IL MITO DEL “PAPA BUONO”: UN ARTICOLO DI PADRE INNOCENZO COLOSIO O.P.

Ritroviamo fortunosamente un numero di Marzo del 1975 della “Rivista di Ascetica” in cui il domenicano Padre Innocenzo Colosio recensice un fatuo libro dell’ipermodernista Franco Molinari su Giovanni XXIII. Padre Colosio, con coraggio tutto evangelico demolisce il mito del “papa buono”, considerando solo l’aspetto della venerabilità e della canonizzabilità. In un campo di studi critici ancora molto vasto, questo articolo è certamente un piccolo e aurorale “cameo” di franchezza domenicana: si legge con gusto, se ne apprezza la vasta dottrina. (testo raccolto a cura di Piergiorgio Seveso)

Franco Molinari ha recentemente pubblicato un libro dal titolo giornalisticamente troppo sensazionale, e anche, diciamo la verità, un po ingannatore: “I peccati di Papa Giovanni” (Torino, Marietti 1975, pp. 192, L. 2.500).

In realtà dei presunti o reali peccati del Roncalli si parla solo nel capitolo IX, che però tra gli undici del libro è il più lungo. Come nel precedente volume “I Tabù della storia della Chiesa moderna”, Molinari prende lo spunto da opere recenti per ridimensionare santi ed eretici, papi, vescovi e movimenti dottrinali. Francamente il suo metodo storiografico non ci piace molto, diffidenti come siamo per le scoperte ribaltatrici in questo settore. Non è detto che l’ultima opera su Lutero o Calvino o chiunque altro, perché è l’ultima, sia anche la più vera; specialmente, nei periodi, come il nostro, di revisioni storiche dominate dalla moda e da eccessive preoccupazioni pratiche.
La nostra accusa.

Ad ogni modo qui non intendo esaminare criticamente il libro del Molinari, ciò che forse farò in altra sede; ma solo prendere lo spunto per dire, secondo quello che pare a me, quale sia il vero peccato, il peccato più grosso del Papa Giovanni, che sarebbe questo: per far piacere a tutti non manifestò e non difese sempre ufficientemente la verità e la disciplina ecclesiastica. Dei tre autori a mia conoscenza che si sono interessati recentemente a delineare le ombre del sole giovanneo e cioè il già citato Molinari; Raffaello Baldini sulla rivista Panorama del 22-5-1975; e Carlo Falconi nel suo recente libro “I Papi sul divano. L’autoanalisi dei pontefici testimoni di se stessi” (Milano 1975) – nessuno si è azzardato a pronunziare una simile grave accusa. Il compito perciò che mi assumo è nuovo e delicatissimo e lo affronto con grande trepidazione, molto più che mi sembra quasi di compiere un atto di ingratitudine verso una cara persona che aveva per me stima e simpatia (cfr. RONCALLI A., Lettere ai Vescovi di Bergamo, Bergamo 1973, p. 133). Ma, essendo convinto che la verità, o ciò che onestamente crediamo tale, abbia il primato su tutto, a costo di sembrare presuntuoso, irriverente e urtante, voglio esprimere candidamente il mio pensiero. Tanti hanno sfruttato la bontà e la benevolenza di Papa Roncalli quando era vivo; io invece faccio affidamento sulla sua indulgenza ora che è in Paradiso [speriamolo ma non ce n’è alcuna certezza]; e siccome lui amava la storia e sa che essa è impietosa e crudele, mi perdonerà questa requisitoria, nata dalla passione per lo stato caotico attuale della Chiesa, di cui mi pare che in parte sia responsabile anche lui. Un cardinale, dopo la sua morte, disse che ci sarebbero voluti cinquant’anni [o forse un giorno] per riparare i danni del suo pontificato. La frase fu diplomaticamente smentita. Pronunziata o meno, io credo che esprima qualcosa di vero. Naturalmente ciò che segue non implica la responsabilità della direzione della rivista. Si tratta di riflessioni e giudizi personali di chi scrive: giudizi del resto non influenzati dalle recenti pubblicazioni; giacché, seppure in forma privata, furono implicitamente espressi subito quando fu iniziata la campagna per la canonizzazione del « papa buono ». Infatti, sollecitato a firmare la petizione per la medesima, chi scrive si rifiutò di farlo, suscitando così l’ironica disapprovazione dei promotori. Il criterio che mi spinse a tale sgradevole rifiuto fu proprio quello diametralmente opposto alla norma fondamentale dell’agire del nostro grande personaggio, recentemente ricordata dallo stesso Postulatore, su L’Osservatore Romano del 4 Luglio: “Non voleva dispiacere a nessuno, e per non cadere proprio nell’errore volontario di dispiacere ad alcuno preferiva apparire anche troppo semplice”, e debole, aggiungerò io. Ora a questo atteggiamento di fondo, praticato non solo come persona privata ma anche come occupante posti di suprema responsabilità, brutalmente contrappongo la prassi e la norma di S. Paolo: “Si hominibus placerem, Christi servus non essem (GaI 1, 10).” Non si può infatti [esercitare] la bonarietà a tutti i costi. Ma giacchè mi sono assunto l’ingrato compito di fare l’avvocato del diavolo, cercherò di procedere in maniera più… scientifica, ricordando la tesi classica apparentemente paradossale, che, cioè, le virtù in stato perfetto sono necessariamente connesse, cosicchè se ne manca anche una sola, nessuna è perfetta e non si può parlare di santità. Il mio venerato maestro P. Reginaldo Garrigou-Lagrange, sotto la cui direzione ho redatto appunto la tesi di laurea sul, tema della connessione della virtù, insisteva – in una lezione tenuta ai postulatori dei vari ordini – nel dire che nei processi di canonizzazione bisogna esaminare a fondo, per giudicare se nel soggetto le virtù hanno raggiunto il grado di perfezione, la loro vitale coesione, il comune sinergismo di tutte, cosicché se una non è perfetta, nessuna di esse sarà perfetta. Perciò se un uomo è caritatevole al sommo, ma manca di coraggio morale, della virtù della fortezza, o della lungimirante prudenza, costui sarà un buon uomo, un ottimo cristiano ma non certamente un santo nel senso pieno del termine. In detta lezione, tenuta il 12 dicembre 1945 e che io credo tuttora medita, il famoso teologo così sviluppava il suo pensiero. La connessione delle virtù, specialmente di quelle disparate e apparentemente contrastanti, è un ottimo criterio per giudicare del grado eroico delle vere virtù e quindi della santità di una persona. Quando l’intensità di una virtù deriva, non dallo sforzo umano coadiuvato dalla grazia, ma dalla complessione naturale, essendo questa determinata “ad unum “, non si avrà contemporaneamente e in grado eminente la virtù che in un certo senso le è opposta. Chi di natura sua è portato alla fortezza non sarà portato anche per temperamento alla dolcezza, o mitezza, e viceversa. Quindi se riscontriamo dette virtù “disparate” in una medesima anima, dovremo ammettere in essa uno speciale intervento di Dio e della sua grazia; poiché Dio solo nella sua assoluta semplicità possiede le perfezioni « disparate »: possiede, per es., in modo eccellentissimo e in una misteriosa unità, l’infinita giustizia insieme con l’infinita misericordia; e perciò può unirle nell’anima del giusto. Se invece le virtù disparate, come dolcezza e fortezza, non si presentano fuse e unite, ma isolate, allora non abbiamo il trionfo della grazia e la vera santità, bensì il trionfo della natura, ossia di una sola virtù, senza il contrappeso di quella apparentemente opposta. Non è qui il caso di fare una sottile e lunga disquisizione per dimostrare come una virtù non possa essere veramente perfetta se non è accompagnata da tutte le altre parimenti perfette; rimando senz’altro il lettore alla questione 65 della 1-11 della Somma di S.Tommaso; del quale trattato voglio però citare un luminoso testo che fa proprio al caso nostro:

« Naturalis inclinatio ad bonum virtutis est quaedam inchoatio virtutis: non autem est virtus perfecta. Huismodi enim inclinatio quanto est fortior tanto potest esse periculosior, nisi recta rado adiungatur, per quam fiat recta electio eorum quae conveniunt ad debitum finem, sicut equus currens, si sit caecus, tanto fortius im-pingit et laeditur, quam fortius currit » (I-lI, q. 38, a. 4 ad 3)”.

