Osi, Monsignore! Un appello dalla Fondazione Lepanto

Il clima di indifferenza e di omertà che regna all’interno della Chiesa, ha profonde radici, morali e dottrinali, che risalgono all’epoca del Concilio Vaticano II, quando le gerarchie ecclesiastiche accettarono il processo di secolarizzazione come un fenomeno irreversibile. Ma quando la Chiesa si subordina al secolarismo, il Regno di Cristo viene mondanizzato e ridotto a struttura di potere. Lo spirito militante si dissolve e la Chiesa invece di convertire il mondo alla legge del Vangelo, piega il Vangelo alle esigenze del mondo.

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Il dramma della sodomia nella diocesi di Roma

di Emmanuele Barbieri (03/04/2013)

Uno dei problemi che Papa Francesco dovrà affrontare è quello dell’immoralità dilagante del clero che dalla periferia della cristianità giunge al cuore della Curia romana. La stampa laicista mette l’accento sul fenomeno della pedofilia, fingendo di ignorare che questo male affonda le sue radici nella piaga ben più vasta e ramificata della sodomia.

Due sacerdoti, l’italiano don Ariel Stefano Levi di Gualdo, che nel dicembre 2011 ha dato alle stampe la sua opera E Satana si fece Trino (Ed. Bonanno), e il polacco don Dariusz Oko, docente della Pontificia Università Giovanni Paolo II di Cracovia, che nell’estate del 2012 ha pubblicato Con il Papa contro la omoeresia, hanno recentemente sollevato il dibattito sull’esistenza di una vera e propria lobby omosessuale che esercita, in maniera sempre più coercitiva, una forte influenza dentro la Chiesa, anche ai livelli più alti delle responsabilità ecclesiastiche. La piaga di quella che è stata definita omoeresia, omomafia, omosessualizzazione della Chiesa, è ormai nota e il problema comincia ad essere affrontato da diversi siti cattolici e da studiosi come lo psicologo Roberto Marchesini nella sua opera Omosessualità e Magistero della Chiesa (SugarCo Edizioni, 2013) in cui l’articolo di don Oko è riportato integralmente in appendice.

Lo scenario è nauseante, fatto di potenti intrecci che coinvolgono prelati e sacerdoti di dubbi costumi, seminari, abbazie, monasteri, dove è pacificamente praticata una vita sessuale tendente all’effeminatezza. In queste istituzioni, talvolta storiche, gli elementi sani rischiano di esser stritolati.

In questa situazione di drammatico degrado ecclesiale arrivano sempre più numerose le segnalazioni di seminari e case di formazioni dove si diffondono pratiche sessuali in grave e aperto conflitto con l’etica cattolica, tollerate se non favorite o perfino talora sollecitate dai superiori. Una fotografia della generale corruzione del clero ce la dà la diocesi di Roma, se è vero essa è immagine della Chiesa nella sua universalità. Il Vicario Generale di Sua Santità sembra voler dare di sé l’immagine di persona inflessibile su certi fenomeni, ma di fatto poi, stando a quanto narrano e documentano numerosi sacerdoti e seminaristi, le punizioni esemplari ricadano solo sui deboli, mentre i potenti godono di una impunità ai più alti livelli. In un suo editoriale del 14 gennaio 2013, il direttore della “Nuova Bussola quotidiana”, Riccardo Cascioli, solleva un quesito rimasto senza risposta: «Tutti ricordiamo anche l’inchiesta del settimanale “Panorama” nel luglio 2010 sulle notti brave di alcuni preti gay a Roma. Fu un’inchiesta che generò giustamente scandalo e il vicario della diocesi di Roma, il cardinale Agostino Vallini fece affermazioni durissime contro questi sacerdoti, invitandoli a uscire allo scoperto e abbandonare il sacerdozio: eppure non se ne è saputo più niente, non ci sono state sanzioni di alcun genere sebbene alcuni dei responsabili fossero identificabili».

