Il pensiero debole cattolico è inerme davanti al mondo

cristianesimocattolico:

Le verità fondamentali sono impresse nella coscienza di tutti gli uomini, e la loro comprensione è necessaria per accogliere la Rivelazione. I «princìpi non negoziabili» riguardano appunto queste verità assolute.

di Mons. Antonio Livi (08/04/2014)

Alla vigilia dell’inizio della discussione al Senato del disegno di legge sull’omofobia, e mentre parallelamente si intensificano i tentativi di riconoscere le unioni civili, vogliamo proporre una riflessione sui criteri fondamentali con cui giudicare queste vicende politiche e legislative. Il testo di monsignor Antonio Livi, autore del recente volume è la sintesi di un intervento svolto nei giorni scorsi a una conferenza organizzata dall’Associazione Internazionale Tomas Tyn.

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Si parla giustamente del “dono della fede”, riconoscendo che la comprensione e l’accettazione della verità rivelata da Dio è possibile solo se Dio stesso, con la sua grazia, dispone i nostri cuori a “voler credere” i misteri soprannaturali, che evidentemente sono credibili ma anche oltremodo impegnativi. Ma non si tiene in sufficiente considerazione che, prima del “dono della fede”, e come condizione di esso, c’è il “dono della ragione”.

Senza la ragione – che Dio dona a ogni uomo, rendendo la creatura umana «immagine e somiglianza» del Creatore -, non sarebbe possibile la comprensione e l’accettazione della verità rivelata da Dio, perché nessun uomo potrebbe entrare in possesso dei praeambula fidei (ossia della premesse razionali della fede, che sono di natura metafisica) e venire a conoscenza dei “motivi di credibilità” (ossia di quei fatti di natura empirica e storica che portano all’evidenza che il Vangelo è credibile e chi lo annuncia è affidabile). Insomma, la verità naturale, raggiunta con la ragione, è il fondamento necessario della verità soprannaturale che ci è proposta con la Rivelazione. Ciò significa che nessuna delle verità che noi cristiani professiamo per un motivo di fede e che costituiscono il dogma e la morale sono indipendenti dalle verità fondamentali – sia metafisiche che morali – che stanno da sempre nella coscienza di tutti gli uomini.

Come ha ricordato Giovanni Paolo II, prima con l’enciclica Veritatis splendor e poi con l’enciclica Fides et ratio, queste verità fondamentali costituiscono il grande patrimonio di sapienza naturale dell’umanità e sono alla base della religione naturale e delle tradizioni giuridiche di ogni civiltà. Di conseguenza, quando noi cristiani entriamo nel dibattito pubblico sulla questione morale, non possiamo partire dal falso presupposto che non ci sia alcuna verità assoluta e che ogni persona, ogni gruppo sociale si debba regolare in base alle proprie arbitrarie opinioni. Quando si tratta di questioni riguardanti il bene e il male morale, e quindi i diritti e i doveri dei singoli e delle società, la distinzione tra verità assolute e mere opinioni va sempre tenuta presente.

Quelle che ogni uomo è in grado di riconoscere in coscienza come verità assolute non sono materia di compromesso politico, e per questo Benedetto XVI le ha denominate «principi non negoziabili», ossia giudizi morali di valore universale dai quali partire come il necessario presupposto di ogni dialogo di etica pubblica.

Certamente, in politica occorre trovare l’accordo tra le diverse forze contrapposte e i diversi interessi in gioco, e ciò comporta tutta una serie di compromessi, ossia la disponibilità di tutti a confrontare le proprie iniziative con quelle degli altri e a discuterne la convenienza, pronti tutti all’occorrenza a fare un passo indietro. Insomma, nel pubblico dibattito e specificamente nel dibattito politico sui diritti della persona e sulle istituzioni della convivenza sociale, a partire dalla famiglia, tutto può essere discusso o rimesso in discussione: ma solo quando si tratta, non dei principi della morale naturale, bensì delle diverse ipotesi di possibile o migliore applicazione di questi principi alla realtà sociale del momento.

Quando i cristiani dimenticano questo criterio fondamentale della logica aletica – quando cioè fingono di ignorare i dettami della ragione umana universale, che sa riconoscere i luoghi e i tempi della verità, distinguendo in ogni caso tra doverose certezze (di per sé indiscutibili) e legittime opinioni (sempre discutibili) – essi si uniformano ingiustamente all’irrazionalismo dell’etica pubblica oggi dominante nella società secolarizzata. Così facendo, però, essi rinnegano i presupposti razionali della loro stessa fede e inoltre si rendono incapaci di contribuire al bene comune della società civile. Invece di aiutare i propri concittadini a trovare le vie possibili di applicazione dei principi del diritto naturale, contribuiscono alla sua sostituzione con l’arbitrio del diritto positivo, arbitrariamente manipolato da chi manovra l’opinione pubblica con la retorica della democrazia e del progresso civile, e sulla base del consenso elettorale gestisce il potere. Giustamente Benedetto XVI contrapponeva la necessaria difesa dei «principi non negoziabili» al cedimento alla «dittatura del relativismo» da parte degli uomini di buona volontà, e in particolare da parte dei credenti.

La colpa di questa debolezza di pensiero (dico “debolezza” perché si tratta proprio dell’adozione delle categorie scettiche del “pensiero debole” di Vattimo) nell’azione pubblica dei cristiani è da attribuire soprattutto alla cattiva teologia dei nostri giorni. Dimenticando colpevolmente gli insegnamenti del Magistero (da Pio XII al Vaticano II, da Giovanni Paolo II a Benedetto XVI), molti teologi hanno re-interpretato la fede cristiana in chiave fideistica (soggettivistica, emozionale, volontaristica, sentimentale) e indotto così i laici cattolici, affetti da un assurdo complesso di inferiorità, a presentare i principi della dottrina sociale della Chiesa, non per quello che effettivamente sono – principi evidenti e indiscutibili del diritto naturale, espressione della più coerente razionalità e quindi validi per tutti gli uomini di ogni tempo e di luogo – ma come se si trattasse di “opinioni” particolari dei credenti, di posizioni confessionali incapaci di giustificarsi in sede di discussione politica in un quadro istituzionale “laico”.

Presentando così, in modo fideistico, quelle che sono le istanze più genuine della ragione naturale (che la Rivelazione, custodita e interpretata dalla Chiesa, non contraddice bensì convalida e rafforza), i cattolici non sono più capaci di offrire valide alternative alle ideologie del materialismo edonistico, dell’individualismo libertino, del nihilismo che pretende di imporre come leggi dello Stato le pratiche ispirate a una irresponsabile cultura di morte (dall’aborto all’eutanasia) che, non avendo a proprio favore alcun serio argomento di diritto privato o di diritto pubblico, si possono imporre solo attraverso la propaganda, con la manipolazione delle coscienze.

In un momento storico nel quale le ideologie contrarie al diritto naturale pretendono di imporsi solo perché sociologicamente appaiono come opinione della maggioranza, o almeno dell’ala più moderna e progredita della società civile, quei cristiani che per la loro debolezza di pensiero non sono più consapevoli della verità assoluta dei valori etici naturali che la Chiesa riconosce come parte essenziale delle premesse razionali della fede nella rivelazione soprannaturale, non sono capaci di contribuire in alcun modo a promuovere leggi giuste e a combattere leggi inique.

Essi sono inevitabilmente già sconfitti in partenza quando presentano i principi indiscutibili della dottrina sociale della Chiesa come mere opinioni religiose, avanzate dall’ala più tradizionalistica e retrograda della cultura cattolica. La necessaria critica culturale alle ideologie di morte e l’altrettanto necessaria resistenza civile alle leggi inique (che in quanto illegittime non meritano né rispetto né tanto meno obbedienza) non debbono essere presentate come mere istanze fideistiche, come eccentriche “sensibilità” religiose, e tanto meno come ingerenza della Chiesa negli affari dello Stato, perché così è inevitabile che accada – come di fatto sta accadendo in tutti i Paesi di antica tradizione cattolica – che questa critica e questa resistenza non siano condivise per principio dai non credenti, i quali mai accetteranno che certi “pregiudizi” religiosi possano mettere in discussione le leggi dello Stato.