La tanto decantata bontà naturale o bonarietà del Roncalli fu sempre sorretta, accompagnata e corretta da tutte le altre virtù, specialmente dalla vera prudenza e dalla vera fortezza? Questo è il vero problema teologico di fondo per giudicare della santità di papa Giovanni. Egli, volendo a tutti i costi essere benevolo, simpatico, gradito, non ha forse instaurato un metodo di governo che ha snervato la disciplina ecclesiastica, per cui, insieme a molte altre cause, ci troviamo ora immersi in un immane caos ideologico, morale, liturgico, sociale? Per me la risposta è positiva, e quindi l’accusa è gravissima: a me quindi l’onere della prova. Non si tratta qui di rivelare enormi o segrete carenze nella conduzione della Chiesa da parte sua, ma semplicemente di elencare alcuni fatti sintomatici, che esprimono uno stile di governo, il quale partendo da così alta sede fatalmente a circoli concentrici si diffuse poi in tutto l’orbe cattolico. Ecco alcuni di questi episodi emblematici, significativi di uno stile, di un metodo, di un sistema, sui quali non so se hanno sufficientemente riflettuto i suoi panegiristi ad oltranza. Cominciamo con un episodio assai modesto in se stesso, ma molto espressivo della personalità del protagonista. Il 12 Febbraio 1962 fu emanata la nota Costituzione Apostolica “Veterum sapientia” che nelle sue norme contiene una legge severa: ai professori di teologia che pian piano non si adattano ad insegnare in lingua latina sia tolta la cattedra. Un vescovo tedesco, abituato da buon teutonico a prendere le cose sempre molto sul serio, turbato, angosciato, si proietta a Roma ed espone a papa Giovanni il suo grave problema: “Io devo chiudere la mia scuola di teologia perché i miei professori non possono e non intendono sottomettersi alla “Veterum sapientia”. Il papa lo congeda con un ampio sorriso, accompagnato da benevoli parole: “Ma non si preoccupi tanto; tiri via, lasci pure insegnare la teologia in tedesco”. Chi mi ha raccontato il fatto ora è morto: ma era persona degna di fede e molto
ben informata sulle cose romane. L’episodio potrà sembrare di poco conto, ma secondo me è rivelatore di una mentalità, di un modo di agire poco coerente e fermo. Il seguente episodio è invece di dominio comune ed è molto più grave come indice di debolezza nel governo della Chiesa. L’episcopato olandese molto tempestivamente volle preparare il suo popolo al Concilio con una lettera cumulativa, tradotta presto in varie lingue, tra cui la francese e l’italiana. In essa vi era già adombrato, del resto abbastanza chiaramente, il principio che la validità delle decisioni del futuro concilio sarebbe stata condizionata dalla loro recezione o meno da parte dei fedeli. A Roma subito si fiutò il sottointeso ma deciso democraticismo che traspariva da quelle posizioni, e per ordine superiore la lettera fu ritirata dal commercio. Alfrink, primate d’Olanda, corse subito da Giovanni XXIII, per mostrargli quale disdoro gettava sull’episcopato di una intera nazione un simile provvedimento disciplinare. Il papa Giovanni, per non dispiacere agli Olandesi, lo annullò, iniziando così quella serie di cedimenti, che poi in futuro culminarono, sotto il suo successore, nella non-condanna del famigerato Catechismo Olandese. Ovviamente, data la norma fondamentale della vita privata e pubblica del papa di non dare mai dispiaceri a nessuno, egli era radicalmente allergico alle condanne, specialmente alle condanne solenni e formali.
In questo non fu certamente fedele agli insegnamenti del suo maestro, Mons. Radini-Tedeschi, vescovo di Bergamo il quale in una delle sue prime pastorali così formulava il suo compito fondamentale:
” Il vescovo deve con costanza e coraggio anatematizzare ogni errore, impugnando i tanti scismi che oggi più che mai si diffondono mediante una licenza che dicono a torto [libertà].
[Deve] affrontare impavido e mansueto, forte e soave, con la severità della censura e con la carità del padre, l’ira dei contraddittori e degli empi e sostenere l’impeto del demonio» (citato dal Molinari, op. cit., p. 160). Una pagina “agiografica compromettente”. Non sembri un’inutile divagazione il fermarsi a lumeggiare un po’ ampiamente con le parole stesse del Roncalli nella sua biografia di Mons. Radini Tedeschi (ed. III, Roma, 1963) lo stile santamente energico di questo prelato, in cui il futuro Papa ritrae dal vivo l’immagine del buon pastore. Le seguenti numerose citazioni elogiative ci permetteranno di precisare un esame di coscienza per il biografo (Le sottolineature sono mie): « La nota personale della sua natura era una rettitudine superiore ad ogni discussione e ad ogni elogio, un amore assoluto del bene. Di là la sua intrepidezza, il suo ardore nella lotta, la sua attrazione, così potrebbe dirsi, verso il pericolo, e la sua potente attività. Talora si notavano nella sua parola, in pubblico e in privato, nei suoi scritti, una cotal veemenza di linguaggio) alcune espressioni forti e sdegnose. Ma non mai che egli eccedesse la misura, o che tutto ciò fosse effetto di vanità, di rancore o d’altro. Il suo santo sdegno attingeva le sue ispirazioni dall’alto, sgorgava da emozioni vere e da un sentimento puro di zelo per la giustizia, per il bene, per il regno di Dio.
Queste doti naturali dell’uomo, la grazia del Signore le aveva elevate e rese più venerabili e feconde nel prete e nel vescovo (p. 106). Governo forte e vigoroso anzitutto: vero riflesso del suo carattere e della sua indole personale. « Che un vescovo sia saggio – così cominciava il suo discorso l’illustre ed eminentissimo
Cardinal Pie – è il meno che si possa domandare: è una necesità che egli sia nel numero dei dotti. Ma né la saggezza, né la scienza gli bastano, se ciascuna di queste qualità non ha il suo complemento nella fortezza. Sono necessarie al vescovo tutte le virtù del cristiano, tutte le virtù del prete. Ma se voi mi chiedete quale di queste sia la virtù propria del nostro stato, il segno distintivo della nostra professione, la risposta sarà facile.
L’ordine è un sacramento uno e molteplice, che conferisce sino dagli inizi a coloro che ne partecipano, una certa misura di fortezza, una certa energia di resistenza… L’episcopato che è la pienezza suprema dell’ordine, è l’apogeo della forza spirituale… È del vescovo che devesi dire che egli non è abbastanza saggio se non è egualmente forte; né è convenientemente dotto, se non è nello stesso tempo vigoroso e risoluto: Vir sapiens, fortis est: et vir doctus, robustus et validus (Prov. XXIV, 5) (p. 107). In questa dottrina sta tutto lo spirito di governo di Mons. Radini. Quando fu pubblicato il nuovo breviario, secondo le recenti riforme del S.P. Pio X, l’occhio suo corse subito alla invocazione che la Chiesa mette sulle labbra dei sacerdoti per il loro vescovo; rilEvando in essa con una certa compiacenza il suggello liturgico di ciò che era prima norma della sua condotta – Oremus et pro antistite nostro – Stet et pascat in fortitudine tua, Domine, in sublimitate nominis tui (p. 107).
Di un suo lontano antecessore si racconta, che non sapesse mai dir di no ad alcuno: di un altro invece che dicesse sempre di no a tutti: e di un terzo che non sapesse mai cosa rispondere, incerto sempre fra il sì e il no. Sulle labbra di Mons. Radini c’era il sì e il no, a seconda dei casi, sempre pensato, sempre sincero e deciso: né il sì era espressione di debolezza, né il no di ostinazione capricciosa o di partito preso contro alcuno. Egli era d’avviso che il più delle volte contribuisce assai meglio al buon ordine generale e al principio il mantenersi ferme nelle disposizioni date a suo tempo, purché buone e giudiziose, che non il mutarle con facilità, preferendo ad esse disposizioni migliori, ma giunte troppo tardi.
Questo modo di procedere gli era abituale nelle singole questioni riguardanti particolarmente uomini e cose, nei vari ordinamenti e nelle riforme, come nelle opere grandi o modeste da lui compiute.
C’era nell’anima sua, nella sua natura, alcunché dello spirito militare: un amore e un trasporto alla lotta per il bene, per la Chiesa, per il Papa, per i diritti del popolo cristiano.
Non gli piaceva la guerra a colpi di spillo: quando la si dovesse fare, la preferiva a colpi di cannone: e il suo gusto erano le battaglie da cavaliere perfetto, cioè a cielo aperto e in piena campagna. Ciò appariva evidente dal tono di parecchi suoi discorsi, dalle lettere, dagli scritti brevi o voluminosi pubblicati per la difesa dei sacri diritti della coscienza cattolica.
Ma in rapporfo al buon governo della sua Chiesa, questo spirito militare era facile scorgerlo in quel suo vedere e cercare in tutto e rigidamente la disciplina, anche nella più piccola cosa, nel fornire egli per primo nobile e forte esempio, nell’esigerla in ciascuno dei suoi subordinati ad ogni costo, nell’affrontare con serenità critiche,
noie e contrasti, perché ogni cosa fosse compiuta piacesse o no, in conformità alle disposizioni tassative della Chiesa, nelle cerimonie, nei sacramenti, nelle varie esplicazioni della vita ecclesiastica, in tutto. Pareva talora che avrebbe potuto lasciar correre su taluni abusi di poco rilievo, consacrati dalla tradizione che si prende facilmente dagli amanti del quieto vivere come argomento autorevole a giustificare tante cose. Ma egli non era un uomo da prestarvisi. Pieno di rispetto per le tradizioni locali che avesse trovato buone, poco gli importava spezzare quelle che erano contrarie a precise disposizioni ecclesiastiche, “poiché – ripeteva spesso- se v’era una diocesi ove tutte le cose possono e debbono essere fatte in perfetta regola, ed in esempio alle altre diocesi, questa è Bergamo”. E procedeva innanzi al compimento del suo dovere. Sapeva che in tutte le cose l’eccesso deve essere evitato: sapeva anche, nella sua delicatezza, tener conto dei dovuti riguardi a persone e ad istituzioni. Ma era insieme convinto che in un governo il vigore del comando trae con sé mali minori che non la debolezza. Per suo conto aveva un sacro orrore per la popolarità ottenuta a prezzo di
debolezze e di fiacche compiacenze. ” I poteri deboli ripeteva spesso non tardano a cadere in disistima, nell’abbandono e nel disprezzo: i forti invece si impongòno al rispetto; e sul rispetto fioriscono a suo tempo l’ammirazione e l’amore » (pp. 109-110).
L’ammirazione si accoppiò all’amore: poiché non vi è nulla di così tcccante come la bontà disposata alla forza. E Mons. Radini, questo uomo così robusto e così energico, era buono, molto buono. A lui si poteva ben applicare in tutta la sua ampiezza il motto scritturale: De forti egressa est dulcedo (p. 111).Certo in materia di principi e di idee egli fu e sempre rimase un intransigente, come lo sanno essere tutte le anime di superiore levattira per cui valgono e contano qualche cosa i principii nella vita. Ma la sua era di quelle intransigente che si fanno ammirare per la loro nobile schiettezza, e che, procurando onore alle grandi cause sostenute, riescono spesso a disarmare le opposizioni, non di quelle che le inaspriscono e le aggravano. Per la purezza di una idea avrebbe sacrificata la vita; e di fronte ad atti, anche di piccola importanza, che compromettessero sia pure leggermente il principio, egli era irremovibile; né sarebbe stato facile coglierlo in fallo, pronto com’era a vedere subito la distinzione netta fra le idee e le cose (p. 112). Eppure nell’ordine dei rapporti personali, e salvi i principii, pochi uomini di Chiesa
seppero essere di fatto così discreti e concilianti come lui (p. 113).

