Bellissima riflessione di Aldo Maria Valli.
Continua a leggere “Amoris laetitia, le etichette e la verità”
Bellissima riflessione di Aldo Maria Valli.
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Editoriale di Radicati nella fede del novembre 2015
Continua a leggere ““Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto?”: ama la Chiesa!”
Tra i diversi mantra diffusi dai “novatores” degli ultimi 50 anni, v’è anche questo: sentire cum Ecclesia, spesso adoperato per piegare ad una falsa religione le coscienze dei cattolici incerti e pavidi. P. Calmel, teologo domenicano di alto profilo, audace e strenuo difensore della “sacra tradito Ecclesiae”, offre una illuminante messa a punto sull’autentico sentire “cum Ecclesia” che deve animare ogni vero figlio della Chiesa.
26 gennaio 2014
In attesa della vittoria di Cristo Re, i cattolici devono prendere delle decisioni dolorose e rifiutare ogni sorta di collaborazione con la rivoluzione. “Le carenze dell’autorità gerarchica, la potenza straordinaria delle autorità parallele, i sacrilegi nel culto, le eresie nell’insegnamento dottrinale” li obbligano a rispondere un non possumus a tutti gli inviti e a tutte le minacce. Ma – ci si chiede – non perderanno a causa di ciò il loro legame con la Chiesa? rimarranno figli della Chiesa? non rischiano di diminuire in loro il sentire cum Ecclesia che fa la forza del cattolico? Per rassicurarli, il Padre Calmel, in un articolo del gennaio 1975, tratta con lealtà queste questioni delicate che impongono ai cattolici il dovere della resistenza.
Inizia col notare come i sacerdoti, religiosi e religiose che dicono aver preso «le parti di ciò che chiamano l’obbedienza», «in realtà seguono, generalmente senza grande entusiasmo, delle indicazioni ambigue; subiscono, “incassano” le innovazioni». Ciò è molto lontano dall’obbedienza cristiana. Spesso «sono abusati piuttosto che colpevoli». Tuttavia, qualsiasi cosa dicano, «la loro condotta fa il gioco della sovversione. Si sono piegati, in effetti, a delle innovazioni disastrose; delle innovazioni introdotte da nemici nascosti, delle trasformazioni equivoche e polivalenti, che non hanno altro scopo effettivo se non quello di sradicare una tradizione certa e solida, di debilitare e, finalmente, di cambiare pian piano la religione».
Ora i cattolici che ci tengono ai costumi, alla dottrina, alla liturgia, in una parola, alla Chiesa di sempre, questi fedeli che credono che «la Chiesa condanna la rivoluzione e la condannerà sempre, che essa si chiami liberalismo o socialismo», «questi cristiani fedeli li accuseremo forse di disobbedienza?».
Questi cattolici «rifiutano i compromessi; rifiutano d’entrare in complicità con una rivoluzione che è sicuramente modernista. Sociologicamente essi sono tenuti in disparte», sono umiliati, esclusi da ogni responsabilità. Tuttavia, senza amarezza, ci tengono che «la loro fedeltà sia penetrata d’umiltà e di fervore; non hanno gusto né per il settarismo, né per l’ostentazione. Stando al loro posto, essi cercano di mantenere ciò che la Chiesa ha loro trasmesso». In definitiva, questi cristiani fedeli non sono altro che degni figli della loro Madre:
Facendo così non dubitiamo di essere figli della Chiesa. Non formiamo in nessun modo una piccola setta marginale; siamo della sola Chiesa cattolica, apostolica e romana. Prepariamo, facendo del nostro meglio, il giorno benedetto in cui, avendo l’autorità ritrovato se stessa, nella piena luce, la Chiesa sarà finalmente liberata dalle caligini soffocanti della prova attuale. Benché questo giorno tardi a venire, proviamo a non tralasciare niente del dovere essenziale di santificarci; facciamolo custodendo la Tradizione nello stesso spirito in cui l’abbiamo ricevuta: uno spirito di santità.
Il Padre Calmel cita ancora ciò che gli diceva il suo amico Luigi Daménie, fondatore e direttore dell’Ordine Francese, verso la fine del 1969: «Dopo tutto, è la Chiesa che mi ha insegnato a fare come faccio: non patteggiare con ciò che distrugge la fede».
Termina il suo articolo con una visione di speranza, fondata sulla sua fede irremovibile nella santità della Chiesa:
[…] Custodiamo la Tradizione con pazienza. Le forze moderniste occupanti non potranno imbavagliare per tanto tempo le sacre labbra della nostra Madre. Ella ci dirà ad alta voce che non abbiamo niente di meglio da fare che mantenere santamente la Tradizione. Patientia pauperum non peribit in finem (salmo 9). La pazienza dei poveri non sarà indefinitamente ingannata.
Questa fiducia, beninteso, non esclude in alcun modo il combattimento, questa speranza non paralizza le iniziative. È per questo che nel numero seguente della rivista Itinéraires, Padre Calmel chiama i fedeli all’azione. Poiché «Le innovazioni postconciliari» sono «un sistema strategico d’occupazione», conviene fondare e mantenere modestamente dei fortini della fede:
Avendo visto dove siamo, misuriamo quello che resta in nostro potere. Ciò che rimane in nostro potere è prima di tutto l’orazione e la vita nascosta in Dio; ciò che rimane in nostro potere è ancora ciò che la rivista Itinéraires ha tante volte preconizzato: senza scalpore e senza rumore costituire dei fortini di resistenza, di attaccamento pii e viventi alla Tradizione. Questi fortini sembreranno ridicoli; di fronte alla Chiesa apparente e occupante sembrano una difesa troppo debole. Che importa? La grazia di Dio non si misura con quello che appare. È in nostro potere compiere modeste opere di resistenza e di mantenerle. Dunque non dobbiamo esitare, con la grazia di Dio. Io parlo soprattutto della vita interiore, del colloquio che deriva dalla vita di preghiera, dal sacro studio umilmente guidato, dalla carità fraterna, dalla modestia. Possiamo riprendere a questo proposito tutte le raccomandazioni di san Paolo e indirizzarle a queste minuscole comunità nascenti, questi primi fortini di Salonicco o d’Efeso.
Per ricapitolare il pensiero sia teologico sia pratico del P. Calmel, conviene rivisitare le ultime righe da lui scritte sulla rivista Itinéraires […]:
La grazia fa sì che il desiderio della santificazione si mantenga al livello della fermezza della resistenza […] la grazia fa sì che nella resistenza risoluta, che è quella necessaria per rendere testimonianza, la pace interiore, lungi dal venir meno, si accresca. […] occorre nutrire l’orazione con la preghiera della Chiesa secondo i tempi liturgici; la conversazione interiore deve svolgersi alla luce dei misteri della fede conformemente del resto alla pratica del rosario; che la testimonianza sia resa per amore […].
Tratto da: Père Jean-Dominique Fabre, Le père Roger-Thomas Calmel (1914-1975). Un fils de saint Dominique au XX siècle, Clovis 2012, pp. 597-600.
© conciliovaticanosecondo.it
Il nostro lettore Viandante ci invia, lo ringrazio e volentieri pubblico, il seguente testo tratto da: “Breve Apologia della Chiesa di sempre” di R.T. Calmel O.P. (Editrice Ichthys 2007).
Pubblicato da Maria Guarini (26/12/2013)
EPILOGO
La menzogna modernista
È utile smascherare gli stratagemmi dei modernisti, far vedere che questi eretici mentono quando pretendono di non toccare la Chiesa, ma di aiutarla soltanto a rinnovarsi e ad espandersi. In realtà la tradiscono, vogliono farla morire, perché le strappano ipocritamente ciò che è necessario alla sua vita, per sostituirvi ciò che dovrebbe farla morire se non avesse la promessa divina di superare qualsiasi disastro. In effetti alla Chiesa, che è maestra di verità, i modernisti pretendono di imporre un modo di dire e un tipo di magistero che la muterebbero in una pseudo-profetessa diabolica, che impartisce al mondo una dottrina infinitamente fluida in una fraseologia vagamente cristiana. Alla Chiesa, che dispensa la grazia di Dio tramite i sette Sacramenti e che offre al Signore l’unico vero Sacrificio, pretendono di imporre un altro Messale ed un altro rituale che generalizzerebbero la liturgia in una misera impresa di rappresentazioni sedicenti religiose. La tara essenziale dei modernisti è la menzogna: mentono e vorrebbero trasformare la Chiesa nella perfetta istituzione della menzogna universale. A questo scopo si applicano a spogliarla di tutto ciò che la fa vera. Vogliono toglierle tutti i mezzi indispensabili e tradizionali che la fanno essere vera: il potere di giurisdizione e anche il potere d’ordine sono minacciati nella loro efficienza dalla collegialità, la Messa è esposta all’invalidità per l’alterazione dei riti; il dogma scompare per l’abbandono sistematico delle formule irreformabili; la santità infine si dissolve in fantasticherie umanitarie in forza dello pseudo messianismo.
L’agonia della Chiesa
Avendo dunque il modernismo fatto entrare la Chiesa in agonia, ne consegue che non è sufficiente una meditazione, anche se pia ed apologetica, sulla natura della Chiesa per tenersi all’altezza della prova che l’opprime. Bisogna anche, e ciò è molto urgente, vegliare presso il Signore Gesù che è in agonia nella sua Chiesa. “Gesù sarà in agonia fino alla fine del mondo; non bisogna dormire durante questo tempo” (Pascal). Egli sarà in agonia nella sua Chiesa fino alla fine del mondo, innanzi tutto nel senso che continuerà a soffrire nei suoi membri già provati e che, per il Suo amore, si offrono volentieri o almeno non si rifiutano ai tormenti della malattia, alle persecuzioni dei nemici esterni, alle rinunce anche crudelissime, che esige la fedeltà assoluta alla legge della grazia. Tuttavia, in alcuni periodi particolarmente terribili – e noi siamo in uno di questi periodi – Gesù è in agonia nella sua Chiesa in un altro modo, che non fa che aggiungersi al precedente; è in agonia perché la sua Chiesa è ostacolata, beffeggiata, contrariata, combattuta dall’interno nel suo compito essenziale di dispensatrice della Redenzione. Non che essa stia per sparire, perché le porte degli inferi non prevarranno, ma i suoi propri figli, e, tra i suoi figli, alcuni capi della gerarchia, la maltrattano con tanta villania e cattiveria che avanza soltanto ricadendo a ogni passo, sfinita e languente. E similmente, benché la santità permanga zampillante e pura, non è raro che venga travestita e caricaturizzata da contraffazioni vilissime.