Levi di Gualdo nel suo libro, che a distanza di oltre un anno dalla pubblicazione non è stato mai smentito, ricorda, da parte sua, una denuncia, da lui presentata contro la palese immoralità del parroco di una importante basilica romana. Il Vicario Generale per la Diocesi di Roma reagì dichiarando Levi di Gualdo persona non gradita nell’ambito pastorale romano e lasciando che il prete immorale rimanesse al suo posto. Episodio che il sacerdote ha nuovamente riferito di recente in un’intervista in cui dichiara, tra l’altro, che «nella Chiesa è in atto un golpe omosessualista».

Anche il sacerdote polacco Dariusz Oko è dello stesso avviso del confratello italiano ed a conferma di certe dinamiche scrive nel suo articolo: «Quando un vicario tenta di difendere i giovani dalle molestie sessuali di un parroco è proprio lui, e non il parroco, ad essere richiamato all’ordine, vessato ed infine trasferito. Per aver svolto con coraggio il proprio dovere costui si ritrova a vivere esperienze dolorose» (cit. pag. 13). Se questi fatti, diversi dei quali resi pubblici e ancora in attesa di smentita fossero veri, la situazione ecclesiastica di Roma e delle diocesi italiane è a dir poco spaventosa.

Quel che più impressiona è che tutti, pur sapendo, tacciono, persino dinanzi a una denuncia, giungendo all’aberrazione di punire l’innocente proteggendo il colpevole. Ma se Roma è paradigma della Chiesa universale, a Roma una realtà è più di ogni altra cartina di tornasole, l’Almo Collegio Capranica, conosciuto per essere il più antico e prestigioso Istituto di formazione sacerdotale dell’Urbe e dell’orbe, l’unico dipendente direttamente dalla Santa Sede che provvede alla nomina del suo rettore. Già negli anni ‘70 il periodico “Il Borghese” pubblicò un dossier sulla generale immoralità regnante in questo Istituto; dossier che costò la testa dell’allora rettore fatto vescovo. Sostituito il rettore e placate sul momento le acque, tutto tornò però presto tale e quale a prima.

L’ultimo tentativo di moralizzazione fu fatto nei primi anni 2000 con il rettorato di uno spigoloso sacerdote marchigiano, ora in servizio presso la Santa Sede, che cercò di portare un po’ d’ordine e decenza. Si dimise dopo meno di due anni, su pressione di certi ambienti curiali che non tolleravano il suo desiderio di far pulizia. La situazione, ad oggi, non sembra cambiata.

Questo Istituto è un paradigma perfetto: una facciata di aulica nobiltà fatta di secolari tradizioni e un dietro le quinte fatto di notti brave dei seminaristi che, una volta liberi e dismesso il clergyman d’ordinanza, possono entrare e uscire a tutte le ore del giorno e della notte. Quindi incontri particolari tra seminaristi, ma anche tra prelati più o meno potenti in cerca di compagnia. Amicizie molto intime tra alunni, sia seminaristi che sacerdoti, sono all’ordine del giorno fino alla costituzione di vere e proprie coppiette omosex, il tutto senza troppo bisogno di nascondere. All’interno di questo blasonatissimo seminario basta avere un po’ di confidenza con qualche seminarista per sapere chi è “fidanzato” con chi e quali siano i nomignoli al femminile con cui è chiamato questo o quel seminarista, questo o quel sacerdote.

Per giustificare questo stato di depravazione, chi governa questo microcosmo seminariale invoca il principio dell’autoformazione della Pastores dabo vobis (n. 69) e del Direttorio su La formazione dei presbiteri nella Chiesa italiana, stravolti però in senso tutto quanto liberal. Il documento Orientamenti e norme per i seminari (n. 73) riconosce sì come necessaria al processo formativo la capacità all’autoformazione del candidato al sacerdozio, ma non declinata secondo una prassi libertaria che finisce col farsi poi de facto libertina.