Non sembri un fuor d’opera questa lunga citazione; giacché essa ci fa toccare con mano come il giovane Roncalli, alla scuola del suo Vescovo, avesse idee chiarissime sul dovere infrangibile di unire la dolcezza alla fortezza, dando a quest’ultima il primato in caso di necessità. Credo però che nessun onesto panegirista potrebbe applicare a lui ciò che egli scrisse del Radini-Tedeschi.
Altri atti di debolezza. Ecco un esempio della sua debolezza. Fin da quando era nunzio a Parigi non fece misteri circa la sua cordiale disapprovazione delle dottrine radicalmente evoluzioniste del famoso gesuita Teilliard de Chardin. Ma, eletto papa e sollecitato da più parti a mettere all’indice le sue opere, altra abbondante fonte dell’odierna dilagante confusione dottrinale – se ne schermì (limitandosi ad approvare il Monito del 5. Uffizio del 30 Giugno 1962, grave nel contenuto ma praticamente inefficace) con la storica frase: Io sono nato per benedire e non per condannare!
Ma Gesù, San Paolo, S. Giovanni Evangelista, Molti grandi e santi Papi non si limitarono a benedire – compito troppo facile e simpatico – ma esercitarono anche il doveroso e gravoso ufficio di condannare e anatematizzare! “La frusta non si addiceva alla mano del Roncalli”, dice Molinari a p. 149 ma pure anche Gesù usò le funi.. E così si è giunti a celebrare un importante Concilio Ecumenico, che per la prima volta nella stOria della Chiesa non ha osato condannare apertamente il più grande errore del momento. E si trattava del comunismo ateo. Certo la storia, i secoli futuri non perdoneranno mai al Vaticano II di non aver stigmatizzato nella maniera più perentoria e plastica il comunismo ateo, il marxismo, che costituisce il più poderoso nemico del cristianesimo nel secolo XX. , Perfino il termine non figura mai nel testo vero e proprio del Concilio! (Chi vuole conoscere le manovre per cui contro la volontà di molti vescovi si è giunti a non nominare neppure il comunismo ateo negli Atti legga R. ‘WILTGEN, Le Rhin se jette dans le Tibre – Le Concil inconnu, Parigi 1973, pp. 269-274). Si dirà: Ma quando veniva votata la “Gaudium et Spes”, Giovanni era già morto. Verissimo; ma fu lui che nel Discorso programmatico di apertura annunziò con la massima solennità e chiarezza dì voler usare la medicina della misericordia piuttosto che quella della severità, evitando condanne, con lo specioso pretesto che è meglio esporre la verità che condannare l’errore, molto più che si tratterebbe di errori già condannati; ignorando così le leggi della psicologia umana secondo le quali una rinnovata condanna formale con relative sanzioni pratiche è ben più efficace di una luminosa disquisizione teorica. Papa Giovanni e il Vaticano lI ormai hanno fatto scuola, cosicché oggi la gerarchia a tutti i livelli non ha più il santo coraggio di buttare fuori dalla Chiesa chi apertamente nega i dogmi più sacrosanti. Il caso Kung insegni.
La olandese Cornelia De Vogel, convertitasi al cattolicesimo nel 1943, nel suo libro “Lettere ai cattolici di Olanda”, a tutti (tradotto anche in italiano, Japadre Ed., L’Aquila 1974), a p. 12 racconta di essersi rivolta aI Card. Alfrink, perché pubblicamente redarguisse i cattolici negatori di dogmi. Eccone la quanto mai emblematica risposta: “Devo condannare? Non serve. Sono già stati tutti condannati da tempo. E poi condannare non si usa più; è una cosa antiquata”. All’inizio di questo non-uso, introdotto per la prima volta nella storia della Chiesa, c’è l’atteggiamento di Giovanni XXIII. Sotto il suo regime sì è cominciato a considerare il problema della condanna guardando, non più al bene còmune e al significato del libro nella sua ovvia e oggettiva letteralità, ma alla personalità e alle intenzioni dell’autore, i cui « sacrosanti » diritti individuall, secondo la nuova etica ecclesiale, vanno anteposti a quelli della massa dei fedeli… Ma torniamo più direttamente a Papa Giovanni. Poco prima che fosse divulgata l’ Enciclica “Pacem in Terris” [detta “Falcem in terris”] su L’Osservatore Romano uscirono i famosi “Punti fermi”, in cui veniva stigmatizzata qualsiasi collaborazione con movimenti ideologicamente fondati su dottrine erronee, per l’ovvia ragione profilattica che simile collaborazione per una specie di fatale osmosi implica a lungo andare anche l’assorbimento delle dottrine che ne stanno alla base. Ma questa classica e inderogabile norma, fatta sempre valere dai papi precedenti e specialmente da Pio XII , riaffermata anche sotto gli occhi di Giovanni XXIII, doveva essere radicalmente smentita dalla sua Enciclica al n. 55, di cui ecco le precise liberalizzanti affermazioni: “Va altresì tenuto presente che non si possono neppure identificare false dottrine filosofiche sulla natura, l’origine e il destino dell’universo e dell’uomo, con movimenti storici a flnalità economiche, sociali, culturali, e politiche, anche se questi movimenti sono stati originati da quelle dottrine e da esse hanno tratto e traggono tuttora ispirazione. Giacché le dottrine una volta elaborate e definite, rimangono sempre le stesse; mentre i movimenti suddetti agendo sulle situazioni storiche incessantemente evolventesi, non possono non subirne gli influssi e quindi non possono non andare soggetti a mutamenti anche profondi. Inoltre chi può negare che in quei movimenti, nella misura in cui sono conformi alla retta ragione e si fanno interpreti delle giuste aspirazioni della persona umana, vi siano elementi positivi e meritevoli di approvazione? Pertanto può verificarsi che un avvicinamento o un incontro di ordine pratico, ieri ritenuto non opportuno o non fecondo, oggi invece sia o lo possa divenire domani”. È vero che nell’immediato contesto vengono poi precisate le condizioni per simili avvicinamenti, condizioni in parte contraddittorie, ma soprattutto ciecamente utopistiche, come la storia della collusione tra movimenti cattolici e movimenti marxisti di questi ultimi dieci anni ha dimostrato ad usura, e ancor più lo si vedrà in seguito. Il testo citato è fondamentale per la svolta giovannea e rappresenta una vera rivoluzione nella prassi della Chiesa, le cui gravissime e deleterie conseguenze peseranno sul futuro della civiltà e del mondo. Abbiamo qui le basi ideologiche per il “compromesso storico”, non solo per l’italia ma per tutto il mondo. Non mi sembra perciò esatto ciò che scrive Giovanni Spadolini nel suo interessante libro “Il Tevere più largo: Da porta Pia ad oggi” (Milano 1970, Longanesi Ed.), quando a p. 264 afferma che nella “Pacern in Terris” non si trova nulla di nuovo, nulla di diverso rispetto ai punti fermi dei precedenti Pontificati.
Il n.55 rappresenta invece una radicale inversione di marcia, legalizzando una collaborazione dei cattolici con movimenti nati da ideologie anticristiane, fino allora decisamente proibita per la elementare constatazione che chi va con lo zoppo impara a zoppicare, come di fatto si verifica quotidianamente. Non c’è bisogno di essere specialisti in marxismo per avvertire e notare quante sottili infiltrazioni di quella ideologia siano penetrate ormai nel pensiero
e nell’agire di vari gruppuscoli sedicenti cattolici.