Il nostro dovere
Questa è una delle forme che prende l’agonia del Signore nella Sua Chiesa ai giorni nostri. Non bisogna dormire durante questo tempo. Ma come vegliare e tenerGli compagnia? Innanzitutto raddoppiare la preghiera in pace e amore. Poi, costatando che è oramai impossibile partecipare alla vita della Chiesa senza esporsi ad ogni genere di noie, non retrocedere davanti a questa sofferenza, ma sopportarla in unione con la Chiesa, anch’essa sofferente e oppressa. Vogliamo qualche esempio? Dobbiamo a qualsiasi costo perseverare nello studio delle Sacre Scritture, mentre si moltiplicano gli ostacoli per impedire di approfondirle e nutrircene. Non dobbiamo esitare ad affrontare dei disagi per andare saggiamente in aiuto di quei sacerdoti che celebrano la Messa di sempre. Ugualmente non dobbiamo esitare, malgrado l’umiliazione che forse ci attende, ad elevare verso un’autorità ecclesiastica, che spesso ci deride, la nostra rispettosa ma instancabile richiesta per farci restituire la Scrittura, il catechismo e la Messa.
Dobbiamo ancora e soprattutto far la fatica di cercare, in questa Santa Chiesa che i modernisti vogliono de-spiritualizzare, i mezzi che non le mancheranno mai per conservare il primato della preghiera e della contemplazione. Attraverso questi esempi possiamo intravedere ciò che significa vegliare con Gesù che è in agonia nella Chiesa. Non riusciremo del resto a vegliare così se Egli non ce ne renderà capaci per mezzo della sua Chiesa stessa. Ben lungi dal dire che noi soffriamo a causa della Chiesa, diremo piuttosto che soffriamo con la Chiesa, in unione con lei e questo grazie agli aiuti divini che la Chiesa, dal fondo della sua difficoltà, continua a prodigarci.Come sbarrare la strada al modernismo
Restando più che mai uniti alla Chiesa in questa situazione eccezionalmente crudele, noi confessiamo così la nostra fede nella Chiesa. In questi tempi di persecuzione incruenta, questa veglia durante l’agonia è la forma che riveste la nostra confessione di Fede. Consideriamo da più vicino i caratteri particolari che essa presenta. Il modernismo non attacca apertamente, ma subdolamente e dissimulatamente, introducendo ovunque l’equivoco. Perciò confessare la fede di fronte ad autorità moderniste significa rifiutare ogni equivoco sia nei riti che nella dottrina. Significa attenersi alla Tradizione perché essa, sia nelle definizioni dogmatiche che nell’ordinamento rituale è precisa, leale e irreprensibile. Principalmente per i riti della Messa, possiamo ben vedere che non confesseremo pienamente la Fede della Chiesa nella Messa, che non rifiuteremo categoricamente la mortale ambiguità modernista se non conserveremo nella celebrazione stessa il rito tradizionale più che millenario e che non offre nessuna presa all’eresia. Accettare i nuovi riti, pur mettendo nella loro celebrazione una reale pietà, pur predicando rettamente sulla Messa, non è certo una confessione di Fede che non lascia aditi all’eresia modernista né un rifiuto sufficiente dell’eresia nella sua forma attuale. Infatti, se noi accettiamo la nuova celebrazione polivalente, eccoci impegnati, in forza di questo cedimento, sul cammino del rinnegamento in atto. Che cosa possono fare allora le attestazioni verbali o i gesti pii? Non saranno altro che una contraddizione aggiunta all’equivoco. Di fronte a delle autorità che vogliono imporre la menzogna sotto la sua forma peggiore – la forma modernista – e in mezzo ad un popolo cristiano sconcertato da questa impostura senza precedenti, ci rendiamo subito conto che confessare pienamente la fede nella Chiesa custode della vera Messa significa innanzi tutto continuare a celebrare la Messa di sempre. Se è vero che ciò non avviene senza sofferenza, non è meno vero che la Chiesa della quale celebriamo la vera Messa, ci dà, proprio attraverso questo, la forza per sopportare questa pena con coraggio e agevolmente.
Vivere della Tradizione con intelligenza e fervore
Mantenere integri l’insegnamento e i riti non significa immobilità pietrificata o smorta pratica, ma permanenza ordinata e viva. In periodo di rivoluzione, mantenere integro significa non lanciarsi negli adattamenti dell’insieme, per la semplice ragione che l’autorità che presiede l’insieme è inesistente, se non si è resa essa stessa complice del disordine. Bisogna limitarsi agli adattamenti circoscritti alla piccola sfera della nostra autorità reale; in questi limiti, però, in virtù dell’amore fervente e saggio per la Tradizione, non bisogna essere timorosi degli adattamenti che sono richiesti per la vita stessa della Tradizione. Anche in periodo di rivoluzione liturgica, per esempio, la conservazione fedele non solo del latino, ma anche dei formulari anteriori a Paolo VI, non deve impedire l’attenzione che bisogna avere per la diversità delle assemblee cristiane che domandano di partecipare al culto liturgico. In periodo di rivoluzione, mantenere integra la Tradizione non significa non vivere, ma vivere nell’ordine (nell’ordine limitato al nostro piccolo fortino, che si tiene in contatto con altri fortini intorno), perché l’insieme del territorio è sistematicamente abbandonato all’anarchia. Vivere nell’ordine, anche se all’interno di stretti limiti, è l’opposto di sonnecchiare, mugugnare senza far niente, consumarsi di rabbia impotente e di disgusto. Significa fare, nei limiti che ci impone la rivoluzione, il massimo di ciò che possiamo fare per vivere della Tradizione con intelligenza e fervore. Vigilate et orate.
© CHIESA E POST-CONCILIO BLOG
Forse sorprenderanno i nostri lettori sia l’interlocutore sia i contenuti di questa intervista. Mario Palmaro, giurista e bioeticista, appartiene alla galassia dei “cattolici tradizionalisti”. Quanto alle risposte, si farebbe prima a dire quello che condividiamo rispetto a quello che non condividiamo. Ci sembra tuttavia opportuno dare parola a una sensibilità ecclesiale diversa perché l’esercizio del dialogo è pratica esigente prima dentro e poi fuori della Chiesa, perché le parti di verità degli altri non vanno perdute, perché, nel momento in cui i colloqui istituzionali languono, le comunità debbono farsi carico della fede di tutti. Palmaro, assieme ad Alessandro Gnocchi, ha scritto un articolo dal titolo “Questo papa non ci piace”. A noi e al popolo cristiano piace molto. Resta, ed è ciò che conta, la fede comune e la pietas davanti alle prove della vita di cui si parla nell’ultima risposta.
di Lorenzo Prezzi
L’occasione perduta dei lefebvriani
Prof. Palmaro, lei (e il mondo ecclesiale che in qualche maniera interpreta) ha sostenuto giustamente il tentativo di Benedetto XVI di far rientrare nella comunione il movimento “scismatico” lefebvriano. Ma quando, nel luglio del 2012, il capitolo generale si è rifiutato di dare una risposta positiva all’invito della Santa Sede, quale posizione ha preso in merito? Quale giudizio dà ora all’atteggiamento di quel movimento?
Pur non avendone mai fatto parte, qualche anno fa ho avuto la fortuna di conoscere da vicino la Fraternità Sacerdotale San Pio X (FSSPX), fondata da mons. Marcel Lefebvre. Insieme al giornalista Alessandro Gnocchi, abbiamo deciso di andare a vedere con i nostri occhi questo mondo, e di raccontarlo in due libri e in alcuni articoli. Devo dire che molti pregiudizi che avevo dentro di me si sono rivelati infondati: ho incontrato molti buoni sacerdoti, delle suore e dei fratelli dediti ad una seria esperienza di vita cattolica, dotati di un’umanità cordiale e aperta; e sono rimasto colpito molto favorevolmente dalla persona di mons. Bernard Fellay, il vescovo che guida la FSSPX, un uomo buono e di grande fede. Abbiamo scoperto un mondo di laici e di sacerdoti che pregano ogni giorno per il papa, pur collocandosi in una posizione decisamente critica soprattutto sulla liturgia, sulla libertà religiosa, sull’ecumenismo. Abbiamo visto tanti giovani, tante vocazioni religiose, tante famiglie cattoliche “normali” che frequentano la Fraternità. Preti in abito talare che, camminando per le vie di Parigi o di Roma, sono fermati dalla gente che chiede loro conforto e speranza. Conosciamo molto bene il polimorfismo contemporaneo della Chiesa nel mondo, cioè il fatto che oggi dirsi cattolici non significa seguire la stessa dottrina: l’eterodossia è assai diffusa, e ci sono suore, preti, vescovi, teologi che apertamente contestano o negano porzioni di dottrina cattolica. Di conseguenza ci siamo chiesti: ma come è possibile che nella Chiesa ci sia posto per tutti, tranne che per questi nostri fratelli in tutto cattolici, assolutamente fedeli a 20 concili su 21 svolti nella storia del cattolicesimo? Mentre stavamo scrivendo il primo libro, arrivò l’annuncio della revoca della scomunica da parte di Benedetto XVI, una decisione storica. Rimaneva a quel punto la sistemazione canonica della Fraternità. Papa Ratzinger teneva molto a questa riconciliazione, che per ora non si è concretizzata. Ritengo che il pontificato di Benedetto XVI sia stato un’occasione storica per la piena riconciliazione, e che sia stato un vero peccato lasciare che questo treno passasse. Da sempre sostengo che la FSSPX debba fare il possibile per la sua sistemazione canonica, ma aggiungo che Roma deve offrire a mons. Fellay e ai suoi fedeli delle garanzie di rispetto e di libertà, soprattutto per quanto concerne la celebrazione del vetus ordo e la dottrina normalmente insegnata nei seminari della Fraternità, che è la dottrina cattolica di sempre.