Se poi si considera che questo ambíto istituto è una vera e propria “fabbrica” di vescovi, nunzi apostolici e cardinali, come non rabbrividire?  Si dirà: è un caso isolato dovuto a particolarissime condizioni. In realtà è molto di più: è un paradigma. Si tratta infatti del più antico e titolato istituto, direttamente dipendente dalla Santa Sede, preposto alla formazione sacerdotale. Non vogliamo generalizzare, ma viene da chiedersi: se tanta è la sporcizia nel collegio la cui direzione dipende immediatamente dalla Prima Sede, cosa accadrà negli altri dipendenti dalle sedi secondarie? Quella sporcizia denunciata dal cardinale Ratzinger durante la Via Crucis del 2005 sommerge la Roma dei seminari e dei collegi, a partire proprio dal più prestigioso ed esclusivo. Preghiamo dunque perché il nuovo Papa trovi la forza di iniziare la pulizia morale che tutti invocano dalla diocesi di cui, fin dal giorno della sua elezione, si è proclamato con fierezza vescovo.

E le Acli si piegano al gender

8 marzo, festa della donna. Per tutti, ma non per le Acli che oggi hanno deciso di festeggiare la “cultura di genere”. Un’imperdonabile svista o una presa di posizione contro il Magistero della Chiesa Cattolica?

di Tommaso Scandroglio (08-03-2013)