La critica culturale alle ideologie di morte e la resistenza civile alle leggi inique dovrebbero essere sistematicamente e coerentemente praticate, avvalendosi di tutti i mezzi leciti che i sistemi democratici consentono, come responsabile e coraggioso servizio al bene comune, che solo la ragione “forte” sa riconoscere nella dottrina e sa promuovere attraverso l’azione sociale, comprese le leggi nazionali e internazionali. Invece, a causa della pessima formazione teologica (inficiata di fideismo), i cattolici sono entrati nel dibattito pubblico senza alcuna convinzione di principio, pronti a seguire la corrente (la deriva secolaristica) e a tentare di “limitare i danni”, con iniziative culturali e politiche che manifestano la loro sudditanza psicologica nei confronti delle ideologie di morte. Invece di proclamare e difendere i principi veri, non negoziabili, hanno deciso di negoziare i modi e i tempi per attuare uno dopo l’altro tutti i principi falsi, come sono quelli che vorrebbero dare una giustificazione etica e giuridica alle leggi che consentono l’aborto, l’eutanasia di anziani e di bambini, il matrimonio omosessuale, persino l’animalismo e la pedofilia.

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Contro la “chiesa opinionista”

cristianesimocattolico:

Non fanno testo le interviste, anche se di cardinali autorevolissimi. Fa testo la testimonianza di comunione nella tradizione scritturale. Che cosa pensa un wojtyliano autentico.

di Matteo Matzuzzi (05/02/2014)

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«L’insegnamento della Chiesa non è una raccolta di opinioni di singoli individui ma una viva testimonianza resa dalle persone che, unite in questa chiesa, vivono nell’affidamento alla verità da loro desiderata, cercata e attesa». Il professor Stanislaw Grygiel, ordinario di Antropologia filosofica al Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per studi su matrimonio e famiglia di Roma, interviene con un’intervista al Foglio circa il dibattito in corso nella Chiesa sulla pastorale familiare a pochi mesi dal Sinodo straordinario convocato per il prossimo ottobre da Papa Francesco. Allievo di Karol Wojtyla all’Università di Lublino, Grygiel sarebbe stato successivamente consigliere e confidente del Pontefice polacco, con il quale avrebbe condiviso una lunga e profonda amicizia.
Dopo le parole di qualche settimana fa del cardinale honduregno Oscar Rodríguez Maradiaga al quotidiano Kölner Stadt-Anzeiger in cui sosteneva che “il genere di famiglia descritto dall’esortazione apostolica Familiaris Consortio del 1983 non esiste quasi più”, date “le situazioni inedite” che si sono venute a determinare in questo trentennio, il professor Grygiel ricorda che «le opinioni provocate da queste nuove situazioni spesso non fanno che offuscare il centro che è quel Redemptor hominis in cui il matrimonio e la famiglia sono costituiti».

Il cardinale Oscar Maradiaga, nella recente intervista al quotidiano Kölner Stadt-Anzeiger, sembra porre in discussione il dettato dell’esortazione “Familiaris Consortio” di Giovanni Paolo II. Non tanto nei suoi contenuti, che egli definisce “belli”, quanto circa la validità degli stessi per la società contemporanea. A suo avviso, quel testo è ancora centrale nella pastorale familiare della chiesa cattolica o deve essere adeguato alle “nuove situazioni” che si affiancano alla famiglia tradizionale?

A mio avviso, nelle interviste gli uomini manifestano le loro personali opinioni in quanto individui e non invece la testimonianza che la persona e, quindi, la comunione in cui essa vive rendono alla verità. L’insegnamento della Chiesa non è una raccolta di opinioni di singoli individui ma una viva testimonianza resa dalle persone che, unite in questa chiesa, vivono nell’affidamento alla verità da loro desiderata, cercata e attesa. Il cosiddetto mondo vive invece delle opinioni. Chiuso nella caverna del mito di Platone (Repubblica), esso si affida alle ipotesi e alle verifiche sperimentali della loro efficacia. Nel suo insegnamento la chiesa non cerca l’efficacia. La Chiesa cammina verso la verità e perciò nel mondo delle opinioni vince quando viene sconfitta. La Chiesa cammina verso il Golgota. Dire che la Familiaris Consortio è “bella” nei suoi contenuti ma non è valida per la società contemporanea è un’opinione privata che si contrappone alla testimonianza viva che la comunione ecclesiale delle persone rende ogni giorno alla verità del matrimonio e della famiglia. Penso che oggi viviamo nella confusione dei concetti e delle idee. La bellezza della verità che avviene nell’evento della testimonianza comunionale delle persone è sempre valida per la società. Allo stesso tempo però essa è sempre difficile, anzi talvolta molto pericolosa per i testimoni stessi. La bellezza dei contenuti di Antigone di Sofocle è “valida per la società contemporanea” fino a tal punto che la censura comunista l’aveva trattata come una minaccia per il regime totalitario. La bellezza dei contenuti della Familiaris Consortio non è da allineare alle show-bellezze che con il loro corpo formoso reclamizzano i vari prodotti. L’insegnamento della chiesa non promuove la vendita di alcun prodotto. Esso insegna agli uomini il Figlio di Dio Incarnato e Crocifisso, “centro della storia e dell’universo” (Redemptor hominis, 1). La presenza di Cristo nella testimonianza comunionale dei cristiani, cioè nella dottrina della chiesa, rende giustizia a tutte le “nuove situazioni che si affiancano alla famiglia tradizionale”. Le opinioni provocate da queste “nuove situazioni” spesso non fanno che offuscare il ‘centro’ che è quel Redemptor hominis in cui il matrimonio e la famiglia sono costituiti. È in Lui, infatti, che l’uomo continua a essere creato come maschio e femmina (cfr. Gen 1, 27-28). Proprio per questo il matrimonio e la famiglia costituiscono il principio (archè) di ogni società e di ogni stato. Nel quarto libro delle Leggi di Platone leggiamo che, in quanto fonte della vita nello stato, sul matrimonio devono essere basate le leggi dello stato stesso affinché non abbia a sbagliare strada. Non è lo stato a decidere come possono o addirittura devono essere il matrimonio e la famiglia, ma sono il matrimonio e la famiglia a decidere della forma dello stato. Il matrimonio e la famiglia precedono lo stato. Lo stato non può esistere senza i matrimoni e senza le famiglie, mentre i matrimoni e le famiglie possono esistere senza lo stato. Di conseguenza lo stato dovrebbe adeguare “le nuove situazioni” al matrimonio e alla famiglia e non viceversa. Non parliamo di ciò che deve fare la Chiesa.

Si dice da più parti che la chiesa non può più evitare di affrontare la questione dei figli che nascono al di fuori del matrimonio, le problematiche del gender, il divorzio, le unioni civili, i matrimoni omosessuali. L’arcivescovo di Monaco, il card. Reinhard Marx, ha detto che la Chiesa dovrà “necessariamente” dare una risposta su tali questioni. Non si rischia, così facendo, di indebolire ulteriormente la famiglia come fondamento della società e sua prima forma naturale?

È evidente che la Chiesa non può evitare di affrontare le questioni che sono venute a crearsi nelle nuove situazioni. Essa deve sempre avvicinarsi con il rispetto proprio del Buon Samaritano ai figli nati fuori del matrimonio, ai divorziati, agli omosessuali. Ma proprio questo rispetto dovuto alle persone esige dalla Chiesa di essere viva testimonianza resa alla verità che costituisce la loro identità. In questo senso la chiesa tradirebbe l’uomo, se adeguasse la propria testimonianza alle opinioni nelle quali si esprimono “le nuove situazioni”. Il card. Marx ha ragione quando dice che la Chiesa deve “necessariamente” dare una risposta su tali questioni; questa risposta tuttavia non dovrebbe che in qualche modo rafforzare la presenza della Persona di Cristo in mezzo a noi e non invece alterare, se non addirittura eliminare, le Sue parole: “Sei guarito; non peccare più, perché non ti abbia ad accadere qualcosa di peggio” (Gv 5, 14); “Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più” (Gv 8, 11). Il Buon Samaritano, immagine della Chiesa, non si prenderebbe cura dell’uomo aggredito dal male, se fingesse di non vedere le sue ferite. La verità rende libero l’uomo, e non le opinioni che la evitano. Le mezze-verità fanno una gran confusione nella testa dell’uomo e ottenebrano la sua vista, rendendolo soggetto a ciò che è gradito agli occhi, buono da mangiare e utile ad acquistare le conoscenze (Gen 3, 6). Di conseguenza, egli pensa di essere Dio. Non vive più nella e della realtà ma nei e dei suoi surrogati che egli stesso si è creato. Il surrogato della realtà funziona come realtà ma non lo è. Ancora oggi mi fa nausea il ricordo del Kaffeeersatz bevuto durante l’occupazione tedesca e poi quella comunista. Chi è adesso che ci impone i surrogati del matrimonio, della famiglia? Chi è che tende a sostituire la chiesa con qualche scialbo suo surrogato, gradito agli occhi, piacevole da mangiare e utile ai potenti di questo mondo? Nessun Kircheersatz conduce alla salvezza, poiché nega la comunione delle persone.