Aggressività difensiva
Il pieno sostegno a Benedetto XVI non pare si realizzi ora con papa Francesco. I papi si accettano o si “scelgono”? Cosa rappresenta il papato oggi?
Il fatto che un papa “piaccia” alla gente è del tutto irrilevante nella logica bimillenaria della Chiesa: il papa è il vicario di Cristo in terra, e deve piacere a Nostro Signore. Questo significa che l’esercizio del suo potere non è assoluto, ma è subordinato all’insegnamento di Cristo, che si trova nella Chiesa cattolica, nella sua Tradizione, e che è alimentato dalla vita di Grazia attraverso i sacramenti. Ora, questo significa che il papa stesso è giudicabile e criticabile dal cattolico, a patto che ciò avvenga nella prospettiva dell’amore alla verità, e che si usi come criterio di riferimento la Tradizione, il Magistero. Un papa che contraddicesse in materia di fede e di morale un suo predecessore, dovrebbe senz’altro essere criticato. Dobbiamo diffidare sia della logica mondana per cui il papa si giudica con i criteri democratici del gradimento della maggioranza, sia della tentazione papolatrica secondo cui “il papa ha sempre ragione”. Oltretutto, da decenni siamo abituati a criticare in maniera distruttiva decine di papi del passato, esibendo scarsa serietà storiografica; ebbene, allora non si vede perché i papi regnanti o più recenti dovrebbero essere sottratti a qualunque tipo di critica. Se si giudicano Bonifacio VIII o Pio V, perché allora non giudicare anche Paolo VI o Francesco?
Nel mondo dei siti e delle riviste più legate alla tradizione (recente) si registra spesso una forte esposizione aggressiva. È vero? Da cosa dipende? Come la giudica?
Il problema degli atteggiamenti di alcune persone o realtà legate alla tradizione è serio, e non si può negare. Una verità presentata o proposta senza carità è una verità tradita. Cristo è la nostra via, verità e vita, e dunque dobbiamo prendere sempre esempio da lui, che fu sempre tetragono nella verità e imbattibile nell’amore. Io credo che il mondo della tradizione sia talvolta puntuto e polemico per tre motivi: il primo, una certa sindrome da isolamento, che rende sospettosi e vendicativi, e che si manifesta anche attraverso personalità problematiche; il secondo, lo scandalo sincero che certi orientamenti del cattolicesimo contemporaneo suscitano in chi conosca bene l’insegnamento dottrinale dei papi e della Chiesa fino al Vaticano II; il terzo, per la poca carità che il cattolicesimo ufficiale dimostra verso questi fratelli, che sono apostrofati con disprezzo come “tradizionalisti” o “lefebvriani”, dimenticando che costoro sono comunque più vicini alla Chiesa di quanto possa esserlo l’appartenente a qualsiasi altra confessione cristiana o addirittura a qualche altra religione. La stampa ufficiale cattolica non dedica una riga a questa realtà – fatta da centinaia di sacerdoti e di seminaristi – e poi magari regala paginate a pensatori che nulla hanno anche solo di vagamente cattolico.
Contro il modernismo
Commentando la disposizione vaticana in ordine ai Frati dell’Immacolata, lei ha invocato l’obiezione di coscienza dei religiosi in ordine alle indicazioni sulla liturgia. Come deve essere l’obbedienza dei religiosi alla loro famiglia spirituale? Come collocare l’obiezione di coscienza nella tradizione del Sillabo?
La vicenda dei Francescani dell’Immacolata è a mio parere molto triste. Si tratta di un provvedimento di commissariamento deciso da Roma con inusitata fretta e con altrettanta inspiegabile severità. Siccome conosco bene questa famiglia religiosa, trovo del tutto ingiustificata questa decisione, e ho presentato in Vaticano insieme ad altri tre studiosi una sorta di memoria-ricorso. Ricordo, in sintesi, che il provvedimento “destituisce” il fondatore, e impedisce la celebrazione della messa in rito antico a tutti i sacerdoti della congregazione, in palese contraddizione con quanto stabilito dal motu proprio Summorum Pontificum di Benedetto XVI. Lei dice bene: la resistenza a un ordine dell’autorità legittima pone sempre problemi al cristiano, tanto più se membro di una famiglia religiosa. Tuttavia, qui ci sono alcuni aspetti palesemente inaccettabili, e ritengo che i sacerdoti Francescani dell’Immacolata dovrebbero proseguire a celebrare la messa nella forma straordinaria del vetus ordo, assicurando quel bi-ritualismo (cioè anche la “nuova” messa) che mi risulta essere stato normalmente praticato dai frati. Aggiungo che non è bello constatare come, in una Chiesa scossa da mille problemi e mille ribellioni, una Chiesa nella quale congregazioni gloriose si stanno estinguendo per mancanza di vocazioni, si vadano a colpire i Francescani dell’Immacolata, che invece hanno copiose vocazioni in tutto il mondo.
Quali sono a suo avviso i limiti più evidenti della sensibilità cattolica “conciliare” (o “liberale”, se preferisce)? Quali sono le sue fragilità più vistose?
Il problema fondamentale a mio parere è il rapporto con il mondo, segnato da un atteggiamento di sudditanza e di dipendenza, quasi che la Chiesa si debba adattare ai capricci degli uomini, quando invece sappiamo che è l’uomo a doversi adattare alla volontà di Cristo, re della storia e dell’universo. Quando Pio X attaccò duramente il modernismo, volle respingere questa tentazione mortale per il cattolicesimo: mutare dottrina per assecondare lo spirito del mondo. Poiché l’umanità è preda del processo di dissoluzione avviato con la rivoluzione francese, e proseguito con la modernità e la post-modernità, la Chiesa è oggi più che mai chiamata a resistere allo spirito del mondo. Molte scelte fatte negli ultimi 50 anni dalla Chiesa sono invece il sintomo di un cedimento: la riforma liturgica, che ha costruito una messa per la sensibilità contemporanea, distruggendo un rito in vigore da secoli, orientandolo tutto sulla parola, l’assemblea e la partecipazione, e mortificando la centralità del Sacrificio; l’insistenza sul sacerdozio universale, che ha svalutato il sacerdozio ministeriale, deprimendo generazioni di preti e portando a una crisi senza precedenti delle vocazioni; l’architettura sacra, che ha edificato mostri antiliturgici; l’abolizione de facto dei novissimi, quando il tema della salvezza delle anime (e del pericolo della dannazione eterna) è l’unico argomento soprannaturale che differenzia la Chiesa da un’agenzia filantropica; e così via.
Diventare santi
I credenti si uniscono sull’essenziale e si dividono sui temi discussi. Tutti però sono chiamati al rispetto e all’accompagnamento di quanti sono segnati dal dolore e dalle fatiche della vita. Come cambia la propria sensibilità spirituale quando la sofferenza, come sta capitando a lei, attraversa con violenza i nostri giorni?
La prima cosa che sconvolge della malattia è che essa si abbatte su di noi senza alcun preavviso e in un tempo che noi non decidiamo. Siamo alla mercé degli avvenimenti, e non possiamo che accettarli. La malattia grave obbliga a rendersi conto che siamo davvero mortali; anche se la morte è la cosa più certa del mondo, l’uomo moderno è portato a vivere come se non dovesse morire mai. Con la malattia capisci per la prima volta che il tempo della vita quaggiù è un soffio, avverti tutta l’amarezza di non averne fatto quel capolavoro di santità che Dio aveva desiderato, provi una profonda nostalgia per il bene che avresti potuto fare e per il male che avresti potuto evitare. Guardi il crocifisso e capisci che quello è il cuore della fede: senza il Sacrificio il cattolicesimo non esiste. Allora ringrazi Dio di averti fatto cattolico, un cattolico “piccolo piccolo”, un peccatore, ma che ha nella Chiesa una madre premurosa. Dunque, la malattia è un tempo di grazia, ma spesso i vizi e le miserie che ci hanno accompagnato durante la vita rimangono, o addirittura si acuiscono. È come se l’agonia fosse già iniziata, e si combattesse il destino della mia anima, perché nessuno è sicuro della propria salvezza. D’altra parte, la malattia mi ha fatto anche scoprire una quantità impressionante di persone che mi vogliono bene e che pregano per me, di famiglie che la sera recitano il rosario con i bambini per la mia guarigione, e non ho parole per descrivere la bellezza di questa esperienza, che è un anticipo dell’amore di Dio nell’eternità. Il dolore più grande che provo è l’idea di dover lasciare questo mondo che mi piace così tanto, che è così bello anche se così tragico; dover lasciare tanti amici, i parenti; ma soprattutto di dover lasciare mia moglie e i miei figli che sono ancora in tenera età. Alle volte mi immagino la mia casa, il mio studio vuoto, e la vita che in essa continua anche se io non ci sono più. È una scena che fa male, ma estremamente realistica: mi fa capire che sono, e sono stato, un servo inutile, e che tutti i libri che ho scritto, le conferenze, gli articoli, non sono che paglia. Ma spero nella misericordia del Signore, e nel fatto che altri raccoglieranno parte delle mie aspirazioni e delle mie battaglie, per continuare l’antico duello».
© Rivista dei Dehoniani «Settimana», settimanale di attualità pastorale, 27 ottobre 2013, n. 38.