Le ACLI oggi hanno deciso di festeggiare non la donna, ma la “cultura di genere”. Il Coordinamento Donne ACLI ha pubblicato un manifesto (“8 Marzo dedicato alla Cultura di genere”) in occasione della festa della donna tutto teso a incensare le differenze di genere pensando così di incensare il ruolo e il valore della donna, ma ottenendo l’effetto contrario. L’errore principale contenuto in questo manifesto è usare l’espressione “cultura di genere”, assai ripetuta in tutto lo scritto. Com’è noto questa espressione è stata coniata nei circoli culturali e politici di matrice omosessualista ed esprime in buona sostanza il seguente concetto: tu puoi essere maschio o femmina, ma non per questo devi sentirti maschio e femmina. Una cosa è il dato genetico-biologico – il sesso maschile o femminile – un’altra la percezione psicologica di appartenere al mondo maschile o femminile, oppure a nessuno dei due, e un’altra ancora la scelta del proprio orientamento sessuale. E così un uomo può sentirsi lecitamente attratto verso un altro uomo e una donna verso un’altra donna, oppure una persona può decidere di avere una posizione di neutralità in fatto di orientamento sessuale. Il dato di realtà biologica quindi per l’ideologia di gender non deve per forza fungere da stella polare e vincolo per le proprie scelte affettive e sessuali. Si comprenderà bene allora che l’espressione “cultura di genere” stona alquanto in un documento di un’associazione che nel suo stesso nome richiama il cristianesimo (Associazioni cristiane lavoratori italiani), che si rifà alla Dottrina sociale della Chiesa e che insieme ad altre sigle è stata protagonista di Todi uno e Todi due. Le parole sono tutto, perché se cambi un termine per indicare un dato di realtà cambi la percezione della realtà e finisci per far credere alla lunga che addirittura quella realtà non esista più o ne esista un’altra che è il parto anomalo della fantasia di qualcuno.  E così parlare di “genere” – termine che ha un suo uso proprio solo in grammatica – persegue l’obiettivo non solo di legittimare qualsiasi scelta sessuale, ma anche di tentare di eliminare nelle menti di molti un dato di realtà, cioè che l’umanità è composta di maschi e femmine, al fine di far credere che non esiste più il sesso, ma il genere. Ben inteso le ACLI nel loro scritto non appoggiano esplicitamente tali tesi (seppur la frase “i mille colori delle differenze culturali e quelli delle differenze di genere” pare un richiamo non troppo velato alla bandiera arcobaleno del movimento gay e così l’immagine del manifesto che ritrae un profilo di donna con la chioma variopinta), ma facendo propria questa espressione – così a la page e così progressista – fanno entrare nelle mura cattoliche un Cavallo di Troia che contiene al suo interno i nemici dell’ideologia gender. Oltre a questo il rimando alla cultura di genere è involontariamente un autogol per lo stesso Coordinamento Donne che si batte per la parità dei sessi, per il riconoscimento della peculiarità della figura femminile e contro ogni discriminazione. Infatti, come prima appuntato, la cultura di gender considera un nemico sia l’esistenza del sesso maschile e femminile, sia il ruolo sociale dell’uomo e della donna. Le differenze specifiche – che nel documento delle ACLI vengono valorizzate – sono la kriptonite per i sostenitori della cultura di genere la quale vuole in ultima istanza un annullamento delle differenze stabilite da madre natura per arrivare alla liquidità di ruoli sociali, orientamenti sessuali e strutture psicologiche indefinite. L’essere donna quindi per la cultura di genere è un dato di verità antropologica da superare perché percepito come limite alla propria libertà di definirsi come persone così come più aggrada. Si tratta in ultima istanza dell’ennesima variazione del concetto di utopia: non riconosco la realtà per quello che è  e ne rispetto le regole insite in essa, ma invento io un nuovo mondo con nuove regole. E in questo nuovo mondo non c’è posto non solo per l’uomo in quanto maschio, ma nemmeno per la donna in quanto femmina. Quindi per paradosso, inneggiando al “gender”, dalla festa della donna si passa a celebrare un “genere” di festa non proprio femminile. Tralasciamo poi alcune considerazioni sul contenuto del manifesto che non attengono specificatamente alla questione della cultura gender e che rimandano a un’interpretazione del valore della donna di chiara matrice progressista, con rimandi non troppo velati al materialismo storico-dialettico declinato come lotta sociale e a un certo femminismo radicale. Poniamoci invece la seguente domanda: usare l’espressione “cultura di genere” è una svista, un mero omaggio alla linguistica contemporanea oppure c’è di più? Difficile credere che coloro che hanno redatto il manifesto ignorino la posizione del Magistero su questo tema e, anche quando fosse così, una tale ignoranza sarebbe comunque colpevole e non scusabile. Infatti solo meno di tre mesi fa Benedetto XVI, in occasione degli auguri natalizi alla curia romana, così si espresse: “’Donna non si nasce, lo si diventa. In queste parole è dato il fondamento di ciò che oggi, sotto il lemma ‘gender’, viene presentato come nuova filosofia della sessualità. Il sesso, secondo tale filosofia, non è più un dato originario della natura che l’uomo deve accettare e riempire personalmente di senso, bensì un ruolo sociale del quale si decide autonomamente […]. La profonda erroneità di questa teoria e della rivoluzione antropologica in essa soggiacente è evidente”. Colui che si presenta con credenziali cattoliche non può che allinearsi alla posizione del Magistero e mettere al bando anche solo meri rimandi terminologici a filosofie inconciliabili con la sana dottrina. Non varrebbe poi la scusa che “gender” è polisemantico, cioè termine ambiguo che indica diversi significati. Il Papa è stato esplicito sul punto, e poi chi sarebbe così temerario da usare la parola “nazismo” per indicare il proprio amore per la sua nazione? Il termine “gender” dunque non può essere presente nel vocabolario di un cattolico. In conclusione poi ci sorgono questi interrogativi: perché le ACLI non hanno giocato sul sicuro e in occasione della festa della donna – nata come è noto da un falso storico –  non si è messo a tema la figura femminile di Maria? Perché in questo clima di inverno demografico non si è deciso di parlare del valore della maternità? Del lavoro di “mamma” o del tema dell’integrazione tra lavoro e famiglia e delle priorità che una donna madre e lavoratrice deve avere? Perchè – esattamente al contrario di quanto scritto – non si è lasciato perdere la vulgata corrente sul tema delle differenze di genere e non si è scelto di mettere in rilievo la ricchezza dell’essere donna secondo il piano di Dio? Forse sarebbe suonato tutto troppo cattolico?