Giovanni Paolo II aveva per così dire chiuso il dibattito già nei primi anni Ottanta, ribadendo che la famiglia è una ed è quella tradizionale. Oggi si invoca una riconsiderazione di questo principio, dal momento che il mondo è cambiato. A suo giudizio, ponendo il concetto di famiglia come oggetto di una discussione aperta, non si va incontro al pericolo di trovarsi a discutere poi anche della natura sacramentale del matrimonio?

Giovanni Paolo II non ha in alcun modo chiuso il dibattito sul matrimonio e sulla famiglia. Egli ha semplicemente invitato i cristiani e tutti coloro che seguono il desiderio della verità a contemplare come matrimonio e famiglia sono nel principio. Ha parlato della necessità di un loro continuo rinascere, il che si compie nel ritornare al loro principio. L’identità del matrimonio e della famiglia si lascia scorgere solo da chi li contempla nel loro principio, cioè nell’atto della creazione dell’uomo come maschio e femmina. La famiglia è considerata come “patchwork” solo da coloro che, guardando se stessi come principio creativo del proprio e altrui essere, mangiano del frutto dell’albero di cui Dio si riservò il diritto. È Dio che “definisce” l’identità dell’uomo e perciò quella del matrimonio e della famiglia. “Se Dio non c’è, tutto è lecito”, scrisse magistralmente Dostoevskij. Nelle società costituite dalla gente che mangia del frutto di quest’albero sono i potenti oppure le cosiddette maggioranze a decidere chi possa essere ritenuto uomo e cosa debbano essere il matrimonio e la famiglia. Ripeto, Giovanni Paolo II non ha chiuso il dibattito sul matrimonio e sulla famiglia. Egli ha invitato i cristiani a entrare nel dialogo con il “mondo” come testimoni della verità tam antiqua e tam nova del matrimonio e della famiglia. La discussione aperta e franca del testimone della verità del matrimonio e della famiglia con il “mondo” non mette a rischio la loro natura sacramentale. Espone invece il testimone al rischio d’essere ridicolizzato, beffato e persino, come scrisse Platone, ucciso. Ma senza un simile dialogo la società è destinata a smarrire la “diritta via per una selva oscura” delle opinioni.

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La patente

Il card. Maradiaga e le nuove famiglie che non piacciono a Müller.

01/02/2014

E’ un’ovvietà dire che il modello cristiano di famiglia non è più quello determinante, spiega in una nuova intervista (stavolta alla Frankfurter Allgemeine Zeitung) il cardinale honduregno Oscar Rodríguez Maradiaga, capo degli otto porporati chiamati dal Papa a rifondare la curia romana. E’ bene che tutti, nella Chiesa, si rendano conto al più presto che è venuto il tempo di “attribuire patenti” anche ad altri modelli di famiglia, ha detto il porporato. E i nuovi modelli altro non sarebbero che le unioni civili, quelle che comprendono figli nati da matrimoni diversi, genitori single, coppie gay. Insomma, “le famiglie patchwork” di cui parla anche il cardinale Schönborn. D’altronde, trentaquattro anni dopo l’esortazione apostolica Familiaris Consortio firmata dal prossimo santo Giovanni Paolo II, “la realtà è completamente cambiata”. Sì, è vero che “certe cose non possono essere modificate perché si basano sulle volontà del fondatore della chiesa”, chiarisce l’arcivescovo di Tegucigalpa, ma “altre sono opera dell’uomo e possono, anzi, devono cambiare”. Come? Basta ascoltare Francesco e i suoi richiami alla misericordia, ad esempio: “Questa è la nuova prospettiva da seguire per rispondere alle esigenze dell’umanità”. E poi, sarebbe utile essere meno rigidi nel rapportarsi e nel giudicare le nuove situazioni che hanno a che fare con matrimonio e famiglia; bisogna capire che non è tutto giusto o sbagliato, suggeriva Maradiaga al teologo e prefetto dell’ex Sant’Uffizio, Gerhard Ludwig Müller – “uomo con un punto di vista comunque molto rispettabile”, dice ora il cardinale honduregno alla Faz –, conversando con il quotidiano Kölner Stadt-Anzeiger. Certo, la flessibilità può anche andar bene, ma sia chiaro che “oggi la fede si difende meglio promuovendo la dottrina”, ha detto invece ieri Müller davanti a Papa Francesco in occasione della plenaria della Congregazione per la Dottrina della fede, aggiungendo che “la sana dottrina non è una teoria astratta di alcuni esperti, ma la parola di Dio posta sulla bocca della Chiesa, che suscita la fede, senza la quale è impossibile piacere a Dio”.

Non è tempo, dunque, di concedere patenti, tantomeno se queste vanno a intaccare il valore sacramentale del matrimonio: “Alla crescente mancanza di comprensione circa la santità del matrimonio la Chiesa non può rispondere con un adeguamento pragmatico a ciò che appare inevitabile, ma solo con la fiducia piena nello spirito di Dio”, ha aggiunto Müller. Anche perché, una volta messo in discussione il concetto di famiglia e matrimonio, anche tutto il resto, dall’aborto alle unioni civili, fino al gender, diventa trattabile. Lo sanno bene i vescovi spagnoli, che a conclusione della riunione del consiglio permanente di gennaio hanno ribadito che sui princìpi non negoziabili non si tratta. Dal presidente uscente e arcivescovo di Madrid, il cardinale Antonio Maria Rouco Varela, veterano di marce e manifestazioni in difesa della vita, è arrivato un appoggio totale e pubblico alla legge a protezione del concepito e della donna incinta scritta dal ministro della Giustizia, Alberto Ruiz-Gallardón: “E’ un passo avanti positivo rispetto all’attuale legislazione, che considera l’aborto come un diritto”. Di aprirsi alle “nuove prospettive” teorizzate da Maradiaga non ne vuol sentir parlare neanche l’arcivescovo di Bruxelles, André-Joseph Léonard, che ha deciso di rompere gli indugi e scendere in strada per protestare contro la legge che introduce l’eutanasia sui bambini. Una giornata di digiuno e preghiera, veglie in tutte le cattedrali e piccole chiese del paese, raccoglimento e orazioni. “Dobbiamo avere il coraggio di dire che non è troppo tardi, ma che il momento è ora! Dobbiamo scuotere la nostra coscienza, è giunto il momento di agire”, recita il grido di battaglia di Léonard. Una mobilitazione fatta di marce e presidi che nel secolarizzato Belgio, dove di cattolico sono rimasti ormai quasi solo gli edifici di culto ridotti a museo, non si vedeva da decenni. Almeno da quando iniziò a essere dispensata qualche patente di troppo.

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Renzi è un conservatore della vecchia sinistra

Il leader Pd non rottama l’ideologia. Sulle coppie di fatto, la sua linea esprime una perfetta continuità con il passato radicale della sinistra italiana. Perché quando il comunismo ha ammesso il suo stesso fallimento, della sinistra è rimasto solo l’impegno militante contro la religione.

di Stefano Fontana (06/01/2014)

Nonostante la svolta generazionale, Matteo Renzi ha iniziato non da innovatore ma da conservatore. Conservatore della tradizionale ideologia radicale della sinistra italiana. Appena diventato segretario, infatti, ha proposto le unioni civili. Non aumenti salariali, misure per la riduzione del cuneo fiscale, aiuti per le famiglie dei lavoratori, maggiori garanzie per la tutela del posto di lavoro, aumento delle pensioni minime, patrimoniale per i ricchi … ma il riconoscimento delle unioni civili. Con ciò si è dimostrato perfettamente allineato con l’ideologia del progressismo borghese di sinistra. Ha rottamato D’Alema, Bersani ed ora anche Fassina, ma non ha rottamato le loro idee sui temi etici, dato che essi sarebbero perfettamente d’accordo con lui sulle unioni civili.