BREVE COMMENTO SULL’APPROCCIO ETERODOSSO ALLA TRADIZIONE
di Andrea Giacobazzi (18/10/2013)
Spesso per semplicità ci capita di ricorrere all’impiego dell’inflazionatissimo termine “tradizionalismo”: anche noi – per farci capire – dobbiamo usarlo. Ora è probabilmente il momento di chiarire perché…
Cristianesimo Cattolico: SENZA IRONIA: RADIO SPADA È ANTI-TRADIZIONALISTA. ECCO PERCHÉ.
Durante una chiacchierata con i 70 giornalisti a bordo del suo aereo, di ritorno da Rio, il pontefice ha detto: “Tutte le lobbies sono qualcosa di sbagliato, ma se una persona è gay e cerca Dio, chi sono io per giudicarla?”
Una frase assurda, perché sembra dimenticare di essere il papa e di dovere indicazioni ai credenti sui temi di morale oltre che di fede. Anche perché non condanna ma, al solito, omette. Solo la lobby è immorale, ma dell’atto contro natura non si parla? C’è un cambiamento d’accento che non può non avere ripercussioni nel ‘sentire’ comune. Egli sembra anche molto attento a non pronunciarsi su certi temi, come la difesa della vita e le gender theories che si stanno imponendo. Eppure a Rio aveva tre milioni di giovani davanti a sé. E se – come ha dichiarato – voleva mandar loro messaggi positivi, di questi tempi quale messaggio più positivo poteva esserci, potendolo fare proprio davanti a loro, di quello della difesa della vita e della famiglia naturale rispetto alle innaturali unioni omosessuali, le derive conseguenti e le loro ripercussioni sull’intero genere umano, derive già introdotte in molti Paesi e incombenti sul nostro ? Ha dichiarato di voler lasciare le questioni politiche ai vescovi. Ma ad essi appartiene una giurisdizione locale. Quella Urbi et Orbi, universale, appartiene a lui e a lui solo! Inoltre non si tratta di questioni politiche anche se in questo momento esse, più che dibattute vengono imposte proprio nell’agone politico. Si tratta di questioni morali, che discendono da una fede retta che va proclamata e difesa per chi ancora è disposto ad accoglierla. Mentre, espresso da lui, un retto ‘sentire’ al quale non sono trasversalmente estranei molti uomini di buona volontà, non farebbe che incoraggiarne autorevolmente le posizioni, insieme a quelle dei credenti, divenute sempre più coraggiose e irte di difficoltà.
Inoltre sull’increscioso caso Ricca, così come sui gay e le loro lobbies vaticane, il papa glissa o rilascia dichiarazioni ambigue.
Viceversa, per giudicare i cattolici che non gli vanno a genio egli non sembra aver problemi e li qualifica a più riprese: inamidati, da salotto, da museo, musoni che guardano il pavimento, rigidi e superficiali, pelagiani e gnostici, zitelle e peperoncini all’aceto, non sono cristiani, si mascherano da cristiani, alcuni hanno una certa allegria superficiale, gli altri vivono in una continua veglia funebre, ma non sanno cosa sia la gioia cristiana, questi sono schiavi della superficialità, di questa vita diffusa, e questi sono schiavi della rigidità, non sono liberi. Nella loro vita, lo Spirito Santo non trova posto.
Che pensare di alcune di queste espressioni riferite in particolare alla Tradizione, che sembrano nascere da scarsa conoscenza della realtà che essa rappresenta nella e per la Chiesa nonché della spiritualità che la anima, forse giudicandola fin troppo sommariamente soltanto attraverso alcune derive recentemente rappresentategli e sulle quali non ha tardato a pronunciarsi, delle quali abbiamo parlato negli articoli precedenti? E che pensare del fatto che ripetutamente esprime la sua riprovazione attraverso pesanti e anche irriguardosi pregiudizi, che peraltro non riserva ai nemici della Chiesa? E il “sentire cum Ecclesia” significa forse vescovi ballerini e riti sacri trasformati in spettacoli sostituendo al sacro e solenne il sensazional-sentimentale?
di P. Giovanni Cavalcoli, OP (15/05/2013)
Esiste un contrasto fra il Magistero della Chiesa e la pastorale della Chiesa? La risposta è purtroppo sì, e ciò in modo acuto soprattutto in questi ultimi decenni. Quali sono i termini di questo contrasto? Che il Magistero della Chiesa, Papa insieme con il collegio dei vescovi, è infallibilmente assistito dallo Spirito Santo nel proporre la dottrina della fede; ma la pastorale della Chiesa non ha ricevuto da Cristo questa assistenza infallibile. E ciò lo si avverte oggi più che mai, allorché capita che vengano nominati a posti di responsabilità in campo dottrinale: ufficiali della Curia Romana, cardinali, vescovi, superiori di ordini religiosi, docenti nella facoltà pontificie, che non sempre sono all’altezza del loro compito e invece di collaborare col Magistero, gli creano intralci, favorendo a loro volta forze e personaggi ribelli e disobbedienti e maltrattando, abbandonando o ignorando quei pochi che si affaticano a costo di sofferenze ed incomprensioni nella diffusione e difesa della sana dottrina. Si mette la museruola al bue che trebbia e si lascia che il lupo invada l’ovile. La Chiesa docente, ossia la classe dirigenziale della Chiesa, costituita dal corpo episcopale sotto la guida del Papa, dà l’impressione di un’azienda alimentare che ha una produzione di alta qualità, ma che poi abbia più che dei collaboratori, dei sabotatori che distruggono o adulterano quello che produce. Che direbbero i consumatori di una ditta che si comportasse in questo modo? Certo le sarebbero grati per la produzione di buoni cibi e cercherebbero di accaparrarseli il più possibile, ma resterebbero sconcertati e quasi increduli allo spettacolo di collaboratori della dirigenza aziendale che invece di sostenere e divulgare i prodotti nella loro genuinità, si dessero da fare a bloccare le vendite, a distruggere o a sofisticare i cibi, mentre la direzione arrancasse come può per mandare avanti l’azienda. In tal modo gran parte del lavoro deve andare più che per l’espansione dell’azienda, per far fronte agli ostacoli interni. La prima osservazione, di buon senso, che farebbero i consumatori sarebbe la seguente: questa azienda ha dei buoni prodotti, ma è difficile procurarseli, perché certi organizzatori e distributori, invece di farli giungere ai clienti, li distruggono o li avvelenano o ci fanno su loschi affari. Ma la dirigenza aziendale non se ne accorge? E perché assume un personale di tal fatta? Da quali oscuri poteri è condizionata? Come mai usa strumenti pubblicitari e di distribuzione che contrastano con i suoi fini e i suoi prodotti? Possibile che essa non riesca a far qualcosa per eliminare questi gravi inconvenienti? Domande di questo genere, conservate le differenze e le proporzioni, se le fanno molti buoni fedeli, sia tra il popolo che tra i pastori, teologi, studiosi, pubblicisti ed intellettuali cattolici. Certamente il cattolico che vuol sapere qual è il sentiero della verità, lo può trovare: la Scrittura, la Tradizione, il Magistero, la presenza dello Spirito Santo, le risorse della sua coscienza, il Catechismo, l’esempio dei santi. Ma che fatica! Dove sono i buoni teologi? I buoni moralisti? I buoni vescovi? E Roma cosa fa? Perché gli eretici e i tracotanti hanno campo libero e i poveri, pochi ortodossi sono trascurati e bastonati? Perché tanti personaggi indegni in posti di comando? Tuttavia, facciamo ben attenzione. Chi vede errori dottrinali nel Magistero, perde la bussola, sia egli un lefevriano che vuol giudicare il Magistero in nome della Tradizione, sia un modernista filoprotestante che vuol giudicare il Magistero in nome della Bibbia o di Rahner. Chi sceglie questa strada, non conclude nulla, le sue contestazioni non sono più credibili e si espone alle giuste ritorsioni. E’ il Magistero e solo il Magistero che offre il criteri per giudicare i cattivi cardinali, i cattivi vescovi, i cattivi superiori, i cattivi teologi, i cattivi parroci e via discorrendo. Altrimenti si passa dalla parte del torto e si mette a serio rischio la propria anima, non si è più nella Chiesa come non lo sono più coloro che ci vivono col corpo ma non con l’anima. Il fedele non deve scoraggiarsi se si ritrova con pochi altri in mezzo a una massa di dormienti, opportunisti, ambiziosi, ipocriti e conformisti. Deve bastargli la purezza della sua coscienza e l’intima soddisfazione di essere con Cristo e di soffrire con Cristo. Deve gioire se scopre di vivere le beatitudini evangeliche e se viene emarginato, criticato o punito per amore di Cristo. Deve ricordare che i santi e i martiri hanno passato e stanno passando quello che sta passando lui. Le persecuzioni contro i cristiani non stanno avvenendo solo nei paesi musulmani o comunisti, ma anche da parte di fratelli di fede, con i quali magari vivi fianco a fianco tutti i giorni. Si ripete quello che ha passato Cristo: “Venne tra i suoi e i suoi non lo hanno accolto”. Il cattolico fedele al Magistero ha l’impressione di vivere nella sua patria occupata dallo straniero, un po’ come capitò durante la seconda guerra mondiale con l’occupazione tedesca. Sente di trovarsi nella sua casa, la Chiesa, ma avverte anche che ci sono forze estranee alla Chiesa che pure pretendono di guidarla dove vogliono loro e vogliono una Chiesa che non è quella vera. Queste forze lo vorrebbero cacciare, ma egli a buon diritto si domanda: ma perché non se ne vanno loro? Che ci stanno a fare tanti “cattolici” che in realtà sono modernisti, cattocomunisti, filo-massoni, protestanti, epicurei e via discorrendo? Il fedele deve trovare luce, consolazione e conforto nel Magistero. Ma povero Magistero! Il Magistero a sua volta ha bisogno di essere consolato. Invece un vescovo o un cardinale o un famoso teologo non fanno il Magistero, né possono giudicarlo, anche se vendono i loro libri a milioni di copie in tutto il mondo. La disgrazia è quando si diventa fanatici di quel cardinale, di quel vescovo, di quel teologo contro il Papa e il Magistero. Occorre che il Papato riprenda in mano la guida della Chiesa: pasce oves meas, confirma fratres tuos. Questo è il compito imprescindibile del Papa, per il quale gode dell’assistenza infallibile dello Spirito Santo. D’altra parte, l’esser riusciti a creare due Papi è stato il gesto più diabolicamente astuto dei modernisti, mai accaduto nella storia. Una beffa terribile, spaventosa, un’umiliazione tremenda per il Papato, della quale essi ridono sotto i baffi, benché non vogliano troppo farlo vedere per non stravincere. Quanto al gesto di Benedetto XVI di lasciare il suo ufficio, esso può essere stato un gesto di umiltà, ma non so quanta testimonianza abbia dato del fatto che Pietro è la roccia sulla quale Cristo edifica la sua Chiesa. Non so pertanto quanto la coesistenza di due Papi, cosa mai successa nella storia, dia testimonianza dell’unità della guida della Chiesa. Certo Papa Francesco è il Papa legittimo e nessuno lo mette in discussione. Ma Papa Ratzinger non ha più niente da dire? Un teologo delle sue dimensioni, che è stato prefetto della CDF per vent’anni ed appunto è stato Papa? Non gli è rimasta la lucidità mentale? Per dimostrare la sua sottomissione al Papa attuale è proprio necessario che taccia completamente, mentre strillano gli araldi del modernismo dicendo al Papa che cosa deve fare? Che ne è dell’Anno della Fede? Dell’enciclica che Papa Ratzinger intendeva scrivere? Certo la linea di Papa Francesco è molto dialogante, molto simpatica, attira le folle dei giovani con gesti insoliti, ma i gravi problemi che Ratzinger ha tentato invano di risolvere restano. Egli è in un certo senso crollato davanti ad essi. Potrà Papa Francesco ignorarli? Non è ignorandoli che si risolvono. Papa Francesco prima o poi dovrà affrontare il confronto o la sfida che gli viene dalla parte ribelle della Chiesa. Dio gli ha concesso la forza di vincere. Deve farcela. Preghiamo.
