grandi Osanna ed elogi sui media cattolici.
Lo stesso dicasi per quegli ecclesiastici che hanno condannato e duramente continuano a stigmatizzare il razzismo, l’antisemitismo, lo sfruttamento dei capitalisti sui lavoratori, la pena di morte e, forse ancora per poco, la pedofilia.
Non intendo assolutamente, in queste poche righe, entrare nel merito di tali delicate questioni. Mi limito soltanto ad esporre alcune semplici riflessioni di carattere metodologico.
Quando infatti i “normalisti” si sforzano di giustificare alcuni orientamenti pastorali del nuovo corso ecclesiale, spesso ci ammanniscono commoventi fervorini coniugati sulla seguente lunghezza d’onda:
“Non serve a nulla lanciare condanne e scomuniche: è assai più utile annunciare il Vangelo in senso positivo. Mostrare quanto sia bella la famiglia, l’amore fra un uomo e una donna, allevare tanti figli, aiutare gli anziani malati cronici… Questo è il metodo più sicuro per diffondere la vera dottrina che comunque non cambia”.
Ed allora mi chiedo: se così stanno le cose… perché non criticate anche i preti anti-mafia. Non sarebbe meglio che essi mostrassero, con l’esempio, come sia bello vivere onestamente ma si astenessero dalle omelie infuocate dal pulpito?
Perché criticate aspramente i supposti silenzi di alcuni pastori durante i regimi militari sud-americani e, addirittura, quelli, costruiti a tavolino, di Pio XII sullo sterminio degli ebrei?
Perché non invocate, in tutte le situazioni citate sopra, la pastorale dialogante fatta propria dal Concilio Vaticano II?
E’ assolutamente inevitabile, del resto, che chiunque si accinga a sostenere un’idea a cui tiene molto, qualunque possa essere la sua tesi, dovrà argomentare le proprie posizioni, sia in senso positivo, sia contestando le obiezioni e le prassi contrarie.
Tutti hanno fatto così, in ogni luogo e in ogni tempo. Se l’idea è considerata importante le si dedicano molti studi e sforzi espositivi. Se tale non la si considera, può bastare qualche buona parola, tanto per tacitarsi la coscienza.
In verità dunque, per quanto mi sforzi di riflettere, non riesco a trovare, a queste importanti domande, altre risposte se non la seguente:
Non si deve condannare ciò che il mondo non vuole che si condanni: divorzio, aborto, omosessualismo, eutanasia, relativismo, mondialismo ecc.
Si deve invece condannare, ed anzi guai a chi non condanna, ciò che il mondo vuole che sia condannato: disegualianze sociali, unicità della Verità, valori tradizionali nella Religione e nella Liturgia, legge naturale ecc.
Questa è purtroppo la realtà delle cose e molti cristiani, compresi parecchi pastori, si stanno rapidamente adeguando. Ammantano la vergognosa capitolazione culturale con discorsi accattivanti, con ragionamenti buonisti, con parole levigate e distinguo sofistici.
Tutto bene, salvo il fatto, inequivocabile e incancellabile, che non è questo l’atteggiamento che Nostro Signore ci ha insegnato con il Suo Vangelo. Possibile che così pochi se ne rendano conto?
© RISCOSSA CRISTIANA
Quelli che vogliono la rivincita su Paolo VI
Nel cammino di avvicinamento al Sinodo sulla famiglia, appare sempre più chiara la strategia volta ad ottenere cambiamenti dottrinali facendo leva sui divorziati risposati, un fenomeno volutamente sovra-rappresentato e in modo distorto. Nel mirino ci sono l’enciclica “Humanae Vitae” (1968) e la “Familiaris Consortio” che nei decenni passati hanno impedito l’affermarsi nel Magistero di una posizione “mondana”.
di Riccardo Cascioli (20/03/2014)
La serie di articoli fin qui dedicati al dibattito sul Sinodo per la Famiglia ci consente di fare una prima, sommaria, sintesi di alcuni punti da chiarire. La questione fondamentale è che sta andando in scena una rappresentazione mediatica della situazione della famiglia e delle sfide della Chiesa in materia che è molto lontana dalla realtà, anche lasciando da parte i discorsi sul significato del sacramento e dell’indissolubilità del matrimonio, che pure abbiamo affrontato abbondantemente su La Nuova BQ.