Per far piacere a chi, furono approvati i “Punti Fermi”? E per far piacere a chi, fu sottoscritto il rivoluzionario n. 55 della “Pacem in terris”? Prendendo come norma di governo il non far dispiacere a nessuno, fatalmente si cade in contraddizioni teoriche e in confusioni pratiche. Verso i comunisti e… i superiori.
Ed ora un piccolo episodio personale sulla tanto discussa udienza al giornalista Adjubei, genero di Kruscev, concessa probabilmente per fargli piacere oltre ad altre eventuali e più determinanti ragioni; ma comunque da chiunque era prevedibile che sarebbe stata strumentalizzata in favore del comunismo. Una mattina del mese di maggio del 1963 mi trovavo prestissimo alla banchina del porto di Civitavecchia in attesa della nave , che dalla Sardegna portava a Roma i Piccoli Rosarianti per l’udienza pontificia, organizzata dall’indimenticabile P. Enrico Rossetti. Conversando con alcuni scaricatori del porto, naturalmente comunisti, sentii elogiare da loro con entusiasmo il Papa, per avere ricevuto Adjubei, interpretando il gesto come atto simbolico di taciti approvazione deI movimento comunista. Tutte le mie osservazioni per confutare una simile interpretaziorie non approdarono a nulla. Essi, probabilmente insufflati da qualche loro caporione, replicarono: “Il papa, non potendo esplicitamente approvare il comunismo, ha trovato questo elegante stratagemma per farcelo capire. Lui e noi ce la ntendiamo perfettamente! Il papa è con noi”. Che complessivamente il comportamento di Papa Roncalli abbia indebolito le remore all’avanzata comunista in Italia egli stesso se ne rese conto, se è vero che la sera della proclamazione del risultato delle elezioni del 1963 scoppiò in pianto esclamando: « Questo io non lo volevo, io non lo volevo! ». Ma la politica del “far piacere” può portare a queste e a ben altre luttuose conseguenze. Il “far piacere”, o evitare di dispiacere a qualcuno può essere fonte anche di occultamento della verità, o per lo meno occasione di mancanza di coraggio nell’esprimerla. Ecco un piccolo caso personale. Nel luglio del 1950 fui invitato a pranzo a Parigi dal Nunzio Roncalli, il quale per ben tre ore consecutive mi affascinò con una amabilissima e interessantissima conversazione che mi entusiasmò moltissimo; entusiasmo poi in parte sbollito quando seppi che più o meno le medesime cose le raccontava a tutti. In tali circostanze il Nunzio ebbe dure parole di rimprovero per i Domenicani francesi che con una loro pubblicazione avevano acerbamente criticato il latino artefatto, libresco, bastardo, né classico né cristiano, con cui l’Istituto Biblico aveva tradotto il Salterio per ordine di Pio XII. Non dovevano farlo per non recare dispiacere al Papa che teneva tanto a quella versione…. Io debolmente mi permisi di dire che avevano fatto benissimo; giacché in questioni filologiche il piacere o dispiacere del papa non c’entra. Ma anche il Nunzio in fondo la pensava come i Domenicani; tanto è vero che fatto Papa dette ordine di riprendere il vecchio Salterio, correggendolo solo nei passi meno felici e meno corrispondenti al testo ebraico. A tale proposito ecco la testimonianza esplicita di Mons. Marcel Lefebvre, nel suo libro Un vescovo parla (Rusconi, Ed. Milano 1974, p. 170): “Giovanni XXIII… non amava il nuovo Salterio. Lo disse apertamente alla Commissione Centrale prima del Concilio. Lo disse a noi presenti: ” Oh, io non sono favàrevole a questo nuovo Salterio”. Ma se fosse stato meno diplomatico, avrebbe dovuto dirlo prima a Pio XII stesso.
Da molti indizi mi pare che la sua obbedienza ai superiori sia stata troppo remissiva. Così, certo, non contrastandoli, forse anche quando sarebbe stato suo dovere farlo, godeva di quella famosa “pax” interiore ed esteriore che confina in parte col quietovivere.
A parte il fatto che all’epoca della sua formazione e dei suoi impieghi, il difetto di coraggio morale era una piaga della Chiesa , come esagerando faceva osservare il [pessimo] Fogazzaro in il Santo (c. 5, p. 243, Milano 1906), vi sono incarichi che acuiscono la tendenza alla sottomissione eccessiva. Ciascuno è figlio dei suo mestiere. Ogni mestiere implica fatalmente una deformazione prbfcssionale, tanto più grave quanto il soggetto sia più malleabile.
Durante quasi tutta la sua vita il futuro Papa Roncalli fu subalterno: segretario, delegato, nunzio. Molinari pcco diplornaticamente scrive addirittura: “È noto infatti che il giovane segretario pensava col cervello del suo vescovo” (p. 167).
Nella sua vita aveva troppo ubbidito per poi da vecchio imparare a comandare; giacché non è del tutto vero che sa comandare chi ha saputo ubbidire: si tratta infatti di due azioni psicologicamente e moralmente strutturate in modo opposto. Del resto in una lettera del 10 Marzo 1938 aI prof. Donizetti da Istambul il futuro Papa così scriveva: “In questi quattro anni io posso dire di gustare i buoni frutti di un sistema che corrisponde al mio temperamento, cioè della sostituzione del motto “Flectar non frangar” al motto “Frangar non fiectar”. (Cfr. D. CUGINI, Papa Giovanni nei suoi primi giorni a Sotto il Monte, Bergamo 1965, 11 ed., p. 72).
Ironia dello storia: un uomo che durante la sua lunghissima vita era stato sempre anche troppo sottomesso è diventato, in parte suo malgrado, il padre della contestazione. Altra fama usurpata è quella di geniale innovatore: in realtà per indole e formazione era un tenace conservatore, e in un certo senso persino un restauratore: si
vedano gli Atti del Sinodo Romano! E anche i primitivi schemi del Vaticano II da lui studiati e approvati. Nella sostanza essi erano più volti a riassumere con stile e sensibilità moderni le idee tradizionali, che non a formularne di radicalmente nuove. Del resto le novità non esplosero per merito o demerito dei Vescovi, ma dei periti, che sono stati i veri artefici del Vaticano II.
Questi, ben preparati e ben coalizzati, hanno saputo manovrare così bene che degli schemi primitivi (quelli che potremmo chiamare giovannei) c’è rimasto poco o nulla (Per i particolari rinviamo al già citato libro di Ralph WILTGEN, Le Rhin se jette dans le Tibre. Le Concil inconnu, ed. du Cedre, 1974 traduzione dall’ed. americana).
Come il lettore si sarà accorto, il nostro capo di accusa non verte su certi minuscoli difetti che aveva Giovanni XXIII, come del resto si riscontrano anche nei santi; ma su uno stile di vita e di governo troppo teso a “far piacere” ad attirare la simpatia e la benevolenza universale. Troppi atteggiamenti del papa buono non sono quelli di un buon papa. Si dirà: sono sbagli tecnici, che non infirmano la santità soggettiva. Rispondiamo che la vera bontà di un governante deve essere sempre regolata dalla prudenza “regnativa”, la quale a sua volta deve essere sorretta dalla virtù della fortezza, data la necessaria concatenazione di tutte le virtù. Del resto il futuro papa era cosciente di questo lato debole della sua natura; infatti come fa osservare Molinari, dal Giornale dell’anima risulta che il Roncalli si riprometteva di “non indulgere troppo al suo temperamento pacifico e bonaccione” (p. 139); ma, come non riuscì mai a correggersi dal difetto della eccessiva loquacità, così non fu capace di armarsi della fortezza d’animo per governare la Chiesa e non lasciarsi governare, trasmettendo al suo successore una difficile eredità. Benché al papa si dia il titolo di santissimo, è difficile essere santi in quello stato, essendo così gravi, complessi e quasi contraddittori I suoi doveri, Non per nulla Giovanni XXIII, non credeva affatto alla santità di Pio XII, come mi riferiva un autorevolissirno membro della soppressa Congregazione del S. Uffizio.