di Paolo Pasqualucci (10/05/2013)
1. “Il Papa è tale proprio in quanto vescovo di Roma”? Dopo l’elezione di Sua Santità Francesco, felicemente regnante, si è speculato sul fatto che, nelle sue prime dichiarazioni pubbliche, egli abbia posto in rilievo l’attributo di “vescovo di Roma” del Romano Pontefice. Ciò ha fornito lo spunto per ascrivergli l’intenzione di considerare il munus petrino in modo più “collegiale” rispetto al passato, appunto nello spirito del Vaticano II. Nella sua prima dichiarazione Papa Francesco, ha anche detto che la Chiesa di Roma è “madre di tutte le chiese”, titolo con il quale si indicava in passato la primazìa della Chiesa cattolica, apostolica e romana su tutte le altre. Ma questo richiamo alla Tradizione è passato inosservato. Successivamente, dopo la nomina di otto cardinali non di Curia quali consiglieri nei suoi compiti di governo, si è ulteriormente speculato sull’indirizzo “collegiale” che il Pontefice sembrerebbe voler imprimere al governo della Chiesa. In quest’occasione, la stampa ha riportato alcune dichiarazioni di Sua Eminenza il cardinale Walter Kasper, tra le quali ha colpito la frase seguente: “È importante e significativo che Francesco abbia continuato a definirsi vescovo di Roma: del resto non è una diminuzione né un attributo accidentale, il Papa è tale proprio in quanto vescovo di Roma” (Corriere della Sera, 14.4.2013, p. 17. Corsivo mio).
2. La dottrina tradizionale: CIC 1917 c. 218 e 219. Mi sono chiesto: quando Nostro Signore risorto, di fronte ad altri sei Apostoli, dopo avergli chiesto se lo amava, conferì al Beato Pietro il potere di giurisdizione su tutta la Chiesa, ordinandogli: “Pasci i miei agnelli, pasci le mie pecore” (Gv 21, 15-17), Pietro era forse già “vescovo”? Sappiamo bene di no. Tant’è vero che nei tempi più antichi non era necessario esser vescovi per esser eletti al Sacro Soglio. E nemmeno sacerdoti, se semplici diaconi potevano diventare Papi. E che non ci fosse nessuna preclusione in questo senso, risulta ancora dal Codice di Diritto Canonico (CIC) del 1917, il quale stabilisce che la “potestas” acquisita dal Papa accettando l’elezione “è veramente episcopale [vere episcopalis], ordinaria e immediata sia nei confronti di tutte e singole le chiese che di tutti e singoli pastori e fedeli, indipendente da qualsivoglia autorità umana” (c. 218.2). Come a dire: il neoeletto acquista sì la potestà di giurisdizione del vescovo ma su tutta la Chiesa. L’acquista immediatamente, accettando l’elezione, per il solo fatto dell’accettazione. Ma qualcuno avrebbe potuto chiedersi: trattandosi di una potestà “veramente episcopale” ossia della “potestà di giurisdizione del vescovo”, deve allora il neoeletto esser già vescovo prima di esser scelto come Papa o deve diventarlo subito, non appena eletto, per poterla esercitare? Il CIC del 1917 tace del tutto sul punto. E si capisce perché, andando al successivo c. 219. Che così recita: “Il Romano Pontefice, eletto in modo legittimo, non appena accettata l’elezione, ottiene, di diritto divino, la piena e suprema potestà di giurisdizione [statim ab acceptata electione, obtinet, iure divino, plenam supremae iurisdictionis potestatem]”. Il concetto chiave sembra rappresentato dall’inciso “di diritto divino”. Che significa? La domanda è più che legittima, oggi, visto che quest’inciso è scomparso sia dai testi del Concilio che trattano della collegialità e del Primato, sia dal nuovo CIC, del 1983. Il senso più ovvio sembra essere il seguente: la suprema potestà di giurisdizione su tutta la Chiesa, il neoeletto non l’ottiene per delega di poteri da chi l’ha eletto, come se i vescovi del collegio cardinalizio che lo hanno votato gli delegassero il loro potere di giurisdizione autorizzandolo ad esercitarlo su tutta la Chiesa. Non la ottiene in questo modo perché è Nostro Signore stesso a conferirgliela, così come l’ha inizialmente conferita al Beato Pietro, con il quale il validamente eletto si trova in successione continua e legittima, garantita dalla continuità dottrinale. Al solo Pietro Gesù Cristo risorto volle dare il potere di governo sull’intero gregge, Apostoli compresi. Altrimenti avrebbe detto: “pascete i miei agnelli”. Dalla Scrittura e dalla Tradizione risulta che Egli fece Pietro capo di tutta la Chiesa simpliciter, non del solo “Collegio degli Apostoli” o di tutta la Chiesa in quanto Capo del “Collegio degli Apostoli”. E proprio per questo il Papa è il “Vicario di Cristo” in terra: gode di un potere “vicario” ossia del potere di Cristo di governare il gregge, delegatogli da Cristo stesso. Un potere “vicario” è un potere che si esercita su mandato di un altro, che ne è il vero detentore, e in sua rappresentanza. Il “vicario” è un sostituto. E difatti, Cristo Nostro Signore è il Capo effettivo della Chiesa visibile ed invisibile, cioè del corpo mistico di Cristo, realtà nello stesso tempo terrena e celeste. Colui che ne è il “vicario”, esercitando in sua vece il potere di governo della Chiesa in questo mondo, dovrà aver ricevuto questo potere dal titolare effettivo, non da altri. Per fare un esempio: nella diocesi di Roma il “cardinal vicario” esercita le funzioni di governo del vescovo in rappresentanza del Papa, che è l’effettivo vescovo di Roma: gode quindi di un potere “vicario” conferitogli dal Papa uti singulus non dal collegio dei cardinali o dal “collegio episcopale” tramite la conferenza episcopale.
Il Vicario di Cristo possiede quindi la suprema potestà di giurisdizione esclusivamente per mandato di Cristo, ossia “per diritto divino”. Il fatto che in passato, se il neoeletto non era vescovo, si procedesse a consacrarlo non deve trarre in inganno. Il neoeletto non doveva aspettare quella consacrazione per esercitare la suprema giurisdizione su tutta la Chiesa. Egli era perfettamente legittimato a quell’esercizio, immediatamente dal momento dell’accettazione, con la quale otteneva la piena titolarità del potere di giurisdizione. E difatti, storicamente, non sono mancati esempi di Papi non vescovi al momento dell’elezione che hanno subito esercitato la giurisdizione su tutta la Chiesa, prima della successiva consacrazione all’episcopato.
3. Il vescovo di Roma è tale in quanto è il Papa. Come si spiega allora la dichiarazione del cardinale Kasper? Essa sembra far dipendere l’esser-Papa, se così posso dire, dall’esser-vescovo, come se lo stato episcopale fosse una conditio sine qua non per l’elezione al Pontificato. La frase del cardinale Kasper riflette il CIC del 1983, che a sua volta rispecchia le novità dottrinali emerse nel pastorale Vaticano II. Si tratta della nuova concezione della “collegialità”, che tante critiche ha suscitato e ancora suscita. Essa è stata accusata di aver reso ambiguo e poco chiaro il rapporto tra il Pontificato e l’episcopato. Se l’affermazione del cardinale Kasper è coerente con quanto insegnato dal Vaticano II sul punto, allora non hanno ragione quelli che criticano la nuova collegialità? Come si fa, infatti, a dire che “il Papa è tale proprio in quanto vescovo di Roma”? Sarà caso mai vero il contrario: che il vescovo di Roma è tale proprio in quanto è il Papa. Per restare agli ultimi Pontefici, essi, quando furono eletti, non erano certo già “vescovi di Roma”. Non potevano esserlo, essendo quell’ufficio riservato appunto al Papa regnante. E dopo l’elezione, sono forse rimasti vescovi delle loro sedi originarie o sono diventati “vescovi di Roma”? Sono diventati vescovi di Roma, l’ufficio spettava loro di diritto in quanto Papi. Mi sembra più esatto dire, allora, che il vescovo di Roma è tale proprio in quanto è il Papa, cioè in quanto “Episcopus totius Ecclesiae”, come si diceva una volta. Espressione che non rappresentava un semplice titolo onorifico ma indicava il carattere veramente episcopale della suprema potestà di giurisdizione del Romano Pontefice su tutta la Chiesa.