Qui non c’è frattura: la storia della sinistra italiana continua. Da tempo il suo impegno contro la religione è diventato impegno contro la famiglia, gli unici beni – Gesù Cristo e la famiglia, intendo – che i lavoratori avessero e tuttora abbiano. Dell’ideologia della sinistra italiana non è rimasto in piedi quasi più niente. Berlinguer aveva già detto che la forza propulsiva della rivoluzione d’ottobre si era arrestata, Lama aveva accettato il blocco della scala mobile, Napolitano nel 1968 si rimangiò le posizioni espresse nel 1956 ed ora Renzi darà ragione a Marchionne contro la Camusso. Del resto i giovani che fanno parte della sua segreteria e che si incontrano alle sette di mattina per dare il senso del cambio generazionale, sono psicologicamente fuori di questi schemi. Ma non da quelli su vita e famiglia, su questo non viene nessun contrordine compagni. Renzi è un’ulteriore conferma della lettura che Augusto Del Noce ha dato della sinistra italiana. Due punti soprattutto la confermano.

Dicono che Renzi sia cattolico. Non lo so. Oggi è così difficile riconoscere chi lo sia e chi no. Dicono che anche Letta sia cattolico. Anche questo non lo so. So però che ci sono tutte le condizioni perché nuovamente due cattolici diventino i padri di una legge distruttiva della famiglia. Ne abbiamo viste altre in passato, ma non ci siamo ancora abituati fino in fondo e la cosa continuerebbe a stupirci. Del Noce aveva visto lungo quando si occupava de “il cattolico comunista”. Certo, Franco Rodano era un gigante rispetto a Letta, ma la linea, ancorché indebolitasi come tutto del resto nella nostra società dell’apparenza, è sempre quella.

Appena Renzi ha fatto l’annuncio del progetto sulle unioni civili ha trovato l’appoggio di Forza Italia. Da quando la sinistra italiana – diceva Del Noce – ha smesso di predicare la rivoluzione (non so di preciso quando questo sia avvenuto, molti dicono con Gramsci, ma è certo che sia avvenuto) si è incontrata con il progressismo liberale della borghesia italiana. Egli non conosceva né Bondi né Galan, ma parlava già allora anche di Bondi e di Galan. E su questo sta succedendo un curioso paradosso. Nel vecchio Pdl gli Alfaniani avevano in mano la linea del partito su questi temi. Grazie alle Roccella, ai Sacconi, ai Quagliariello, ai Calabrò e ai Giovanardi il Pdl aveva sgarrato poco, il meno possibile. La resistenza al progressismo radicale aveva tenuto. È poi accaduto che costoro abbiano abbandonato Forza Italia per sostenere il governo Letta. Governo Letta che ora si prepara ad accogliere la proposta Renzi sulle unioni civili. Nel frattempo la linea in Forza Italia su questi temi è stata lasciata ai Capezzone. Cosa impedirà a Forza Italia di accordarsi con Renzi non solo sulla legge elettorale ma anche sulle unioni civili?

Le cose si mettono male per gli Alfaniani che, dentro Forza Italia avrebbero potuto contare molto nell’opporre tutto il partito alla proposta Renzi, aiutati dal fatto di essere all’opposizione del governo Letta e di avere in mano la linea sui temi etici, e che invece ora si trovano a scegliere tra la stabilità e le riforme istituzionali da un lato e le unioni civili dall’altro. Queste ultime, come tutti sanno, sono la porta aperta al matrimonio omosessuale e, quindi, alla possibilità di avere figli con concepimento in vitro, banche del seme e utero in affitto. Renzi, da buon conservatore della tattica della sinistra oltre che della sua ideologia dei non valori, questo non lo dice e parla solo di civiltà e di diritti, ma la Lorenzin o Lupi sanno bene come stanno le cose.

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Processo ai nuovi modernisti

di Roberto de Mattei (26/11/2013)

Le reazioni su questo giornale di mons. Luigi Negri, di don Francesco Ventorino e del prof. Massimo Borghesi, al mio articolo sulla “liquefazione della Chiesa” (Il Foglio, 12 novembre 2013) mi impongono di tornare su una questione di fondo del dibattito cattolico contemporaneo: quella riguardante la definizione della fede, indubbio fondamento della vita cristiana.

Il dato di fatto da cui partire, e su cui spero anche i miei interlocutori convengano, è il crollo della fede, verificatosi nella Chiesa negli ultimi cinquant’anni. Inaugurando il 27 gennaio 2012 l’Anno della Fede, Benedetto XVI si esprimeva in questi termini: “Come sappiamo, in vaste zone della terra la fede corre il pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più alimento. Siamo davanti ad una profonda crisi di fede, ad una perdita del senso religioso che costituisce la più grande sfida per la Chiesa di oggi. Il rinnovamento della fede deve quindi essere la priorità nell’impegno della Chiesa intera ai nostri giorni”. Ma l’Anno della fede si è chiuso – occorre dirlo – senza che si intraveda in alcun modo una risposta forte delle autorità ecclesiastiche di fronte alla crisi in atto. La stessa enciclica Lumen Fidei ignora in maniera sorprendente questo drammatico problema. Ma cos’è la fede? La risposta a questa domanda non ammette equivoci, dopo la definizione del Concilio Vaticano I, riproposta dal nuovo Catechismo della Chiesa cattolica: la fede è l’adesione della ragione, mossa dalla grazia, alle verità rivelate da Dio, per l’autorità di Dio stesso che ce le rivela. Le verità rivelate sono dette tali perché sono contenute, in maniera esplicita o implicita, nella rivelazione divina, conclusa con la morte dell’ultimo apostolo. La Sacra Scrittura e la Tradizione raccolgono queste verità, che formano la fede oggettiva e immutabile della Chiesa. In alcuni casi tali verità oltrepassano la nostra ragione e sono dette misteri. I due misteri centrali del Cristianesimo sono la Trinità e l’Incarnazione del Verbo. Essi sono superiori alla nostra ragione, ma non le si oppongono. Crediamo queste verità perché ci sono rivelate da Dio. Ma l’esistenza di Dio prima di essere una verità di fede, è verità filosofica, che può essere dimostrata dalla ragione, così come può essere dimostrata dalla ragione l’esistenza e l’immortalità dell’anima. La fede interessa non solo la teologia, ma la filosofia, come mostra bene Antonio Livi (si veda ad esempio il suo Razionalità della fede nella rivelazione, Leonardo, Roma 2005). L’inconoscibilità della natura di Dio non va confusa con la certezza razionale della sua esistenza. Solo dopo aver assodato che Dio esiste possiamo credere in Lui e nella sua rivelazione. Per questo sant’Agostino dice che dobbiamo “Credere Deum, Deo, in Deum”, cioè credere Dio come oggetto della fede; credere a Dio come motivo della fede; credere in Dio come suo fine.

Lutero per primo stravolse il concetto tradizionale di fede. L’uomo, integralmente corrotto dal peccato originale, è per lui incapace di conoscere il vero e amare il bene. La fede non consiste nella ragione e nella volontà, imputridite dal peccato, ma nella “fede fiduciale”, che nasce da un sentimento di disperazione profonda ed ha il proprio oggetto nella misericordia di Dio, invece che nelle verità da lui rivelate. Appellandosi a questa visione pietista e individualista della fede, Lutero e suoi continuatori fanno dell’esperienza religiosa l’unico criterio della vita cristiana. In tutta la tradizione evangelico-protestante la religione è vista come un “incontro” salvifico con Dio, in cui la fede soggettiva assorbe e dissolve quella oggettiva. Nella Esquisse d’une philosophie de la religion (1897) di Auguste Sabatier (1839-1901) arriva a compimento la riduzione protestante della fede a sentimento. L’atto di fede è inteso come incontro con la potenza oscura e misteriosa da cui l’anima dipende e da cui dipende il suo destino. Tutto ciò che è dogma e riflessione teologica non è altro che la trascrizione simbolica di un’esperienza religiosa collettiva in continua evoluzione.