Il quale mi aggiungeva che quando Giovanni scendeva nelle Grotte Vaticane a far visita alla tomba del suo predecessore, diceva ostentatamente il De Profundis, per far capire alla gente che non lo considerava canonizzabile e così frenare l’incipiente movimento che già si profilava. Il papa stesso gli spiegò il significato della sua preghiera per il defunto. Ciò che per altri incluso il Postulatore della causa del Roncalli è squisita virtù, per chi scrive è… un vizio, se eretto a sistema normale di governo, un grave e pericoloso vizio! Mi si potrebbé obbiettare che “il Papa buono” non sempre si è lasciato governare dal desiderio di far piacere (ci vorrebbe altro!) e si potrebbero riferire alcuni gesti energici di riprovazione elencati a p. 164 dal Molinari. Ma, a parte il fatto che alcuni di essi sono stati esagerati, come per es., il “caso Spiazzi”, si trattò di momentanei sussulti del suo viscerale “tradizionalismo”[esteriore e superficiale] e della sua spicciola adesione al programma curiale “quieta non movere”; per cui, per es., tanto si impressionò per il libro quanto mai innocente del P. Riccardo Lombardi, scritto in preparazione al Concilio. Se avesse potuto prevedere, ed inparte avrebbe dovuto prevedere, lo svolgimento e le conseguenze del Vaticano Il (ma in fatto di previsioni papa Roncalli, benché definito da tutti “profeta”, fu piuttosto lacunoso, come ben dimostra
CARLO FALCONI, nel suo curioso libro già citato “I papi sul divano”.
L’autoanalisi dei pontefici testimoni di sé stessi), penso che mai lo avrebbe convocato. Per testimonianza del suo confessore e mio amico, Mons. Cavagna, so che il Papa negli ultimi tempi della sua vita era addoloratissimo per come si mettevano le cose in campo ecclesiale e politico. [FORSE IL PENTIMENTO CHE LO SALVO?!] Sarebbe stata necessaria minor bonomia e maggiore fermezza. Scrivendo così mi viene in mente la lunga e feroce critica che fa [il sifilitico] Nietzsche dell’ “uomo buono” (meglio avrebbe detto del “buon uomo”) nei suoi Frammenti postumi. “Esso è Indulgente, tollerante, pieno di pace e di gentilezza, capisce tutto, compassiona tutti, è amabile per non dover essere nemico, per non dover prendere partito, pratica la bontà, finissima astuzia con cui offre e quindi riceve
considerazione dappertutto. È la vera pecora di Cristo”. Per il filosofo tedesco questo tipo di uomo è quanto mai nocivo.”La mia proposizione: gli uomini buoni sono i tipi “umani più nocivi”. Mi si Risponde: ma ci sono solo pochi uomini buoni! Dio sia ringraziato! Si dirà anche: non ci sono uomini completamente buoni. Tanto meglio! Ma sempre io sosterrò che nella misura in cui è buono, un uomo è anche nocivo” (F. NIETZSCHE, Opere, VoL. VIII, Tomo III, p. 275, pp. 370-376, Milano, 1974, Adelphi Ed.). Sono proprio i tipi buoni e arrendevoli, che messi in alto loco diventano pericolosi, perché facilmente manovrabili da chi è più forte e più furbo di loro. Non è però questa la precisa prospettiva di Nietzsche quando afferma che i buoni sono nocivi. Per capire le sue affermazioni paradossali bisogna inquadrarle nella filosofia del superuomo e della volontà di potenza. Ovviamente noi non le sottoscriviamo, se non nel senso ridotto del detto popolare: Il medico pietoso, cioè “buono”, fa incancrenire la piaga. E giacché siamo in “vena” di citazioni e per Meglio spiegarci, ecco come Ernest Hello descrive il medico “buono” (il quale naturùlmente è tutt’altro che un buon medico) : “Che cosa si direbbe di un medico che per un senso di carità, usasse dei riguardi alla malattia del suo cliente? Immaginate questo personaggio così riguardoso. Direbbe al malato: “Dopo tutto, amico mio, bisogna essere caritatevoli. il cancro che vi rode è forse in buona fede. Guardiamo un po’: siate gentile, cercate di far con lui una piccola amicizia; non bisogna essere intrattabili; assecondatelo nel suo carattere.
in questo cancro c’è forse un animaletto che si nutrisce della vostra carne e del vostro sangue: avrete il coraggio di rifiutargli ciò che gli occorre? Morirebbe di fame, poverino! D’altronde son tratto a pensare che il cancro sia in buona fede e credo di adempiere presso di voi ad una missione di carità” (ERNESTO HELLO, L’uomo, Firenze 1928, p. 70). Hello stesso nel contesto allude alla pericolosità dei compromessi nel campo dell’insegnamento. Infatti poco prima aveva scritto: ” Chi transige coll’errore -non conosce l’amore nella sua pienezza e nella sua forza sovrana. La pace apparente comprata e pagata dalla compiacenza è contraria tanto alla carità che alla giustizia perché scava un abisso là dove c’era un fossato.
La carità vuol sempre la luce e la luce non sopporta neppure l’ombra di un compromesso”. Vi è nella medesima opera del brillante scrittore francese una stupenda pagina in cui descrive quale tipo di santo il mondo vorrebbe; e di Santi l’autore di “Physionomies de saints” se ne intende. Detta pagina getta un fascio di luce sull’universale simpatia suscitata dal papa Roncalli anche presso i mondani; anche se, ben inteso, la sua figura morale non coincide se non in proporzione assai ridotta con il tipo descritto da Hello:
“Essayez de vous figurer un saint qui n’aurait pas la haine du p&hé! L’idée seule de ce saint est ridicule. Et cependant c’est ainsi que le monde se figure le chrétien qu’il faudrait canoniser. Le saint véritable a la charité; mais c’est une charité terrible qui brùie et qui dévore, une charité qui déteste le mal, parce qu’elle veut la
guérison. Le saint que le monde se figure aurait une charité doucereuse, qui bénirait n’importe qui et n’impone quoi, en n’importe quelle circonstance. Le saint que le monde se figure sourirait à l’erreur, sourirait au péché, sourirait à tous, sourirait à tout. Il serait sans indignation, sans profondeur, sans bauteur, sans regard sur les abimes. Il serait bénin, bénévole, doucereux pour le malade, indulgent pour la maladie. Si vous voulez étre ce saint-là, le monde vous aimera, et il dira que vous faites aimer le christianisme.
Le monde, qui a l’instinct de l’ennemi, ne demande jamais qu’on abandonne la chose à laquelle on tient: il demande seulement qu’on pactise avec la chose contraire. Et alors il déclare que vous lui faites aimer la Religion, c’est-à-dire que Vous lui devenez agréable, en cessant d’étre un reproche pour lui. Il affirme alors que vous ressemblez à Jésus-Christ, qui pardonnait aux pécheurs. Parmi les confusions que lè monde (?) chérit, en voici une qu’il chérit beaucoup: il confond le pardon et l’approbation. Parce que Jésus Christ a pardonné à beaucoup de pécheurs, le monde veut en
conclure que Jésus-Christ ne détestait pas beaucoup le péché”.
(E. HELLO, L’bomme, lib. lI, « Les Alliances spirituelles, Montreal, pp, 197 ssg)