4. La nuova dottrina: CIC 1983, cc. 330-332. Forse l’affermazione del cardinale Kasper rispecchia solamente una sua personale opinione? Per cercare di capire come stanno le cose, vediamo sinteticamente cosa dice il CIC del 1983, che, come si è ricordato, recepisce la nuova dottrina proposta dalla costituzione Lumen Gentium sulla Chiesa (artt. 18-22), riportandone brani interi. Nella LG si ribadisce il Primato ma nello stesso tempo si presenta il Romano Pontefice soprattutto come Capo del Collegio episcopale, cosa nuova. Nell’art. 22: Il collegio dei vescovi e il suo capo, si trova la famosa frase: “ l’ordine dei vescovi […] è anch’esso insieme col suo capo il romano Pontefice e mai senza questo capo il soggetto di una suprema e piena potestà su tutta la Chiesa, sebbene tale potestà non possa esser esercitata se non col consenso del romano Pontefice” (LG 22.2). Ciò significa, come è stato più volte e con forte preoccupazione rilevato, che i titolari della suprema potestà di giurisdizione su tutta la Chiesa sono ora addirittura d u e : il Papa uti singulus e il Collegio con il Papa (non il Papa con il Collegio). E d u e sono pure gli esercizi di essa: quello indipendente del Papa uti singulus e quello del Collegio, con l’autorizzazione del Papa. Il Collegio è con il Papa quanto alla titolarità della suprema potestà, sotto il Papa quanto al suo esercizio. La ricerca insistita e quasi ossessiva del Vaticano II per l’unità e la comunione universali sembra per ironia della sorte aver partorito inestricabili dualismi: due organi titolari della suprema potestà e due modi di esercitarla, due liturgie della S. Messa.
Applicando, dunque, l’impostazione del Concilio, il CIC non tratta mai del Pontefice da solo, indipendentemente dal Collegio. Come acquista il Pontefice neoeletto la suprema potestà di giurisdizione su tutta la Chiesa? L’argomento è trattato al c. 332.1 CIC 1983. “Il Sommo Pontefice ottiene la potestà piena e suprema sulla Chiesa con l’elezione legittima, da lui accettata, insieme con la consacrazione episcopale [legitima electione ab ipso acceptata una cum episcopali consecratione]. Di conseguenza l’eletto al sommo pontificato che sia già insignito del carattere episcopale ottiene tale potestà dal momento dell’accettazione. Che se l’eletto fosse privo del carattere episcopale, sia immediatamente ordinato vescovo” [Quare, eandem potestatem obtinet a momento acceptationis electus ad summum pontificatum, qui episcopali charactere insignitus est. Quod si charactere episcopali electus careat, statim ordinetur Episcopus”].
5. La “consacrazione episcopale” condizione dell’acquisizione della suprema potestà? L’impressione immediata che questo canone fa sul semplice credente, è la seguente: ottiene la suprema potestà al momento dell’accettazione solo chi è già vescovo; chi ancora non lo è non può ottenerla, se prima non sia stato consacrato vescovo. È ammissibile quest’interpretazione? Vediamo. L’elemento nuovo rispetto al passato sembra rappresentato dal fatto che il neoeletto, con l’accettazione, oltre alla piena e suprema potestà su tutta la Chiesa ottiene anche, contestualmente, “la consacrazione episcopale”. Non si ripete il concetto del CIC 1917, secondo il quale la suprema potestà del Papa è intrinsecamente, di diritto divino, “veramente episcopale”, anche se il neoeletto non è vescovo. Si fa capire, invece, che con l’accettazione il neoeletto ottiene per ciò stesso anche “la consacrazione episcopale”. Ma vien fatto di chiedersi: che bisogno ha il neoeletto di ottenere una contestuale consacrazione episcopale quando diventa addirittura Sommo Pontefice, possedendo per ciò stesso il potere di giurisdizione del vescovo su tutta la Chiesa? E perché il testo non ripropone la dottrina chiara e semplice del CIC del 1917? Il rimanente del c. 332 riesce a far luce sul punto? Se ne ricava che: se il neoeletto era già vescovo, non deve ovviamente esser “ordinato” vescovo e “ottiene tale potestà [su tutta la Chiesa] dal momento dell’accettazione”. Se non era vescovo, cosa succede? L’ottiene ugualmente dal momento dell’accettazione? Il testo non lo dice. Afferma invece: “sia immediatamente ordinato vescovo”. E perché? Non lo si spiega. Perché questo “immediatamente”? Perché tanta fretta? Se non si vuol lasciare il discorso come tronco e sospeso per aria, la conclusione più logica non sembra esser proprio quella sopra avanzata? E cioè che il neoeletto che non sia vescovo deve esser subito consacrato vescovo proprio per ottenere la suprema potestà? Per ottenerla, non semplicemente per esercitarla. Deve esser subito inserito nel Collegio, del quale è il Capo, se deve esser Papa.
6. Il Papa capo della Chiesa in quanto capo del Collegio? L’interpretazione qui avanzata sembra troppo audace? Consideriamo in che modo i due canoni precedenti rappresentano la figura del Papa. Il CIC sta qui definendo “la suprema autorità della Chiesa”, a cominciare da “Il Romano Pontefice e il Collegio dei Vescovi”. Come si è detto, il Pontefice viene sempre strettamente collegato al Collegio. Infatti, il CIC non ne definisce la figura in sé e per sé per poi illustrarne il rapporto gerarchico con i vescovi, a lui sottoposti sul piano della giurisdizione (come faceva il CIC del 1917, p.e. ai cc. 329-331). Al contrario, presenta sin dall’inizio il Papa in stretta connessione o comunione con il “collegio”: degli Apostoli prima, dei Vescovi poi. Recita infatti il c. 330, riportando integralmente l’inizio di LG 22.1:
“Come, per volontà del Signore, san Pietro e gli altri Apostoli costituiscono un unico Collegio, per la medesima ragione il Romano Pontefice, successore di Pietro, ed i Vescovi, successori degli Apostoli, sono tra di loro congiunti [Sicut, statuente Domino, sanctus Petrus et ceteri Apostoli unum Collegium constituunt, pari ratione Romanus Pontifex, successor Petri, et Episcopi, successores Apostolorum, inter se coniunguntur]”. Ricalcando il Vaticano II, mi sembra che si voglia qui stabilire un concetto preliminare e nello stesso tempo fondamentale della nuova dottrina: l’unità del collegio, nella quale sono ricompresi il Papa e i vescovi come in un tutto. Prima di ogni cosa viene il collegio come unità, che si vuol vedere attualmente presente nella Chiesa per analogia con l’unità che sarebbe stata inizialmente presente nel Collegio apostolico. Ma quest’impostazione, mi chiedo, è conforme all’insegnamento tradizionale della Chiesa? Non vi compare alcun rapporto gerarchico tra Pietro e gli Apostoli e quindi tra il Papa e i vescovi. La conclamata unità sembra mettere tutti sullo stesso piano. Il che non sarebbe conforme a quanto risulta dalla Scrittura. E un’unità di questo tipo, che già farebbe del “collegio” un soggetto autonomo con un Capo che sarebbe tale in quanto compreso nell’unità del collegio, viene fatta risalire a Nostro Signore: “Sicut, statuente Domino…”. Ma la volontà del Signore che appare nei Vangeli, confermata sin dall’inizio dalla Tradizione della Chiesa, ha “statuito” davvero in questo senso?
Il Signore voleva sì che gli Apostoli fossero sempre uniti tra di loro come fratelli e in spirito di umiltà e li rimprovera quando, spinti dall’ambizione dei parenti, tentano di stabilire preferenze e gerarchie tra di loro (Mt 20, 20-28). Ma si tratta sempre di un’unione morale, spirituale, fondata sull’insegnamento e l’esempio del divino Maestro e dipendente dalla sua guida, non dell’unione paritaria di un collegio, organo che prevale sull’individualità dei suoi componenti. Inoltre, durante la sua missione terrena Nostro Signore preannuncia il primato di Pietro (Mt 16, 13 ss.; Lc 22, 31-32), e glielo conferisce in modo ufficiale una volta risorto dai morti. E Pietro non la esercitò subito questa sua potestà di giurisdizione su tutta la Chiesa nascente, come risulta da ben noti passi degli Atti degli Apostoli (At 1, 21; 2, 14 ss.; 5, 1-11; 15, 8 ss.)?