Negli stessi anni in cui appare l’opera di Sabatier, Maurice Blondel (1861-1949) pubblica l’Action (1893), prima espressione di quella filosofia dell’azione che, con il protestantesimo liberale, costituisce il retroterra immediato del modernismo. Secondo Blondel l’azione, e non il pensiero, attinge la verità dell’essere. La massima tradizionale secondo cui “agere sequitur esse” viene capovolta: l’azione precede l’essere e l’uomo trova la verità e la stessa fede nell’azione. L’azione è la sintesi del pensare e dell’agire, il vincolo tra il pensiero e l’essere. Blondel vuole dunque sostituire alla apologetica tradizionale, che si propone la dimostrazione razionale delle verità del Cristianesimo, una nuova apologetica basata sul principio di immanenza. Il metodo dell’immanenza pretende di trovare la verità della religione e dei misteri della fede partendo dalla coscienza dell’uomo, dai suoi bisogni, dalle sue aspirazioni, da tutto ciò che sgorga dalla sua esperienza di vita.

Tesi analoghe erano espresse dal teologo del modernismo George Tyrrell (1861-1909), che dopo essersi convertito dal protestantesimo al cattolicesimo entrò nella Compagnia di Gesù, ma presto ne contestò l’insegnamento. Anche per Tyrrell, la religione è un’unione del cuore con Dio che fa a meno della verità dei dogmi. Il Dio di Tyrrell, come quello di Blondel, è immanente alla coscienza, che lo riconosce nella propria esperienza religiosa. Non è la verità a determinare l’esperienza, ma l’esperienza a costituire il criterio supremo della verità. “Trait d’union” tra Blondel e Tyrrell fu Henri Brémond (1865-1930), anch’egli gesuita, insofferente della disciplina e dell’insegnamento della Compagnia. La corrispondenza tra Brémond e Tyrrell è istruttiva a questo proposito (Lettres de George Tyrrell à Henri Brémond, Aubier, Parigi 1971). Brémond, in preda a crisi di nevrastenia, confidava a Tyrrell di voler lasciare i gesuiti per vivere, come Tyrrell, con un’amante. Il suo ideale – scriveva – sarebbe stato quello di una “vita clericale adogmatica”. Tyrrell risponde al confratello di essere prudente e di abbandonare la Compagnia senza precipitare le cose. Quando qualche anno dopo Tyrrell morirà, dopo essere stato scomunicato da san Pio X, Brémond sarà al suo capezzale e, seguendo i suoi consigli, vivrà poi nel mondo come un semplice sacerdote cripto-modernista, intraprendendo una carriera letteraria che lo porterà all’Académie française. La sua poderosa Histoire littéraire du sentiment religieux en France (1915-1933, 11 volumi), già nel titolo riassume le tesi degli amici Blondel e Tyrrell: la fede ridotta a intuizione poetica, esperienza di vita mistica che vanifica ogni verità dogmatica.

Tra i diretti continuatori di questa linea di immanenza vitale fu il padre Henri de Lubac (1896-1991), anch’egli, come Brémond e Tyrrell, appartenente alla Compagnia di Gesù, ma a differenza di loro gesuita fino all’ultimo giorno della sua vita. De Lubac, come Blondel, pone nella coscienza dell’uomo la possibilità di incontrare Dio con le proprie forze, distruggendo la fondamentale distinzione tra l’ordine naturale e quello soprannaturale. Il cardinale Siri, in Getsemani. Riflessioni sul Movimento Teologico Contemporaneo (Fraternità della Santissima Vergine, Roma 1980), ha ampiamente confutato questi errori teologici. Pio XII, con l’enciclica Humani generis (1950), condannò le tesi di de Lubac e degli altri esponenti della nouvelle théologie progressista, ma dopo la sua morte furono proprio loro i protagonisti del Concilio Vaticano II, a cui diedero l’orientamento di fondo. De Lubac fu creato cardinale da Giovanni Paolo II ed è oggi citato spesso da Papa Francesco, anche se pochi ne hanno letto le opere, criptiche e prolisse.

Negli anni del postconcilio, de Lubac appartenne all’ala “moderata” della nuova teologia progressista. Ma la sua moderazione, più che nel contenuto, è nei toni. Basta paragonare il suo diario del Concilio Vaticano II a quello del domenicano Yves Congar, per rendersi conto della differenza tra il suo linguaggio misurato e quello violento e spesso grossolano di Congar. Ciò non impedì a de Lubac di essere un entusiasta ammiratore e divulgatore delle opere del suo confratello Pierre Teilhard de Chardin, una delle figure estreme dell’eterodossia cattolica del Novecento, verso cui lo stesso Blondel aveva manifestato delle riserve.

De Lubac apparteneva a quella categoria di uomini che detestano le conseguenze delle proprie idee. Criticò il disfacimento postconciliare, ma non volle ammettere che le radici di quanto accadeva stavano proprio negli errori della nouvelle théologie. Nel 1972 fu tra i promotori della rivista Communio, e don Luigi Giussani, che negli stessi anni lanciava Comunione e Liberazione, lo riconobbe come un suo maestro. I discepoli di don Giussani protestano quando gli attribuisco una equivoca nozione di fede, e “Rosso Malpelo” (Gianni Gennari), mi accusa su Avvenire di dire “bugie”, ma la verità è consegnata alla storia.

Invito a leggere il libro di don Giussani, Un avvenimento di vita cioè una storia. Itinerario di quindici anni concepiti e vissuti, con un’introduzione del cardinale Ratzinger (Il Sabato, Milano 1993). Il volume raccoglie le interviste e gli appunti da conversazioni pubbliche che il fondatore di CL ha tenuto tra il 1976 e il 1992. Il libro non contiene nessuna esplicita negazione delle verità di fede e vuole manifestare anzi l’attaccamento alla Chiesa di don Giussani. Ma alla fine delle 500 pagine si rimane con una sensazione di vuoto intellettuale. Al lettore non rimane che questo messaggio: non serve né l’apologetica, né l’approfondimento razionale della verità. Ciò che conta è vivere. Ma vivere che cosa? Si tratta, spiega don Giussani, di “rendere la fede un avvenimento” (p. 339). Comunione e Liberazione nasce da una “intuizione del Cristianesimo come avvenimento di vita e quindi come storia” (p. 349). “Il metodo consiste in questo: che l’intuizione diventa esperienza (…). L’esperienza è il luogo in cui si vede se ciò che è intuito vale per la vita” (p. 351). La fede è incontrare Cristo, riconoscere la sua presenza nella storia e nella propria vita. Ma chi è Cristo? La risposta ciellina è scoraggiante: colui che si incontra. Il problema di fondo è che, al di fuori della tautologia dell’incontro, CL non è andata e non potrà mai andare, proprio per la sua pretesa di ridurre il cristianesimo a pura esperienza ed esigenza dello spirito.

Il Cristianesimo, certo, è anche esperienza, ma l’esperienza è per sé stessa, incomunicabile; mentre ciò che si può comunicare sono i princìpi che precedono l’esperienza e da cui l’esperienza dipende. Nessuno mette in dubbio l’esistenza dell’esperienza religiosa che, sotto certi aspetti, è la forma più alta di vita cristiana. L’esperienza è infatti una conoscenza immediata e diretta della realtà. Ma l’esperienza religiosa non solo non nega la credibilità razionale della fede, ma la presuppone. Nella prospettiva di Cielle invece cade l’apologetica e tocca alla vita, e non alla razionalità dei motivi, dare la dimostrazione dell’esistenza di Dio e della verità della Chiesa. L’esperienza religiosa però ha valore solo se sottomessa alla ragione, alla rivelazione e al magistero. Oggi si è smarrita la vera nozione di fede, perché la si riduce a sentimento del cuore, dimenticando che essa è un atto razionale, che ha come oggetto la verità. L’intelletto è la sola facoltà spirituale che può far proprie le verità proposte dalla rivelazione. Per i modernisti di oggi, come per i protestanti di una volta, la fede appartiene alla sfera affettiva e irrazionale. L’oggetto della fede, le verità credute, diventa secondario. Si rigetta in blocco il realismo greco-cristiano, negando valore al Logos, ai primi princìpi della ragione e al primato della metafisica. Ciò che conta è l’esperienza individuale del credente, quello che egli vive nella sua sensibilità. L’esperienza intima del soggetto diviene l’unica esperienza della vita cristiana e la coscienza religiosa l’essenza della vita della Grazia. Questa “esperienza di fede” rifugge dalle affermazioni dogmatiche, nella convinzione che ciò che è assoluto divide e solo ciò che muta e si adatta può unire gli uomini tra loro e a Dio. In questa religione dell’umanità caratteristica dei nostri tempi l’affermazione netta della verità è un atto di intolleranza verso il prossimo e il compromesso tra la fede e il mondo diviene il modello di ciò che definito “incontro” con Dio. La fede però non è irenica: si alimenta con lo studio, con la discussione, anche con la polemica. Quando si discute con passione, vuol dire che si crede e il calore della polemica è talvolta la misura dell’amore verso ciò in cui si crede. Ma all’interno dello stesso clero, chi crede oggi, e in che cosa?