Giunto al termine di queste amare constatazioni e severe considerazioni (dettate dalla Sofferenza per lo sfacelo che devasta la Chiesa nel campo della fede, dei costumi, della disciplina per la spaventosa crisi delle vocazioni; per le numerose defezioni di preti e religiosi; per l’avanzare del comunismo ateo: tutti malanni derivanti in parte almeno – dalla mancanza di fermezza e di lungimiranza del governo pontificale di Giovanni XXIII) immagino facilmente quale ondata di indignazione susciteranno negli ammiratori senza riserve del papa Roncalli. A mia parziale discolpa dirò che, mentre il defunto pontefice “per far piacere a tutti” non sempre diceva brutalmente la verità, o meglio ciò che pensava; chi scrive invece, per temperamento e per convinzione, crede opportuno manifestare crudamente il suo Pensiero anche a costo cli dispiacere a molti, pronto però a ricredersi, se gli verrà dimostrato che sbaglia; giacché nessuno è infallibile, specialmente in campo storico, molto più se si tratta di avvenimenti troppo vicini.

PADRE INNOCENZO COLOSIO O.P.

© EDIZIONI RADIO SPADA

Giovanni XXIII: un Papa “imprudente” che “tradì il suo Concilio”. Intervista al prof. Roberto de Mattei

di Maurizio Crippa (26 aprile 2014)

In una sua recente intervista al mensile Catholic Family News Lei ha sostenuto che in materia di canonizzazioni la Chiesa non è infallibile e che dunque quella di Roncalli è legittimamente criticabile, perché il pontificato di Giovanni XXIII ha rappresentato un “oggettivo danno alla chiesa”. Ci riassume in poche parole la questione dell’infallibilità?

La canonizzazione di un Papa implica la sua santità non solo nella vita privata, ma anche nella vita pubblica, ovvero l’esercizio eroico delle virtù nel munus che gli è proprio, quello di Sommo Pontefice. Come autore di un storia del Concilio Vaticano II, ho studiato il breve pontificato di Giovanni XXIII, dal 28 ottobre 1958 alla sua morte, il 3 giugno 1963, e sono convinto che egli non abbia esercitato le virtù cristiane in modo eroico, a cominciare dalla virtù della prudenza. Questo pone naturalmente un problema, dal momento che si parla di infallibilità delle canonizzazioni. Alcuni tradizionalisti pretendono di risolvere la questione in maniera semplicistica: dal momento che Giovanni XXIII non fu un buon Papa e viene canonizzato, vuol dire che chi oggi lo canonizza non è un vero Papa. Io sono lontano da questa posizione. L’infallibilità delle canonizzazioni è una tesi maggioritaria tra i teologi, ma non è un dogma di fede, e può essere legittimamente tenuta l’opinione contraria. E’ invece dogma di fede che non può esservi contraddizione tra la fede e la ragione. Un’analisi oggettivamente razionale dei fatti dimostra la mancanza di eroicità di virtù di Papa Roncalli. Se, per fideismo, dovessi negare ciò che impone la ragione, reciderei i fondamenti razionali della mia fede. Mantengo dunque, in coscienza, i miei dubbi e le mie perplessità sulla canonizzazione di Giovanni XXIII.