Ma il CIC del 1983, stabilita preliminarmente l’unità del “collegio” nel modo visto, nel c. 331 sembra voler riferire l’ufficio del Papa costantemente al “collegio”: “Il Vescovo della Chiesa di Roma [Ecclesiae Romanae Episcopus], in cui permane l’ufficio [munus] concesso dal Signore singolarmente a Pietro, primo degli Apostoli [primo Apostolorum], e che deve essere trasmesso ai suoi successori, è capo del Collegio dei Vescovi, Vicario di Cristo e Pastore qui in terra della Chiesa universale; egli perciò [qui ideo], in forza del suo ufficio, ha potestà ordinaria suprema, piena, immediata e universale sulla Chiesa, potestà che può sempre esercitare liberamente”. Il canone mette insieme due passaggi di LG tratti dai par. 20.3 e 22.2. Unica aggiunta, se non vado errato: l’apposizione del titolo di “vescovo di Roma” all’inizio. Gli elementi essenziali di questa definizione del papato sembrano essere i seguenti: 1. Nel “vescovo di Roma” permane “l’ufficio concesso dal Signore a Pietro, primo degli Apostoli”. Non si usa l’espressione tradizionale “Principe degli Apostoli”, ben più forte. Il testo non dice che il munus petrino permane nel Papa: permane nel “vescovo di Roma”, come se appunto l’esser vescovo di Roma fosse elemento costitutivo del papato. 2. Non si chiarisce quale sia “l’ufficio” che il Signore ha concesso singolarmente a Pietro, “primo degli Apostoli”. Si tratta forse della potestà di giurisdizione su tutta la Chiesa? Così dovrebbe essere, visto che tale potestà è richiamata espressamente alla fine del canone. Tuttavia, 3. il testo si premura di affermare che Pietro è “capo del Collegio dei Vescovi”, prima ancora che “Vicario di Cristo e Pastore qui in terra della Chiesa universale”. È in forza del suo “ufficio”, che vede però al primo posto l’esser “capo del Collegio dei Vescovi”, che il Papa possiede la suprema potestà di giurisdizione. 4. E nell’espressione: “ufficio concesso dal Signore singolarmente a Pietro” dovremmo forse vedere una ripresa del concetto dell’origine “iure divino” della sua potestà di giurisdizione? Ma se così è perché non dire allora, in modo molto più semplice ed accessibile, che “nel vescovo di Roma permane di diritto divino la suprema potestà di giurisdizione su tutta la Chiesa concessa dal Signore singolarmente a Pietro”? O, meglio ancora, che “nel Romano Pontefice permane di diritto divino etc.”? Ma qui i concetti tradizionali del Primato e la nuova dottrina della collegialità non sembrano annodarsi in un vero e proprio groviglio? La suprema potestà del Papa, pur risultando, come da Tradizione, “concessa dal Signore singolarmente a Pietro”, appare nello stesso tempo legittimata dal fatto che l’ufficio di Pietro è visto soprattutto come ufficio del Capo del Collegio dei Vescovi, Collegio che ne sarebbe parimenti titolare cum Petro (come recita il c. 336, riprendendo LG 22.2)! E da tutto ciò si dovrebbe concludere che Nostro Signore ha voluto istituire d u e soggetti quali titolari della suprema potestà, distinti anche se collegati nella figura del Papa?!
7. Si possono ignorare le mutazioni apportate dalla nuova dottrina? Il c. 331 sembra attribuire all’esser “vescovo di Roma” un’importanza essenziale per la definizione della natura del papato: all’esser “Vescovo di Roma” e “Capo del Collegio dei Vescovi”. Elementi del tutto nuovi rispetto alla dottrina insegnata dal CIC del 1917. Nel CIC del 1917 il munus petrino è completamente separato da quello episcopale, che non viene mai nominato in relazione ad esso, se non per ribadire che la potestà acquisita immediatamente dal neoeletto Pontefice è “vere episcopalis”, indipendentemente da ogni sua consacrazione a vescovo, che avveniva in un secondo tempo, per costume e prassi. Nel CIC del 1983, invece, la “consacrazione episcopale” viene collegata alla suprema potestà di giurisdizione conferendo all’accettazione una duplice, simultanea conseguenza: far ottenere la potestà suprema su tutta la Chiesa e la consacrazione episcopale ossia il diritto ad esser consacrato subito vescovo per chi non lo fosse. Consacrato, al fine di poter diventare “vescovo di Roma”, membro e capo del collegio episcopale: ufficio che si vuol ora verosimilmente intendere quale requisito necessario del pontificato e non sua conseguenza dovuta, come in passato.
Se l’ “ermeneutica” qui proposta è corretta, allora possiamo dire che la peculiare affermazione del cardinale Kasper si situa senza contraddizione nel contesto del nuovo Codice di Diritto Canonico oltre che in quello della Lumen Gentium.
Caro fratello nella Fede,
quando la sera del recente 13 marzo, si presentò per la prima volta, sulla loggia della basilica di san Pietro, Jorge Mario Bergoglio, annunciato come “Papa Francesco”, in semplice abito piano e senza le insegne del suo ufficio (oggi si chiamerebbe “servizio”, ma è la stessa cosa), salutando con un borghese “ buona sera ” i milioni di persone che attendevano la sua apparizione, e definendosi come “vescovo di Roma” (lo so che il vescovo di Roma, in quanto successore del principe degli apostoli, è il Sommo Pontefice della Chiesa universale e Vicario di Gesù Cristo, ma oggi questa verità di Fede, o almeno questa conoscenza, non è così pacificamente accettata), sentii come una fitta dolorosa nel mio stomaco.
E dire che l’attesa era stata commovente, come mai.
Avevo partecipato, undicenne, alla prima benedizione del beato Giovanni XXIII; mosso dalla curiosità consapevole dei quindicenni, vidi l’appena eletto servo di Dio Paolo VI, presentarsi come Papa sulla “loggia” più famosa del mondo.
Con più partecipe trepidazione vissi l’elezione di Giovanni Paolo I.
Con gioia ascoltai l’allora diventato desueto “sia lodato Gesù Cristo”, pronunciato dal neo sommo Pontefice Giovanni Paolo II, che con la sua simpatia mandò subito in visibilio la piazza.
Finalmente il 5 aprile del 2005, mi sembrò un vero “miracolo” l’elezione di Benedetto XVI, considerato persino nel mio moderatissimo e conformista ambiente conventuale, “troppo conservatore”.
Eppure mai avevo sentito la folla accorsa in piazza san Pietro all’annuncio della “fumata bianca”, così coinvolta, trepidante, gioiosa, esprimente più la Fede che la pur legittima curiosità, come la sera del 13 marzo c.a.
Anch’io, virtualmente presente attraverso l’alta definizione, che i moderni televisori ormai ci consentono, ero contagiato da tanto spontaneo entusiasmo, mai ricordato nelle altre attese dei Sommi Pontefici neo eletti; e mi consolavo al sentire questa ritrovata entusiastica attenzione e, in qualche caso “devozione”, verso la figura del Papa.
Eppure a Papa Bergoglio bastarono pochi minuti, per istallare dentro di me il timore e l’amarezza di un profondo disincanto.
La realtà superava ancora una volta la fantasia più progressista (“mellonista”, per gli addetti ai lavori) che , da decenni ormai, auspicava un papa di nome Francesco (1) per sovvertire le vetuste istituzioni ecclesiastiche e trasformare finalmente la monarchica e gerarchica “Una e Santa”, in una democrazia a direzione collegiale, nella quale il vescovo romano non avrebbe fatto altro che “presiedere” la Chiesa, non con un potere “ordinario, supremo, pieno e immediato, di magistero, governo e giurisdizione”, ma in una non precisata, anche se di origine patristica, “carità”.
Nella stessa manciata di minuti, “Papa Bergoglio”, aveva distrutto quel poco che Benedetto XVI aveva, in otto anni di governo, umilmente e timidamente costruito a livello di segni e di contenuti …( da ultimo, dopo aver dato mille spiegazioni, “aveva osato” indossare, “persino” l’esclusivo fanone).
E qui chiariamo per l’ennesima volta , e con malcelato nervosismo, che il nostro problema non riguarda tiare, rocchetti, mozzette, scarpe rosse e fanoni (i famosi “pizzi e merletti”, a cui tanta importanza danno i progressisti: perché altrimenti si inviperiscono così rancorosamente quando ne parlano ?); ma , caso mai, ciò che questi, sempre inadeguati segni ,“indicano” e significano, cioè i supremi poteri di Pietro, o altri misteri sacramentali, che esistono comunque, anche se non manifestati con simboli esterni, o addirittura non creduti dal Titolare – o dai titolari – (2).
E, tanto per sottolineare, La nostra battaglia è per la Fede, per la difesa dei suoi ”dogmi”, a cominciare da quello della Trinità Santissima, della Incarnazione, della Redenzione vicaria, dell’unicità della Chiesa visibile e della sua necessità ad appartenevi per essere salvati, del Santo Sacrificio della Messa, della Presenza Reale di Nostro Signore nella santissima Eucaristia, dall’impegno morale che scaturisce coerentemente da queste realtà ecc. ecc. ecc. Tutte verità “sostanziali”, per le quali, ci è stato insegnato (almeno a quelli di noi che sono più vecchi), dobbiamo essere pronti a dare la vita.
Questa è la battaglia dei tradizionisti.
Se poi qualcuno di noi si ferma al dito ( i famosi “pizzi e merletti”? Ma che palla!) che indica la luna (la sostanza) invece di guardare la luna … pazienza!
Gli sciocchi esistono ovunque!
E dunque ritorniamo a bomba.
L’esordio di questo papato (anche se è prematuro ogni giudizio che non sia, come questo mio, epidermico) non è tale da rendere tranquilli noi tradizionisti (ma è un etichetta che uso per comodità, mi piacerebbe, ove fosse possibile utilizzare solo il termine “cattolici”).
Da circa cinquant’anni ci (= mi ) sembra di vivere in una “nazione” (fuori metafora: la Chiesa Cattolica) occupata prepotentemente dal nemico ( = gli ecclesiastici modernisti, che siano o no consapevoli di essere portatori di questo virus).
Ma il Sovrano di questa nazione (il Papa), anche se abbastanza “umiliato” nell’obbedienza e riverenza a lui dovute e nell’abolizione di troppe, sue, venerabili insegne, era riconoscibile come tale.
Alla sua suprema e inappellabile potestà potevamo “immediatamente” rivolgerci, e dalle sue insindacabili leggi e decisioni essere confortati (vedi motu proprio “Summorum Pontificum”).
Adesso “sembra” (ho scritto “sembra”) che anche questa certezza si stia “obnubilando” (3) e che vassalli, valvassini e valvassori possano (ho scritto “possano”) essere chiamati dal Sovrano a compiti non solo di consiglio, ma di governo collegiale.