Perché l’esperienza religiosa sia vera e non sia un’illusione ci vuole invece un criterio di verità. Il problema di fondo è come determinare l’autenticità dell’esperienza. L’esperienza religiosa può essere solo esperienza del vero Dio e della vera religione: non è un generico sentimento di dipendenza dall’assoluto. È esperienza religiosa quella di un buddista immerso nel Nirvana? De Lubac pensa di sì e forse anche alcuni discepoli di don Giussani.

Ogni errore ha delle conseguenze. La scarsa sensibilità liturgica di Comunione e Liberazione non è casuale. La massima della Chiesa secondo cui la lex orandi traduce la lex credendi presuppone l’esistenza di una integra e coerente dottrina, di cui la liturgia è visibile espressione. Ma se la dottrina è assorbita dalla vita, la liturgia non può che essere condannata all’estinzione. L’amore per la liturgia tradizionale presuppone necessariamente l’amore per le verità tradizionali. E il tanto bistrattato “tradizionalismo” non è altro che questo: amore alla verità della Chiesa in tutte le sue espressioni, da quelle liturgiche a quelle politiche e sociali. I cosiddetti “tradizionalisti”, che sono solo cattolici senza compromessi, si richiamano all’insegnamento immutabile della Chiesa: non idolatrano il potere, ma credono nella Regalità sociale di Gesù Cristo, ossia sul suo diritto a regnare su ogni uomo e sulla società intera. L’“esperienza religiosa” a cui si rifanno è quella di coloro che testimoniarono col sangue la loro visione cristiana della società, come i Vandeani in Francia e i Cristeros in Messico. Nulla a che fare con l’amoralismo politico di cui negli anni Cielle ha dato prova. Sarebbe vano cercare un filo conduttore negli ospiti illustri del Meeting di Rimini, dalle sue origini ad oggi: personalità di destra e di sinistra, conservatori e progressisti si sono alternati e si alternano in una passerella del potere, che se è priva di continuità intellettuale e politica, non manca di intima coerenza nel suo radicale pragmatismo. Il lungo idillio di Comunione e Liberazione con Giulio Andreotti deve far riflettere. Andreotti fu l’incarnazione dell’amoralismo politico e tra la filosofia della prassi ciellina e la politica della prassi andreottiana, l’incontro era obbligato. L’uomo che andava a Messa ogni mattina, non esitava a firmare, nel 1978, la legge abortista in Italia. La fede svincolata dai princìpi razionali e dai “valori non negoziabili” rende disponibili a qualunque avventura. Così oggi Roberto Formigoni, quando “apre” all’affidamento di bambini alle coppie gay, non è incoerente con la “filosofia della prassi” a cui si ispira.

Il prof. Massimo Borghesi ritiene che negli anni Settanta, fu “la pedagogia dell’esperienza” di CL e non il tradizionalismo a “salvare” la Chiesa. Io ritengo invece che Comunione e Liberazione abbia semplicemente intercettato la parte sana del mondo cattolico rimasta “orfana” negli anni bui del post-concilio, senza essere in grado di dare a questi giovani gli strumenti teologici e filosofici di cui avevano bisogno, a cominciare da una retta nozione di fede. Molti di essi, oggi non più giovani, erano e sono di ottima qualità ed è soprattutto a loro che mi rivolgo quando affermo che Comunione e Liberazione non ha costituito un argine alla crisi della fede dei nostri giorni, ma ha contribuito all’infiacchimento della fede e alla sua crisi attuale, senza negare naturalmente le buone intenzioni di nessuno e con il massimo rispetto per i miei interlocutori, a cominciare da mons. Luigi Negri, al quale contraccambio stima e amicizia.

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Confusione e interpretazione

L’intervista e il rischio di farsi travolgere dallo “spirito di Bergoglio”

27 settembre 2013 – ore 12:39

Chiunque parli o scriva in pubblico sa che c’è una differenza tra il dire qualcosa e comunicarla. Ogni espressione rischia di essere fraintesa e se non si ha il coraggio e la pura impertinenza di prendersi un rischio, non si potrà mai dire nulla. Ecco perché, come argomenta brillantemente Richard Weaver, c’è un’etica della retorica. Bisogna stare attenti non solo riguardo a ciò che si dice, ma a come lo si dice. Il come è parte della cosa. Un appello morale ben formulato, ma insipido, cade nel vuoto. La presentazione trascurata di un argomento complesso lascia le persone ancora più incerte e ansiose. Il che ci porta alla lunga recente intervista di Papa Francesco. I media si sono fissati su alcune frasi, come quella sulla chiesa che non ha bisogno di parlare sempre di aborto, contraccezione e di omosessualità, e che ha bisogno di un “migliore equilibrio”, che si concretizza in un’attenzione maggiore per l’amore salvifico di Dio e minore “insistenza” o “ossessione” circa i precetti rigidi e talvolta banali. Com’era prevedibile, i media se ne sono usciti sostenendo che il Papa dice che i controversi insegnamenti morali della chiesa sono “secondari”. Sono apparse difese eloquenti del Papa, tra cui quella del mio collega di un tempo George Weigel. George giustamente contestualizza le osservazioni di Francesco all’interno di una spinta evangelica. Ristabilendo il contatto tra la gente e l’amore di Dio, il Papa sostiene che il popolo sarà in grado di ascoltare di nuovo gli insegnamenti morali più difficili. Chiunque voglia sentire cum ecclesia e chi crede che lo Spirito Santo sia attivo nelle elezioni papali, deve cimentarsi con lo spirito fresco di Francesco. Eppure, c’è un “ma”. Permettetemi di spiegarlo in modo chiaro e tondo.

Dando per assodato tutto ciò, quando questo Papa concede interviste (qualcosa che non gli piace), i risultati hanno quasi sempre lasciato tutti sconcertati. E ci potrebbero essere buone ragioni per questo. Non si può impedire alla gente di fraintenderle. Ma il Papa è, tra le altre cose, un insegnante. E un buon insegnante ha la responsabilità morale di evitare interpretazioni errate. Voglio mettere in evidenza – e spero di sbagliarmi – qualcosa che temo sia già iniziato. Dopo il Concilio, la chiesa affrontò decenni di tormento a causa dello “Spirito del Vaticano II”, uno spirito che contraddiceva i documenti conciliari e molta della storia cristiana. Ma non importava. Quello “spirito” ribelle veniva prima di tutto. Noi siamo, credo, vicini a quello che potrebbe diventare lo spirito di Bergoglio, un altro periodo di confusione basato, ancora una volta, non sulle reali parole del Papa, ma sulle emozioni sbilanciate cui certe sue frasi improvvisate hanno originato.

Le parole stesse, benché sempre ortodosse, non sono immuni da problemi. Il mio collega Brad Miner sottolinea che 1.300.000 bambini sono stati abortiti nel mondo dagli anni Ottanta. La chiesa ha appena chiesto con forza di evitare la morte di innocenti in Siria. E’ un’ossessione urlare dai tetti il moderno massacro di massa degli innocenti? E’ giusto che il Papa dica che è “pastoralmente” sbagliato ossessionare o insistere sempre su certe questioni. E’ del tutto controproducente interagire con le altre persone in questo modo. La questione, tuttavia, non riguarda un approccio più pastorale. Lo confesso, non so a chi egli si riferisca quando parla di “ossessionati”, oltre che a pochissimi fanatici. Negli Stati Uniti – lo stesso potrebbe essere detto riguardo l’Europa e l’America latina – noi abbiamo parlato dell’amore salvifico di Dio verso i peccatori per decenni. I pontificati di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI non sono stati epoche di moralismo autoritario. Sono stati sforzi sofisticati per darci il vero Concilio Vaticano II – una proclamazione del potere salvifico di Dio e, al contempo, una più chiara guida morale. Questo è ciò che la maggior parte di noi ha sperimentato come chiesa negli ultimi decenni.