Padre Lombardi nella sua conferenza stampa del 22 aprile ha dichiarato che negare l’infallibilità delle canonizzazioni significa ritenere che i Papi canonizzati siano all’inferno.

Credo che si trattasse di una battuta da parte di padre Lombardi. E’ evidente infatti che non essere elevato alla gloria degli altari non significa andare all’inferno, Dovremmo credere altrimenti che ben pochi tra i Papi e ancor meno tra i fedeli si salvino! Solo Dio conosce la sorte ultraterrena delle anime. Ciò su cui io avanzo dei dubbi non è la salvezza eterna di Giovanni XXIII, ma l’eroicità delle sue virtù nel governare la Chiesa. Aggiungo che negare l’infallibilità delle canonizzazioni non significa affermare che esse siano in generale false od errate. Io ritengo al contrario che la Chiesa non sbagli quando proclama i santi e i beati, ma che vi possono essere casi concreti eccezionali, che non contraddicono la regola. E oggi viviamo in un momento eccezionale della storia della Chiesa.

L’oggettivo “danno alla chiesa” provocato da Papa Angelo Roncalli di cui ha parlato nell’intervista citata al Catholic Family News è secondo Lei unicamente riassumibile nella convocazione del Vaticano II con quel che ne è conseguito per la Chiesa universale, o c’è dell’altro? Sul Corriere della Sera di qualche giorno fa il filosofo statunitense Michael Novak, non proprio un cattolico progressista, ad esempio ha tracciato un profilo lusinghiero della santità personale di Roncalli, sottolineando che “la forza spirituale di Papa Giovanni fu una costante della sua vita e fu avvertita dai Padri Conciliari anche durante la Seconda sessione del Concilio, successiva alla sua scomparsa”. E il suo lavoro precedente come diplomatico del Vaticano è generalmente apprezzato dagli storici. Oppure anche la “Pacem in terris”, l’enciclica del 1963 che affronta temi per così dire non dottrinali, ma di natura storico-politca, in un momento cruciale di snodo geopolitico, al punto di svolta della Guerra Fredda, va annoverata tra i “danni oggettivi” del pontificato?

Lasciamo stare la “santità personale” di Roncalli, su cui mi permetto nutrire forti dubbi e partiamo dal Concilio Vaticano II. L’indizione di una assemblea di tale vasta portata era una decisione che non poteva essere presa affrettatamente, ma che presupponeva profonde riflessioni e ampia consultazione. Così era accaduto quando Pio IX aveva deciso di convocare il Concilio Vaticano I e quando Pio XI e Pio XII avevano esaminato la possibilità di riprenderne i lavori, per poi entrambi accantonare l’ipotesi. Così invece non fu per Giovanni XXIII, che annunciò inaspettatamente la convocazione del Concilio, solo tre mesi dopo la sua elezione, senza averne parlato con nessuno. Egli era convinto poi che il Concilio avrebbe risolto in pochi mesi alcune questioni puramente pastorali. “A Natale possiamo concludere!” disse al cardinale Felici, alla vigilia dell’apertura. Ciò dimostra, come minimo, una mancanza di lungimiranza. Il Concilio Vaticano II si rivelò poi, al di là delle intenzioni del Pontefice, una oggettiva catastrofe in molti campi. Mi limiterò a citarne uno: la mancata condanna del comunismo. Un Concilio che voleva essere pastorale tacque sul problema più drammatico della sua epoca: l’imperialismo sovietico che minacciava il mondo. Mentre Mosca installava i suoi missili a Cuba e veniva innalzato il muro di Berlino nel cuore d’Europa, Giovanni XXIII nell’estate del 1962, attraverso il cardinale Tisserant, stipulava un accordo con il patriarcato di Mosca, impegnandosi a non parlare del comunismo in Concilio. L’ultima enciclica di Giovanni XXIII, la Pacem in Terris del 9 aprile 1963, aprì la porta ad una collaborazione tra cattolici e comunisti. Essa giungeva all’indomani dell’udienza personale concessa dal Papa ad Alexej Adjubei, direttore dell’“Izvestia”, ma soprattutto genero di Krusciov e suo privato ambasciatore. Questo incontro non portò ad alcuna conclusione sostanziale, ma ebbe uno straordinario impatto mediatico. In Italia, le elezioni del 28 aprile 1963 videro una forte avanzata del Partito comunista e un altrettanto significativo regresso della Democrazia cristiana. Per i comunisti, Papa Giovanni era il “Papa buono” e il Vaticano II era identificato con il “Concilio della pace”. Non mi sembra che neppure in questo caso Giovanni XXIII abbia eroicamente esercitato la virtù della prudenza e, nel caso delle canonizzazioni, le virtù eroiche devono essere tutte, non possono essere scelte selettivamente.

Vi sono altri elementi che possano a suo parere inficiare la santità di Papa Roncalli?

Nel suo pontificato Giovanni XXIII non dimostrò grande spirito soprannaturale. Ricordo due episodi. Il primo è il suo rifiuto di far conoscere al mondo il Terzo segreto di Fatima, malgrado le richieste della Madonna a suor Lucia. Giovanni XXIII ne prese conoscenza nell’estate del 1959, ma preferì non divulgarlo. Papa Roncalli giudicò di rinviare la diffusione del testo perché c’era un contrasto stridente tra il Messaggio apocalittico di Fatima e l’ottimismo con cui egli si apprestava ad inaugurare il Concilio Vaticano II. Il secondo episodio è l’incomprensione per la figura spirituale di padre Pio da Pietrelcina, poi beatificato e canonizzato da Giovanni Paolo II. Padre Pio subì nel corso della sua vita numerose incomprensioni e calunnie, per le quali dovette subire umilianti ispezioni canoniche. Tra di esse vi fu quella promossa da Giovanni XXIII, che dal 13 luglio al 2 ottobre 1960 inviò, come visitatore apostolico a San Giovanni Rotondo, mons. Carlo Maccari, allora Segretario del Vicariato di Roma. Quel periodo sarà ricordato come quello di più dura persecuzione nei confronti del santo di Pietrelcina. Giovanni XXIII non comprese mai la santità di padre Pio.

Il cardinale Siri ne ricorda una battuta quando fu eletto: “Io di questioni dottrinali non mi occuperò, perché ha già fatto tutto Pio XII”. Secondo lei non ha tenuto fede all’impegno? Nel caso, che cosa ha “modificato” di essenziale nella dottrina cattolica?

Questa battuta mi ricorda quella di Papa Francesco, secondo cui non avrebbe mai compreso l’espressione “valori non negoziabili”. Sono frasi pericolose perché sembrano accreditare il primato della prassi sulla dottrina. Giovanni XXIII non modificò la dottrina cattolica, ma la prassi pastorale. Ma la modificazione della prassi comporta inevitabilmente un’alterazione della dottrina. Ne è una riprova il rapporto del cardinale Kasper all’ultimo Concistoro straordinario. La tesi di Kasper è che poiché, in tema di divorziati risposati, esiste un abisso tra la dottrina della Chiesa e la pratica morale dei cattolici, occorre adeguare la dottrina al comportamento oggi diffuso. Questo principio dell’adattamento della prassi è in nuce nel discorso Gaudet mater Ecclesiae, con cui l’11 ottobre 1962 Giovanni XXIII inaugurò il Concilio Vaticano II.

Un aspetto sempre taciuto di Roncalli è ad esempio che, non proprio progressista, credeva fermamente nella centralità del latino e nella liturgia forgiata sul canto gregoriano. La sua Costituzione apostolica “Veterum sapientia” del 1962 su questi temi dovrebbe piacerle. Poi cos’è successo? E se, al contrario di quanto ripetono i “bolognesi” (grosso modo: il Concilio di Roncalli “tradito” in senso anti progressista da Montini), fosse stato il contrario? Il Concilio “pacelliano” tradito in seguito dai progressisti?