La religione capovolta e l’illuminismo aggiornato – Le locomotive della società pederastica

di Piero Vassallo

Antefatto dell’annosa incubazione libertaria e pan/omosessualista, il regresso dell’ateismo moderno (hegeliano/marxiano) all’antico gnosticismo si attuò a Francoforte, durante gli anni Trenta del XX secolo. L’ambiente nel quale si perfezionò la degenerazione gnostica della filosofia moderna [1], era un esclusivo cenacolo di ebrei eterodossi, i quali, delusi dallo stalinismo e suggestionati da eresie e superstizioni medievali e rinascimentali, capovolsero la teologia veterotestamentaria affermando la malvagità del Dio d’Israele e il fallimento della creazione. Autori della catastrofica riforma anti-teologica furono alcuni giovani eruditi, insoddisfatti e delusi militanti nell’area comunista: Walter Benjamin (1892-1940), Gershom Scholem (1897-1982), Ernst Bloch (1885-1977). Curiosamente l’inversione della dottrina biblica e la feroce calunnia contro il Dio dell’Antico Testamento, bizzarrie dedotte facilisticamente dai saggi dell’erudito Adolf von Harnack sull’eresiarca Marcione Pontico, erano stemmi del cristianesimo tedesco, dottrina di una invasiva setta marciante in riga con il razzismo nazionalsocialista. Gli eretici francofortesi, per giustificare l’imbarazzante/infamante condivisione sostennero che i nazisti si erano impossessati di profonde dottrine ebraiche per usarle contro gli ebrei. Ora la ferrea associazione della sodomia a stati d’animo contagiati dall’eresia marcionita è un fatto evidente a chiunque rammenti le assidue pratiche delle squadre d’azione naziste, le S. A.,  comandate dal massiccio e dispotico omosessuale capitano Ernst Rohm. Chiusa la tragica parentesi nazista, un inquieto studioso, il rabbino eterodosso Jacob Taubes, rilanciò le tesi di Benjamin  sull’empietà della procreazione, atto di obbedienza al comando – andate e moltiplicatevi – impartito dal demiurgo malvagio (il Dio d’Israele). Di conseguenza Taubes suggeriva ai suo discepoli la pia pratica del sesso sterile e/o contro natura, ovvero il capovolgimento della morale ebraica nel furore omofilo in camicia bruna. Le trasgressioni sessantottine hanno, infatti, origine dagli insegnamenti impartiti da Taubes dalla cattedra gnostica di una ricca fondazione americana a Berlino. L’altra faccia della rivoluzione postmoderna è “La dialettica dell’illuminismo”, un saggio di Theodor Adorno e Max Horkheimer inteso a dimostrare la perfetta malvagità della storia, dunque l’urgenza di un ritorno alla vita primitiva, alle sue licenze e ai suoi stordimenti. Robert Spaemann ha dimostrato che lo sfondo delle elucubrazioni francofortesi è la combinazione del mito rousseauiano intorno al buon selvaggio con l’abbassamento nietzschiano della ragione a stato d’animo dionisiaco. Di qui un programma fuor di solco, un delirio che si attua mediante l’esercizio delle passioni pure: la guerra contro la religione e la ragione, il sesso in tutte le direzioni, il vandalismo, la disonesta pigrizia, il culto della bruttezza, l’ascolto di musiche assordanti e demenziali, l’eccitazione drogastica, il disprezzo della normalità borghese, l’odio contro l’etica, la ribellione all’ordine civile. Negli anni Trenta del XX secolo, la metamorfosi dell’ateismo moderno e la sua precipitosa discesa nel sottosuolo gnostico e sodomitico erano fenomeni conosciuti ed esaminati, dagli studiosi cattolici. In seguito la notizia dell’insorgenza neognostica nella ragione moderna circolò nei più vasti ambienti clericali.  Nel 1959, mentre il delirio dei nuovi teologi stava uscendo dal margine in cui lo aveva confinato l’enciclica Humani generis di Pio XII, l’ex dossettiano Gianni Baget-Bozzo pubblicò, in “Studium”, la rivista dei laureati cattolici, un saggio, “Dal razionalismo alla gnosi”, in cui erano puntualmente elencati i segnali della tempesta confusionaria, che l’insorgenza neognostica stava addensando sopra il pensiero moderno. Uditore dei dotti ragionamenti del cardinale Giuseppe Siri sulla riemersione della gnosi ereticale, Baget-Bozzo descrisse l’umiliante metamorfosi delle verità scientifiche fino ad allora portate in trionfo dagli atei filosofanti: “Fallito il grandioso tentativo hegeliano di ridurre alla ragione la natura e la storia, ritorna drammatica l’esperienza della dualità, il pensiero ricorre a una conoscenza metalogica (l’apertura all’essere di Heidegger, l’intuizione bergsoniana) distinta e parallela alla conoscenza scientifica”. Nel nuovo scenario il pensiero laico e democratico capitolava: difendeva la granitica fede nella Scienza sovrana ma ammetteva la conoscenza visionaria del soprarazionale. A Baget Bozzo non fu difficile dimostrare che la svalutazione