Papa Francesco aggiunge qualcosa: “Gli insegnamenti dogmatici e morali della chiesa non sono tutti equivalenti. Il ministero pastorale della chiesa non può essere ossessionato con la trasmissione di una moltitudine di dottrine disarticolate da essere imposte con insistenza. La proclamazione in uno stile missionario si concentra sull’essenziale, sulle cose necessarie: questo è anche ciò che affascina e attrae di più, ciò che fa ardere il cuore, come accadde ai discepoli di Emmaus. Noi dobbiamo trovare un nuovo equilibrio, altrimenti anche l’edificio morale della chiesa rischia di cadere come un castello di carte, perdendo la freschezza e la fragranza del Vangelo. La proposta del Vangelo deve essere più semplice, profonda, luminosa. E’ da questa proposta che poi derivano le conseguenze morali”. L’urgenza, la luminosità e la freschezza sono parole nuove e benvenute.

Ma se dovesse telefonarmi – lui fa queste cose, ma io non sto trattenendo il respiro – io ricorderei la frase fuorviante con cui inizia il passaggio qui sopra citato. E’ vero: non tutto nel cattolicesimo è sullo stesso piano. Benedetto e i vescovi americani, per esempio, hanno tentato per anni di spiegare che la vita ha la precedenza su questioni politiche secondarie. Francesco è senza dubbio d’accordo, ma prima di rafforzare il suo punto evangelico, ha fornito un inutile assist a coloro che vorrebbero travisare le sue parole.

Quelli tra di noi che pubblicamente combattono queste battaglie sanno già ciò che sentiremo dire: “Voi cattolici dovete smetterla di abbaiare tutto il tempo sull’aborto (o la contraccezione o il matrimonio omosessuale). Anche il Papa vi ha detto di darci un taglio”. E non sarà del tutto sbagliato. Il mondo è troppo felice che la chiesa abbandoni il campo di battaglia concedendo così alla secolarizzazione di uccidere bambini in numeri inimmaginabili, distruggere il matrimonio, e visto che ci siamo, ridurre la libertà religiosa – e nulla di ciò sarà positivo per gli sforzi evangelici promossi da Francesco. Francesco sta cercando di portare un nuovo spirito cattolico nel mondo e questo è positivo. Speriamo che lo spirito che si rivelerà sia quello che cerca, e non uno spirito ribelle che gli altri imporranno a lui e alla chiesa.

di Robert Royal
direttore del mensile The Catholic Thing, dove l’articolo che traduciamo è stato pubblicato, e presidente del Faith&Reason Institute di Washington

Cristianesimo Cattolico: Il card. Burke parla in America, e dice che sui valori c’è poco da discernere

cristianesimocattolico:

Se non ci fosse stato il lungo colloquio del Papa con la Civiltà Cattolica, l’intervista al cardinale Raymond Leo Burke, prefetto del Supremo tribunale della Segnatura apostolica, sarebbe rimasta nascosta tra le pagine del mensile Catholic Servant, stampato a Minneapolis, e facilmente dimenticata….

Cristianesimo Cattolico: Il card. Burke parla in America, e dice che sui valori c’è poco da discernere

Vita e famiglia, il “tradimento” dei cattolici

Alla Giornata per l’Evangelium Vitae, il cardinale Burke denuncia la lobby multimiliardaria che promuove contraccezione e aborto, ma soprattutto la confusione dottrinale che regna tra i cattolici a proposito di aborto, contraccezione, eutanasia e unioni omosessuali. C’è però anche tra i “buoni” una sorta di rassegnazione alla vittoria del male, anche questa non cristiana.

di Massimo Introvigne (16-06-2013)

Sabato 15 giugno si sono aperte a Roma le manifestazioni per la «Giornata dell’Evangelium Vitae». In attesa della Messa del Papa di domenica, la giornata di sabato ha offerto numerosi momenti di preghiera e di penitenza – perché per i peccati contro la vita occorre anzitutto fare penitenza -, una catechesi in italiano del cardinale Camillo Ruini e un convegno in lingua inglese alla Pontificia Università Urbaniana aperto dal cardinale americano Raymond Leo Burke.

Personalmente ho seguito il convegno dell’Urbaniana, e della bella relazione del cardinale Burke ho apprezzato soprattutto un passaggio, del resto consonante con quanto ha detto anche il cardinale Ruini. Burke ha denunciato la lobby multi-miliardaria che con una potenza di fuoco inaudita conduce la sua battaglia per la «cultura anticoncezionale», per l’aborto e contro la famiglia. Non ha nominato esplicitamente Bill e Melinda Gates, che di questa battaglia contro la vita sono oggi i primi finanziatori, ma è come se l’avesse fatto. È vero: è grazie a questo immenso fluire di soldi che la propaganda anticoncezionale, abortista e omosessualista ci martella tutti i giorni, anche tramite i film, la televisione, e romanzi come «Inferno» di Dan Brown, che è un manifesto per il controllo delle nascite con tutti i mezzi.

Ma il cardinale Burke è andato oltre, chiedendosi: perché queste campagne hanno successo? Dopo tutto, per quanto denaro si spenda, si tratta di vendere la morte, il che non dovrebbe poi essere così facile. Citando il beato Giovanni Paolo II (1920-2005), il porporato americano ha suggerito che la cultura della morte vince non solo per l’aggressività dei nemici della verità naturale e cristiana ma anche per la confusione dottrinale che regna tra le fila dei cattolici. «La nuova Bussola Quotidiana» documenta questa confusione tutti i giorni. Il cardinale ha ragione: ci sono tanti cattolici – compreso qualche vescovo – che tradiscono il Catechismo e il Magistero con sconcertanti aperture su anticoncezionali, aborto, eutanasia e unioni omosessuali. E ha fatto molto bene Burke ha ricordare come tutto è cominciato nel 1968 con la contestazione di tanti teologi contro l’enciclica «Humanae vitae» del servo di Dio Paolo VI (1897-1978). Quella degli anticoncezionali, ha detto Burke, non è una questione secondaria: il cattolico che cede sugli anticoncezionali è già pronto a cedere su tutto il resto.

Appena accennato nel discorso di Burke è un secondo punto, che a me sembra decisivo. La cultura della morte vince non solo perché un certo numero di cattolici tradisce la verità sul terreno della morale. Vince perché milioni di cattolici, che sul piano dottrinale si dicono fedeli al Catechismo, sul piano della teologia e della visione della storia, quindi sul piano psicologico, sono stati fatti prigionieri dalla dittatura del relativismo. Il problema, su cui dobbiamo molto riflettere, è che tantissimi cattolici accettano, silenziosamente, la tesi della  presunta «irreversibilità» delle «conquiste» rivoluzionarie. Pensano che «non si possa più tornare indietro» perché certi processi sono irreversibili. Questa idea della irreversibilità ha convinto non solo teologi e vescovi progressisti ma anche tanti conservatori, tanti dirigenti cattolici e sacerdoti che non negano le verità morali del Catechismo.

Si sono convinti che la storia avanzi in modo lineare, che la rivoluzione contro la castità, l’aborto, il matrimonio omosessuale, l’eutanasia – domani l’«aborto post-natale» cioè l’infanticidio, l’assassinio dopo la nascita dei bambini malati e indesiderati, la prossima frontiera della cultura della morte, della cui sinistra avanzata ha fatto stato all’Urbaniana il filosofo Francis Beckwith – sia il risultato di processi «irreversibili». Si pensa che il treno sia partito e avanzi in modo lineare. Al massimo – com’è accaduto negli anni scorsi in Italia sul tema delle unioni omosessuali – il treno può essere fermato in stazione per un po’, ma poi inesorabilmente riprende la sua marcia. 