1. A seguire gli interventi sui giornali, le dichiarazioni di alcune conferenze episcopali e, alla fine, del cardinale tedesco Walter Kasper, relatore all’ultimo Concistoro, si ha l’impressione che l’unico argomento all’ordine del giorno – o comunque quello su cui si giocherebbe la credibilità del Sinodo – sia la comunione per i divorziati risposati. La carrellata che abbiamo iniziato a fare attraverso i continenti ci dice che questa è una vera e propria impostura. Le sfide per la Chiesa in materia di famiglia sono molte, variano da continente a continente e da regione a regione; e se proprio un denominatore comune vogliamo trovare è la difficoltà del cristianesimo a incidere sulla cultura, così che – anche in popoli che sono cristiani da alcuni secoli – sotto la superficie cristiana resistono credenze e riti pagani anche in materia di famiglia. Allora magari si dovrebbe prendere in considerazione la domanda su come mai la fede non generi cultura, condannandosi così alla sterilità. Non dimentichiamo poi che a livello di istituzioni internazionali si assiste a un attacco senza precedenti contro la famiglia naturale.
La questione dei divorziati risposati è dunque un problema che riguarda soltanto Europa e Stati Uniti, ma anche qui è un problema statisticamente marginale, e inoltre è la conseguenza di un grave problema che viene prima e che riguarda la difficoltà a vivere un “per sempre”, ad assumersi responsabilità, a capire il valore del sacramento, a riconoscere e volere la verità di un rapporto. Concentrarsi sui divorziati risposati è allora come voler curare un sintomo ignorando la grave malattia che lo ha generato.
Il fatto però che tutti i media non parlino di altro e che a questo gioco si prestino volentieri eminenti cardinali lascia intendere che ci sia una volontà ben precisa che non ha niente a che vedere con la misericordia e la vicinanza a persone sofferenti.
2. In questo senso grande attenzione va rivolta ai termini usati. Anche il cardinale Kasper, ad esempio, è solito parlare di “famiglia tradizionale” laddove invece il termine giusto è “famiglia naturale”. Non è una differenza da poco. “Tradizionale” non solo dà immediatamente una sensazione di vecchio, destinato a soccombere di fronte all’incalzare della modernità, ma soprattutto fa riferimento alla tradizione che, in quanto tale, può cambiare. Tante tradizioni, infatti, non sono né belle né umane. Tanto per restare sul tema famiglia: nessuno può negare che quella delle spose bambine sia una tradizione e che altrettanto si possa dire delle mutilazioni genitali femminili. Ma sono tradizioni che una popolazione civile dovrebbe spazzare via in nome della sacra dignità della persona umana. Tradizione perciò, nell’ambito della cultura e della politica, non è un termine necessariamente positivo e certamente non richiama a un valore imperituro. Inoltre è un frutto della società, della sua cultura. “Naturale” invece attiene alla natura umana, allo scopo per cui l’uomo è stato creato, richiama a quella legge che il Creatore ha scolpito nel cuore di ogni uomo. E questo viene prima di ogni società e di ogni cultura, vale per ogni uomo, di ogni tempo e di ogni latitudine. “Famiglia naturale” perciò richiama a una realtà eterna, immutabile, sempre moderna, al contrario di “famiglia tradizionale”.
3. Sempre restando sul tema dei divorziati risposati, un’altra clamorosa menzogna è l’impressione offerta di una realtà di persone escluse dalla Chiesa o quantomeno marginalizzate e desiderose invece di essere accolte a pieno titolo. Accoglienza che troverebbe un ostacolo insormontabile nel divieto di accesso alla comunione. Persone che soffrono per questa esclusione e che si aspettano quindi dalla Chiesa, ovvero dal prossimo Sinodo, un gesto di speranza e – diciamolo pure – di misericordia. La realtà è ben diversa: non solo abbiamo visto che in Germania, Svizzera, Austria sono gli stessi episcopati che da anni promuovono un magistero parallelo, ma l’indagine compiuta per noi dal sociologo Massimo Introvigne ha rivelato quello che sospettavamo: anche in Italia la stragrande maggioranza dei divorziati risposati già si accosta alla comunione senza problemi, e molti di loro senza neanche confessarsi. C’è poi un’altra parte – la testimonianza pubblicata ce lo dimostrava – che prendendo invece sul serio le indicazioni della Chiesa trova la possibilità di una vera conversione. Del resto, scopo della Chiesa è quello di farci arrivare alla santità, non quello di democratizzare i sacramenti, come fossero dei servizi che lo Stato-Chiesa deve garantire a tutti i suoi cittadini-fedeli.