dell’essere rovesciava l’esausto razionalismo nell’occultismo: “una conoscenza che non può intendere il sensibile che come mito o al massimo come simbolo, non può porsi che come una nuova gnosi. … Il postulato razionalistico, nella forma decadente dell’esistenzialismo offre l’identico supporto che il postulato anti-materiale forniva alla prima gnosi. Oggi come allora, la gnosi nasce dall’incontro delle grandi religioni orientali con il Cristianesimo e dal desiderio, se non di una fusione, di un’omogeneizzazione”. Alla vigilia del Vaticano II la filosofia dei moderni apostati stava affondando nelle sabbie mobili dello gnosticismo a conclamata trazione pederastica. È pertanto lecito chiedere quale infido consigliere comunicò a Giovanni XXIII l’illusoria notizia che gli erranti contemporanei stavano correggendo i loro errori. L’abbaglio, riverberato sul papa buono, infatti, fu causa del gaudio dichiarato nella locuzione inaugurale del Concilio Vaticano II e delle successive, incaute aperture al mondo moderno e ai suoi oscuri momenti. Le farfalle buoniste, volanti nell’aula del Vaticano II, hanno abbassato le difese immunitarie della Chiesa cattolica, indicando le piste percorribili a passo veloce dal delirio teologico e dalla trasgressione a tutto giro. La conseguente ripetizione di scandali penosi e infami – la vergognosa vicenda del Forteto, ultimamente – ha mortificato la Cristianità ostacolando la sua attitudine a contrastare la trionfante moda pederastica. La ferma e intrepida opposizione di Benedetto XVI al matrimonio pederastico e l’epurazione interna interrompono, finalmente, la lunga sequela di distrazioni conclamate, di gaudi infondati, di trionfi immaginati, di silenzi colpevoli e di sordide complicità. Gli strascichi scandalosi rimangono, purtroppo. È innegabile che le turpi insorgenze pedofile nel mondo cattolico sono il risultato della mancata vigilanza e/o della festante complicità di teologi dalla condotta disordinata in tutte le direzioni. L’obbligata sospensione del giudizio ultimo non impedisce la citazione degli illustri protagonisti di trasgressioni parlate o compiute: i cardinali Lercaro e Suenens, e i teologi Rahner, Danielou, Schillebeeckx, e Teilhard de Chardin. Di qui la spaventosa, incontrollata irruzione della pederastia nei circoli cattolici inquinati dal delirio sadocomunista , ad esempio la citata comunità del Forteto. La comunità cattocomunista del Forteto fu costituita nell’agosto del 1977 da trentatre pionieri, che si trasferirono nella campagna intorno a Prato. Il progetto dei trentatre fondatori contemplava l’abolizione della famiglia tradizionale e la conseguente fondazione di una comunità totalizzante. Il capo della comunità era il sedicente profeta Rodolfo Fiesoli, un semi analfabeta che si avvaleva della collaborazione dell’ideologo Luigi Goffredi. Nel giornale on line “Il Covile” si legge al proposito: “Sono già noti gli ampi orizzonti sessuali di entrambi [Fiesoli e Goffredi] e la preferenza del Fiesoli per i giovani acerbi”. L’oscura notorietà del duo Fiesoli/Goffredi non rallenta la pioggia di elogi dotti e di pubblici finanziamenti sul Forteto. Si leva tuttavia un ostacolo imprevisto. Il 30 maggio del 1978, il giudice Carlo Casini fa arrestare il profeta Fiesoli accusandolo di abusi sessuali su minori. Fine di una torbida storia? Interviene il presidente del tribunale, l’illuminato Giampaolo Meucci, il quale sentenzia che il Forteto è una comunità “accogliente e idonea”. Scarcerato, Fiesoli riprende la sua “benemerita” attività sul fronte riformista e sulla gloriosa trincea dell’efebofilia. Nel 1985 un altro intoppo. Il profeta è condannato a due anni di reclusione per maltrattamenti, atti di libidine violenta e corruzione ai danni di una ragazzina a lui affidata. La difficoltà è tuttavia rimossa dal Tribunale dei minori, che in perfetta tranquillità continua a decidere affidi di minori al Forteto. Intanto la prestigiosa casa editrice Il Mulino, inespugnabile castello degli scolastici dossettiani e lercariani, pubblica tre saggi apologetici dedicati all’opera del profeta. Un’attività che emana il soave profumo della guerra alla tradizione civile degli italiani merita l’elogio della scolastica antifascista Nel 2012 – dopo 35 anni di attività sociale sotto l’applaudito vessillo della pederastia cattocomunista – Fiesoli è indagato seriamente e costretto agli arresti domiciliari. Si costituisce il comitato delle vittime del Forteto ed inizia la liquidazione della pia opera. Gli italiani si augurano che il vento della verità cattolica faccia finalmente abbassare le ali impolverate delle farfalle volanti nel cielo oscurato dal buonismo e dai suoi umilianti e osceni esiti.