Anche molti «buoni» che si oppongono al matrimonio omosessuale e ad altri frutti della cultura della morte sono convinti di stare combattendo una battaglia di retroguardia, di battersi per onore di firma, ma senza possibilità di vincere, perché il «senso della storia» è un altro. Tutti sono – in una certa misura, tutti siamo – vittima del mito del progresso e dell’idea illuminista della storia lineare, i quali sono pilastri della visione del mondo relativista per cui la verità non è mai assoluta ma è sempre figlia del tempo. O ci liberiamo di questa superstizione, che la dittatura del relativismo ci martella nella testa e nel cuore tutti i giorni dell’anno, o la battaglia per la vita e la famiglia è già finita, l’abbiamo già persa e arriveranno dovunque i matrimoni omosessuali, l’eutanasia  e alla fine anche l’«aborto post-natale».

Dobbiamo denunciare il fatto che quali elementi costituiscano il «progresso» non è di per sé evidente ed è deciso dai poteri forti, che poi impongono le loro decisioni a tutti. Rimontare sull’idea dei processi «irreversibili» è difficile, perché le battaglie perse si sono accumulate. Eppure la storia non ha nessun senso umano predeterminato e necessario, le battaglie le vincono e le perdono gli uomini, e per il cristiano nessuna vittoria del male è «irreversibile». Anche il nazismo e il comunismo sovietico sembravano invincibili e «irreversibili» ma sono caduti. 

Ultimamente, credere che il male sia irreversibile e invincibile è parte di quella disperazione storica che, come ci insegna quasi tutti i giorni Papa Francesco, viene dal diavolo. Ma anche il diavolo non è invincibile, anzi è già sconfitto dal Signore Gesù. Di più: a rigore non esiste nessun senso della storia al di fuori della vittoria del Signore sul male, sulla morte e sul diavolo. Partecipare a questo unico vero senso della storia, a questa vittoria antica e sempre nuova del Signore, richiede però che ci liberiamo dalla superstizione del mito del progresso: una liberazione che possiamo conquistare solo nello studio, nella meditazione e nella preghiera.

La strana teoria di “Nuova Umanità”

di Stefano Fontana (La Bussola Quotidiana06-03-2013)

Continuano le interpretazioni riduttive dei “principi non negoziabili”. Riduttive significa, alla fine, tali da poter giustificare tutte le scelte politiche e partitiche, cosa che, invece, i principi non negoziabili non permettono. 

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Mi riferisco questa volta all’articolo di Antonio Maria Baggio dal titolo “I principi non negoziabili: verità e strumentalizzazioni”, pubblicato su “Nuova Umanità”, la rivista scientifica promossa dal Movimento dei Focolari. Baggio ne parla assai bene dei principi non negoziabili, però anche li smorza finendo per concludere per una loro “negoziabilità”. Non negoziabili, invece, vuol proprio dire non negoziabili. Implicano un: “non posso!”.

Queste verità – egli dice – “non devono essere considerate come degli idoli intoccabili, ma vengono sempre comprese meglio nel corso della storia: ogni generazione di cittadini ha il dovere di interrogarsi intorno ai contenuti e alla formulazione di tali fondamenti” perché comprendere non è negoziare. Però poi conclude dicendo: “Il momento di negoziare, poi, verrà, come è necessario, nei luoghi istituzionalmente deputati a farlo, e si concluderà con una decisione presa a maggioranza”. Questa è la “saggezza della democrazia, che impone di prendere una decisione perché la società ne ha bisogno; e tutti accettano la decisione della maggioranza, proprio perché con essa non si pretende di aver stabilito una verità”.

Procediamo con calma. È vero che i grandi assoluti etici si apprendono nella storia. In quale altra dimensione viviamo se no? Però la coscienza morale dell’umanità arriva a comprendere delle verità etiche valide sempre e in ogni caso, quindi aventi un valore morale assoluto. Nella storia, anche per il decisivo apporto della Rivelazione, si apprende qualcosa che supera la storia. La maggioranza democratica non stabilisce la verità. Questo anche Baggio lo riconosce. Poi però fonda proprio su questo il fatto che tutti devono accettare una decisione presa a maggioranza, escludendo perfino l’obiezione di coscienza.

La democrazia viene qui assolutizzata, non perché essa pretenda di incarnare la verità ma, al contrario, perché non lo pretende: per questo le sue decisioni devono essere accettate da tutti. La democrazia non determina la verità, ma ha a che fare con la verità, che ne giudica le decisioni. Per questo il cattolico si ritirerà dalle istituzioni “deputate a negoziare” quando la negoziazione vertesse su cose non negoziabili, non a sua disposizione. Ma i principi non negoziabili quali sono? 

Secondo Baggio essi sono quelli elencati dalla Nota Ratzinger del 2002. Concordo. Dice poi che devono essere presi tutti insieme, non ne esistono di primari o di secondari e devono essere adoperati con prudenza. Essi esprimono “l’intera visione dell’essere umano”, che è sempre difficile da mettere a fuoco, tanto è vero che esistono molti partiti, consapevoli ognuno della propria parzialità.

Andiamo ancora con calma. A mio avviso tra i primi tre principi non negoziabili (vita, famiglia, libertà di educazione) e gli altri indicati da Ratzinger nel 2002 una differenza c’è. I primi tre hanno a che fare direttamente con la costruzione dell’umano e presentano degli assoluti negativi. In altri casi Benedetto XVI ha citato infatti solo questi tre. 

Prendiamo per esempio il principio non negoziabile della solidarietà nella sussidiarietà. Oppure quello della pace. Ci sono molti modi per realizzarli. Ma la soppressione del concepito pone davanti a un aut-aut. Cosa c’è da negoziare? O dico di sì o dico di no. Del resto, gli altri dipendono dai primi tre, non si possono realizzare senza aver realizzato i primi tre.

E veniamo alla prudenza. La prudenza riguarda i mezzi, non i fini. Davanti all’uccisione del concepito mi potrebbe dire Baggio che tipo di prudenza, ossia di scelta dei mezzi, un cattolico dovrebbe applicare? Se il fine è assolutamente sbagliato, ossia se non è un fine, quali mezzi devo prudentemente valutare? 

I principi non negoziabili non pretendono di dirci tutto sulla persona umana, ma di dirci quegli aspetti senza dei quali non è persona umana e che noi siamo tenuti a rispettare assolutamente, sempre e in ogni circostanza. 

Se la panoramica completa dell’uomo non ci è data – almeno quaggiù -, questi ci sono dati in tutta la loro chiarezza e cogenza. È vero che i partiti esprimo posizioni parziali sull’uomo. Ma proprio per questo c’è bisogno di illuminarne l’azione con qualcosa che parziale non è. Viceversa in politica tutto sarebbe parziale (e relativo). Della prudenza politica Baggio ha una strana visione: “Per i cattolici i principi non negoziabili sono chiari, molto più difficile è decidere come tradurli in leggi, in decisioni operative, in voto politico. Tanto è vero che i cattolici applicano in maniera molto differenziata il criterio di prudenza, scegliendo mezzi, cioè programmi politici e partiti, molto diversi”.

Ma quest’ultima è imprudenza e non può essere presa a prova di saggezza. Mi chiedo: come fa un partito che abbia nel suo programma l’allargamento della legge 40 o il divorzio breve essere un mezzo per il raggiungimento del principio non negoziabile della difesa della vita e della famiglia? Una prudenza politica piuttosto imprudente. 

Però credo di aver capito cosa intende Baggio. Siccome i principi non negoziabili sono sei o sette, penso che per lui prudenza politica voglia dire di soppesarli e tenerli tutti insieme. Anche Baggio trasforma di fatto i principi in valori, atti ad essere soppesati al fine di trovare il mix adatto alla situazione, sempre in attesa, naturalmente, del verdetto della maggioranza che non può essere rifiutato perché rappresenta la “saggezza della democrazia”. 

Davanti ad un “abominevole delitto” quale è l’aborto, che mix vogliamo fare? A leggere riflessioni come queste di Baggio si capisce benissimo perché le recenti elezioni siano andate, quanto a comportamento dei cattolici, così come sono andate.

Cristianesimo Cattolico: Una strategia fallimentare

cristianesimocattolico:

L’idea di favorire la candidatura dei cattolici in tutti i partiti si è rivelata un boomerang che ha indebolito una presenza capace di promuovere i princìpi non negoziabili, sia numericamente sia nei contenuti.

di Riccardo Cascioli (06/03/2013)

Aereo militare americano: un gruppo di soldati…

Cristianesimo Cattolico: Una strategia fallimentare