La cosa buffa è che, data questa realtà, il cardinale Kasper – con la sua proposta di riammettere i divorziati risposati ai sacramenti in alcune circostanze e dopo un cammino penitenziale -, se a noi pare un “pericoloso sovversivo” che con la scusa della pastorale vuole cambiare la dottrina della Chiesa, alle comunità tedesche, austriache ecc., si presenta come un fastidioso reazionario che vuole introdurre condizioni e imporre paletti laddove già da tempo c’è il far west eucaristico.
4. Un altro luogo comune imposto dal “Sinodo dei media” recita pressappoco così: il mondo è cambiato rapidamente in questi ultimi decenni, ci sono ormai tante coppie conviventi o di divorziati risposati – per non parlare di coppie omosessuali, ci arriveremo presto -, una situazione assolutamente nuova che richiede quindi nuove risposte da parte della Chiesa, ovviamente sul piano pastorale. Il mondo è molto diverso rispetto a quando Giovanni Paolo II scrisse la Familiaris Consortio (1984), figurarsi poi il riferimento alla Humanae Vitae di Paolo VI (1968) che, secondo qualche vescovo tedesco, è ormai fonte di confusione. Insomma fino ad oggi nella Chiesa – abbarbicata a difesa della sua dottrina brandita ovviamente come clava contro i poveri peccatori per cui non c’è mai stata misericordia – non si sarebbero mai presi in esame i problemi nuovi posti dalla crisi della famiglia e dai tanti cambiamenti sociali e culturali.
Anche questa una clamorosa menzogna, come peraltro ha spiegato il cardinale Carlo Caffarra mostrando l’assoluta attualità della Familiaris Consortio. Infatti leggendo questa enciclica si scopre che tutto quello che viene oggi spacciato per novità assoluta era già tutto presente – anche come sollecitudine pastorale per le persone coinvolte in fallimenti familiari – già nella Familiaris Consortio. Ma poi, sempre sullo stesso tema, si è già espressa la Congregazione per la dottrina della fede nel 1994 e ancora l’allora cardinale Ratzinger nel 1998 scriveva una lettera chiarificatrice per rispondere a domande e obiezioni che sono esattamente le stesse di oggi. Insomma, di questo problema si è parlato e riparlato già alcuni decenni fa, e delle risposte chiare e definitive sono già state date. Ed è impensabile che Kasper e soci non le conoscano.
5. Ma allora perché tutta questa messinscena, questa costruzione di una falsa realtà? Non c’è dubbio che qualcuno vuole usare i prossimi Sinodi sulla famiglia per prendersi la rivincita sulla Humanae Vitae. Anche allora Paolo VI era stato blandito per anni dal mondo laico e da quei vescovi che dopo il Concilio si aspettavano cambiamenti dottrinali importanti in materia di morale sessuale e familiare, salvo poi passare repentinamente al linciaggio quando quella enciclica che riaffermava la dottrina della Chiesa su vita e famiglia fu pubblicata deludendo i “progressisti”. Ma da allora si è sviluppato in alcuni episcopati, nei seminari, negli ordini religiosi un Magistero parallelo che ha insegnato e propagato come dottrina della Chiesa ciò che era frutto di alcuni intellettuali e teologi ansiosi soltanto di “essere del mondo”. Intellettuali, teologi e vescovi che hanno palesemente disobbedito ai Papi, teorizzando anzi il valore di una disobbedienza che non poteva che essere “profetica”. E sono gli stessi che oggi esaltano papa Francesco, scoprendosi più papisti del Papa, scatenando anche una caccia agli “eretici”, rei di non accodarsi a questa rivoluzione ormai inarrestabile.
Costoro pensano di poter tenere in ostaggio il Papa così che – sulla spinta di una realtà falsificata dai media e di un’aggressività di certi episcopati che impongono l’ordine del giorno – prenda quelle decisioni che non sono riusciti a fare prendere a Paolo VI, e che non potevano neanche sognarsi di far prendere a Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. E sarebbe solo il primo passo: perché se sulla famiglia la dottrina – ciò che la Chiesa ha professato per Duemila anni – può cambiare, allora qualsiasi altra verità di fede può essere rivista e riformata. Questa sì che sarebbe la fine della Chiesa.
C’è solo un piccolo ostacolo per costoro da superare: quella promessa di Gesù, Colui che guida in modo misterioso la Sua Chiesa, per cui le forze dell’inferno non prevarranno.
© LA NUOVA BUSSOLA QUOTIDIANA