NOTE

[1] L’esistenza di tracce gnostiche nell’idealismo era stata segnalata da un discepolo di Hegel, Johann Karl Rosenkranz (1805-1878). Di recente tracce di suggestioni gnostiche (marcionite) sono state scoperte da Massimo Borghesi nel carteggio Schelling-Hegel.

L’ideologia gender che piace ai teologi vip

La rivista teologica internazionale “Concilium” ha recentemente dedicato un intero numero al tema “Il genere nella teologia, nella spiritualità, nella prassi”. Il Magistero della Chiesa Cattolica però è molto chiaro sul tema e non lascia spazio a fraintendimenti.

di Roberto Marchesini (25-01-2013)

Il Magistero della Chiesa sull’ideologia di genere è chiaro e definito: «In questo processo che potremmo denominare di graduale destrutturazione culturale e umana dell’istituzione matrimoniale, non deve essere sottovalutata la diffusione di una certa ideologia di “gender”. L’essere uomo o donna non sarebbe determinato fondamentalmente dal sesso, bensì dalla cultura. Tale ideologia attacca le fondamenta della famiglia e delle relazioni interpersonali».  (PONTIFICIO CONSIGLIO PER LA FAMIGLIA, Famiglia, Matrimonio e «unione di fatto», 26 luglio 2000, § 8; cfr. l’Appendice).

Può capitare che il semplice fedele, la vecchietta che macina rosari da mane a sera, non ne sia edotta; e probabilmente non ha nemmeno bisogno che qualche Pontificio Consiglio le spieghi certe cose: le basta il suo sano senso comune. Non potrebbe darsi, invece, che il fiore della teologia cattolica mondiale abbracci in maniera acritica tale teoria. Non potrebbe darsi, ma accade; e, purtroppo, non ne siamo stupiti.