E sappiamo in quale considerazione la stragrande maggioranza dei cardinali, vescovi e teologi, tengano la Tradizione!
L’applicazione del motu proprio “Summorum Pontificum” docet.
Per non entrare nell’argomento “ribellione” (da parte del potere mediatico , e non mediatico, mondialista) e “silenziosa sedizione”, quando non di apostasia, da parte del potere mediatico e non mediatico clericalista, alle decisioni “restauratrici”, mitissime, e , spesso, appena suggerite (come la riscacralizzazione della liturgia, la centralità della croce nella celebrazione della Messa e la ricezione della comunione in ginocchio e sulla lingua) di Benedetto XVI.
Che fare allora ?
Anzitutto mantenere la calma.
ll Papa è il Papa.
E Francesco è il Papa!
Legittimo duecentosessantaseiesimo successore dell’apostolo Pietro.
Anche quando sbagliasse, “se” (ho scritto “se”), sbagliasse.
E questo con buona pace dei conservatoristi conciliaristi alla Introvigne o alla padre Cavalcoli.
Il Papa ”può” ( ho scritto “può”), quando intenzionalmente non vuole servirsi della sua prerogativa di infallibilità, oppure non insegna dottrine infallibili per magistero ordinario, errare.
E tuttavia, Lui, e lui solo, è sempre in grado di – per dirla con il grande teologo francescano san Bonaventura – “reparare universa”, perfino nel caso che “omnia destructa fuisset” (4).
I veri cattolici hanno lo stomaco forte: hanno digerito Stefano VI (5). Figuriamoci.
Poi, se qualcuno lo ritenesse necessario, nell’incertezza morale e dottrinale che regna nelle file del cattolicesimo, può (ho scritto “può”) a mio fallibilissimo parere, passare alla “resistenza”, a combattere la buona battaglia della fede, nell’”illegalità apparente”, come ogni buon partigiano, rifugiandosi per es. sulle montagne della Svizzera.
Alludo ai così detti “lefebvriani”, i quali , sempre a mio fallibilissimo parere, non sono né eretici, né scismatici, né scomunicati.
Al massimo potrebbero essere rubricati come “disobbedienti” e “non canonicamente riconosciuti”. Ma essi rispondono, con ragioni molto probabili, sempre a mio fallibilissimo parere, che sono solo “apparentemente” disobbedienti.
Certo, per la validità dei sacramenti, la loro giurisdizione è solo presumibilmente “supplita”.
Ma se per la Chiesa è supplita la giurisdizione dei, certamente scismatici ed eretici, cristiani “ortodossi”, dai quali è canonicamente lecito, in determinati casi, ricevere l’assoluzione sacramentale e anche l’eucaristia, non vedo dove, anche in questo delicatissimo caso, stia il problema.
Finalmente: i “resistenti” lefebvriani, guidano senza patente, e quindi “illegalmente”, ma guidano bene; molti di noi (intendo soprattutto sacerdoti) guidano legittimamente con la patente, ma non guidano bene (parlo anche per me).
Chi arriverà con più sicurezza al traguardo ( = salvezza eterna) ?
Ma c’è anche un’altra opzione.
Quella di coloro che, come il sottoscritto, non hanno il “fisico”, o sono impediti da altri inderogabili impegni, o addirittura dalla loro coscienza ( che non sopporta una separazione, o disobbedienza anche soltanto “apparente”, dal Sommo Pontefice), di passare alla “resistenza attiva” sulle montagne.
Costoro possono passare alla ghandiana “resistenza passiva”; secondo le direttive del Lerinense. Continuando cioè a credere nel loro intimo le verità sempre, ovunque e da tutti credute e insegnate dalla Chiesa, e sinteticamente contenute, per es., nei mirabili catechismi di san Pio X, negli atti del Magistero Dogmatico, ordinario e straordinario, nei libri liturgici antichi e negli scritti dei santi.
E, quando sarà loro possibile, trasmettere ed insegnare questa immutabile Dottrina.
Se sono sacerdoti (come il sottoscritto) e non potranno ricorrere al “Summorum Pontificum”, perché obbligati dalla legittima obbedienza a celebrare con il “novus ordo” bugninino-paolino, faranno questo con la retta intenzione di rendere sacramentalmente presente il Sacrificio della Croce, adeguandosi alle rubriche interpretate tradizionalisticamente (eliminando, per es., le facoltative preghiere dei fedeli, gli abbracci di pace, mettendo la croce al centro dell’altare, ecc.). Quest’ultima scelta, anche se non comporterà la stessa persecuzione riservata ai “partigiani”, non sarà agevole.
Coloro che lo faranno, laici e sacerdoti; conosceranno il fiele della solitudine e dell’emarginazione … Ma per amore della Verità che è il Signore Gesù Cristo, la persecuzione, in qualunque forma si manifesti, non è che una forma di beatitudine.
E per finire una “provocazione”.
Se il prossimo Giovedì Santo, Papa Francesco, invece di andare, applauditissimo dal mondo (chissà perché), a lavare i piedi agli ospiti, poniamo, di una comunità di ex tossicodipendenti, si recasse invece a lavarli, ad es., agli ospiti di un istituto sedevacantista (quelli si, che sono “lebbrosi”: per il mondo, per la Chiesa, e per gli stessi tradizionalisti!) con la speranza di farli desistere dalla loro superba cocciutaggine.
Allora sì che applaudirei anch’io, e mi inchinerei , vinto e commosso, a tanta inedita, sublime e vera umiltà-umiliazione.
Pace e bene. Padre … ( Omesso da noi N.d.R. ) o. f. m. cap.
14 aprile 2013.
Note
(1) La figura di San Francesco, grazie alla universale simpatia che suscita ovunque, è la più deformata, distorta e strumentalizzata dal moderno e modernistico clericalismo.
Egli fu, secondo i suoi biografi, “tutto cattolico e apostolico” e “viva immagine di Gesù Crocifisso”. “Restauratore”, perché povero (soprattutto di “potere”) e umilmente sottomesso obbedientemente, alla “Chiesa Romana”. Rifiutò per umiltà il sacerdozio; figuriamoci se avrebbe osato accettare il sommo pontificato, sia pure con le migliori intenzioni riformistico-pauperistiche.
Mai, nome di pontefice, fu più stridente con la suprema carica di Capo della Chiesa , che quello del poverello di Assisi.
(2) Il Papa, dal momento che accetta canonicamente l’elezione, analogamente al semplice sacerdote dopo la sua ordinazione, è Papa, con tutto quello che comporta.
Anche se non volesse (o non potesse, per ragioni di forza maggiore) esercitare i suoi poteri.
Tanto più quindi se non volesse portare le insegne del suo rango. Tutti capiranno che il problema di cui trattiamo, non è questo.
(3) Il vocabolo “obnubilazione” per indicare lo stato di molte verità della Fede nei nostri giorni, l’ho rubato dall’opera di Romano Amerio: “Iota unum” Ed. Lindau 2009, nella quale sostiene e dimostra egregiamente, come la Fede, in virtù della promessa del Suo Divino Fondatore, non verrà mai meno nella Chiesa Cattolica. In soldoni: a nessun Papa o concilio lo Spirito santo permetterà di “dogmatizzare” un errore o “sdogmatizzare” una verità. Non di meno essa può essere, per colpa dei cristiani di ogni grado, “obnubilata”, rendendo più difficile l’accesso alla Salvezza. L’opera dei Vescovi , e soprattutto del Vescovo dei Vescovi, sostenuta dalla virtù dei fedeli, può “ripareggiare” in ogni momento, quello che sembrava nascosto o “obnubilato”.
(4) Citazione presa dal libro di Brunero Gherardini: “Concilio Ecumenico Vaticano II, Un discorso da fare”, Casa Mariana Ed. 2009, pag. 257.
(5) Il nome di Stefano VI (896 – 897) è legato a una delle pagine più nere della bi millenaria storia del papato. La fazione che ne aveva sostenuto l’elezione, ottenne la convocazione di un sinodo per giudicare, da morto, il suo predecessore Papa Formoso.
Il cadavere del quale, riesumato e rivestito dei sacri paramenti, fu posto su un trono per essere sottoposto a giudizio da un sinodo presieduto da Stefano VI . Papa Formoso, condannato come colpevole, fu scomunicato, spogliato delle vesti papali, gli furono tagliate le tre dita della mano destra benedicente, trascinato per strada e gettato nel Tevere. Fu riabilitato e sepolto in San Pietro, dopo il ritrovamento miracoloso del suo corpo, dal successore di Stefano VI, Papa Teodoro II, il pontificato del quale durò appena 20 giorni (dicembre 879), cfr. Battista Mondin, Dizionario Enciclopedico dei Papi, Città Nuova Ed. 1995, pag. 122.
Queste pagine oscure della storia del Pontificato Romano i cui titolari (anche se, va detto, la maggioranza di essi brillò per santità e anche per martirio), si macchiarono anche di delitti e commisero errori, mai però nel loro insegnamento inequivocabilmente “dogmatico” sulla Fede e sulla morale, dovrebbero confortare coloro, che al di là delle difficili contingenze storiche, sanno vedere la Provvidenza alla guida della storia della Chiesa.
Chi può dire che l’insofferente (alla disciplina), e anche, dicono, autoritario, Francesco, sia la mano che il Signore ha preparato per far quella pulizia da molti invocata, nella Sua Chiesa ?
Piedino “francescano”. Autenticamente francescano.
“… Se il Prelato dovesse comandare al suddito qualcosa contro la sua anima, pur non obbedendogli, tuttavia non lo abbandoni. E se per questo dovrà sostenere persecuzione da parte di alcuni, li ami di più per amore di Dio. Infatti chi sostiene la persecuzione piuttosto che volersi separare dai suoi fratelli rimane veramente nella perfetta obbedienza…” (San Francesco d’Assisi, Ammonizioni, Fonti Francescane. 149).