La rivista teologica internazionale Concilium ha recentemente dedicato un intero numero (il numero 4 del 2012) al tema «Il genere nella teologia, nella spiritualità, nella prassi». Concilium non è un bollettino parrocchiale: è stata fondata nel 1965 da teologi del calibro di Karl Rahner, Yves Congar, Edward Schillebeeckx, Hans Küng, ed è pubblicata in sette lingue e undici edizioni nazionali; si presenta come «espressione del pensiero teologico cattolico ed ecumenico, a dimensione internazionale» e si autodefinisce «[…] la rivista teologica più letta e più citata nel mondo».

La presentazione del fascicolo dedicato al genere afferma: «Praticamente tutti coloro che leggeranno questo fascicolo di Concilium troveranno qualcosa di provocatorio e capace di spingere oltre i limiti»: non si può dire che gli autori non abbiano mantenuto le promesse. Si passa infatti dall’outing del personaggio biblico di Rut, che scopriamo essere lesbica (p. 91); a Dio descritto come una drag-queen (p. 32); a vertiginose questioni teologiche («Come può Cristo, un maschio, salvare le donne?», pp. 113-114); alla scoperta (vagamente blasfema, francamente eretica) che Gesù avrebbe potuto salvarci anche morendo scivolando nella vasca da bagno («La violenza non è necessaria per la redenzione; anzi, l’opera redentrice richiede che i credenti si impegnino a resistere alla violenza», p. 117); al rifiuto della legge naturale (p. 70); al revival anni Settanta, con la celebrazione di Leonardo Boff e della Teologia della Liberazione (p. 143).

Ovviamente (tralasciando lo stupefacente «ecofemminismo», p. 77 e ss.), la parte del leone lo fa l’ideologia del genere. 

Gli autori ne ripercorrono la genesi a partire dal femminismo liberale per giungere, attraverso il femminismo radicale, alla dialettica marxista della lotta di classe applicata ai sessi: lo stadio finale sarà la società senza sessi. Viene riconosciuto il ruolo fondamentale, nella diffusione di questa ideologia, alle conferenze del Cairo del 1994 e di Pechino del 1995, organizzate dalle Nazioni Unite; l’Unione Europea ha seguito a ruota.

Viene ricordata la posizione della Chiesa, ma solo per essere criticata e ridicolizzata: «Soprattutto in contesti ecclesiali si registra una notevole resistenza contro le questioni relative al genere. Sono considerate ideologiche e perciò pericolose. E lo sono davvero! […] il fatto di mettere in questione certezze ovvie e verità naturali è un’impresa rischiosa: lo si sa, più che mai, a partire da Giordano Bruno» (p. 25).

Peccato che i novelli Giordano Bruno non riescano, in quasi duecento pagine, a fornire uno straccio di prova convincente che metta in questione «certezze ovvie e verità naturali» del tipo «ci sono gli uomini e ci sono le donne, ognuno con organi sessuali differenti per la procreazione» (p. 26). Ci provano, certo: bisognerebbe buttare a mare più di duemila anni di antropologia filosofica e praticamente tutta la biologia umana perché nelle isole Samoa esistono alcuni uomini che si vestono da donne (pp. 26-27); o perché (argomento scientificamente inoppugnabile!) da Ermes ed Afrodite nacque Ermafrodito dall’identità doppia e non univoca (p. 29); o perché l’atleta sudafricana Caster Semenya avrebbe una malformazione agli organi genitali (p. 29). Oltre a non avere degli assiomi decenti, la teoria del genere non ha nemmeno una conferma sperimentale.

In che modo, dunque, si potrebbe obiettare a una teoria come questa, che se ne frega dei dati di fatto, del metodo scientifico e della logica aristotelica?