Giovanni XXIII, senza essere un conservatore aveva indubbiamente una sensibilità conservatrice e non amava le riforme liturgiche che mons, Annibale Bugnini aveva già inziato a promuovere sotto il pontificato di Pio XII. La costituzione apostolica Veterum sapientia del 22 febbraio 1962 costituì una ferma e inaspettata risposta ai fautori dell’introduzione del volgare nella liturgia. In questo documento Giovanni XXIII sottolineava l’importanza dell’uso del latino, “lingua viva della Chiesa”, raccomandava che le più importanti discipline ecclesiastiche dovessero essere insegnate in latino (n. 5) e che a tutti i ministri della Chiesa Cattolica, del clero sia secolare che regolare, fosse imposto “lo studio e l’uso della lingua latina”. Con questi provvedimenti Giovanni XXIII si mostrava chiaramente scontento dell’indirizzo preso dalla Commissione liturgica. Ma poi Giovanni XXIII nulla fece per vigilare sull’applicazione di tale documento che, si può dire, evaporò nel nulla.

Insomma Lei ritorna al suo giudizio di quantomeno “imprudenza” di Roncalli nell’avvio e nella gestione del processo conciliare. Eppure, da un punto di vista storico va ricordato un aspetto cruciale di continuità con un perocrso già iniziato nella Chiesa e anche indirizzato da Pio XII. Eì un fatto che la “Mystici Corporis” di Pacelli sia considerata la base su cui poggerà la costituzione dogmatica “Lumen Gentium”. E’ un altro fatto che fu la “Divino Afflante Spiritu”, anno 1943, a dare impulso agli studi storico-critici delle Scritture che tanta parte avranno nel Vaticano II, e pure in certi rischi di ‘protestantizzazione’ del cattolicesimo. Anche la riforma liturgica che arriverà con la costituzione conciliare “Sacrosanctum Concilium” fu stimolata da Pio XII, estremamente sensibile, come si sa, alla materia. Dunque l’”imprudenza” di Roncalli non nasce proprio dal nulla. Poi che cosa è successo a suo avviso?

E’ evidente che esiste una continuità, o una coerenza, tra certe riflessioni già impostate da Pio XII e il punto di partenza di Roncalli. E c’è continuità nel lavoro di elaborazione degli “Schemi preparatori” del Concilio. Il problema è che tutto questo si interrompe non ‘dopo’ o a metà Concilio, ma subito. Quando si parla di ‘tradimento’ del Concilio va detto che ciò che fu tradito fu il Concilio preparato dalle commissioni romane, i cui schemi di costituzione, approvati dallo stesso papa Roncalli, furono buttati a mare, con un vero e proprio colpo di mano, nell’ottobre del 1962, all’indomani dell’inaugurazione dell’assemblea. Fu Giovanni XXIII a tradire, per primo, il suo Concilio.

© IL FOGLIO

IOTA UNUM – La caduta di papa Liberio e il trionfo di sant’Atanasio

cristianesimocattolico:

di Cristiana de Magistris

Nel 325 il Concilio di Nicea definì la consustanzialità (homooùsion) del Padre e del Figlio, ossia decretò che il Padre e il Figlio hanno la medesima natura divina. Il termine homooùsion era dottrinalmente perfetto per indicare la consustanzialità del Padre e del Figlio e confutare l’eresia ariana, secondo cui il Padre, ingenerato, non poteva condividere con altri la propria ousìa, cioè la propria sostanza divina. Il termine homooùsion era dunque l’unica parola che gli ariani non potevano pronunciare senza rinunciare alla loro eresia e perciò divenne la cartina al tornasole dell’ortodossia cattolica.

Il Concilio di Nicea fu convocato dall’imperatore Costantino, il quale incoraggiò fortemente la definizione della consustanzialità del Padre e del Figlio. Sant’Ilario afferma che, al Concilio di Nicea, “80 vescovi rigettarono il termine consustanziale, ma 318 l’approvarono”. Di questi ultimi, però un buon numero sottoscrissero il Credo solo come un atto di sottomissione all’imperatore. M. L. Cozens commenta: “Uomini di mondo, essi non amavano la precisione dogmatica e volevano una formula che poteva esser sottoscritta da uomini con idee diverse, potendola interpretare in sensi diversi. Per costoro, tanto la fede precisa ed esatta di un Atanasio quanto l’ostinata eresia di Ario e dei suoi seguaci erano ugualmente intollerabili. Rispetto, tolleranza, liberalità: questo era il loro ideale della religione. Perciò essi proposero, invece del troppo definitivo ed inestirpabile homooùsion – della stessa sostanza –, il vago termine homoioùsion, di una “sostanza simile”. Essi […] usavano un linguaggio apparentemente ortodosso, proclamando di credere nella divinità di Nostro Signore, attribuendogli ogni divina prerogativa, anatemizzando tutti coloro che dicevano che Egli era stato creato nel tempo (Ario sosteneva che Cristo era stato creato prima del tempo): in breve, dicendo quanto di più ortodosso possa immaginarsi, salvo la sostituzione del loro homoioùsion con l’ homooùsion di Nicea”[1].

Sia tra i Vescovi che tra i fedeli si diffuse la convinzione che la distinzione tra i due termini (il cattolico homooùsion e l’ariano homoioùsion) stesse sollevando un conflitto inutile. Essi consideravano oltremodo dannoso dividere la Chiesa solo per un iota! Ma intanto i veri cattolici, tra i quali, in prima fila, sant’Atanasio, “con fermezza si rifiutarono di accettare qualunque dichiarazione che non contenesse l’homooùsion o di comunicare con coloro che lo negavano”[2].

Sant’Atanasio aveva ragione. Quella sola lettera, quell’iota, rappresentava la differenza tra la Cristianità fondata su Gesù Cristo, Verbo di Dio fatto carne, e una religione fondata su un’altra creatura, perché negare la divinità di Cristo significa negare tutto il cristianesimo.

Atanasio fu per tutta la vita testimone e strenuo difensore dei principi stabiliti dal Concilio niceno, e per questa sua fermezza dovette subire diverse condanne all’esilio negli anni che vanno dalla sua nomina a vescovo e patriarca di Alessandria d’Egitto, nel 328, fino alla sua morte.

Dopo papa Giulio I (337-352), che sostenne coraggiosamente la fede di Nicea e la causa di Atanasio, l’ascesa al pontificato di papa Liberio (352) e quella quasi contemporanea (350) all’impero di Costanzo II, imperatore filo-ariano, ne segnarono la sorte.

Inizialmente Liberio appoggiò la causa di Atanasio e, a tal fine, chiese all’imperatore la convocazione di un primo Concilio ad Arles (353-354) ed un secondo – a più vasto raggio – a Milano (355). In entrambi, a causa delle pressioni dell’imperatore ariano, Atanasio fu condannato. Quando si impose per riabilitarlo, il Papa fu esiliato in Tracia (355) dove rimase 2 anni. E qui avvenne ciò che è passato alla storia come la “caduta di un Papa”.

Lo storico Filostorgio, nella sua Storia ecclesiastica, attesta che Liberio poté rinsediarsi a Roma solo dopo aver sottoscritto una formula di compromesso che rifiutava il termine homooùsion. San Girolamo, nella sua Cronaca, afferma che Liberio “vinto dalla noia dell’esilio, dopo aver sottoscritto l’eresia rientrò a Roma in trionfo”. Atanasio, verso la fine del 357, scrisse: “Liberio, dopo essere stato esiliato, tornò dopo due anni, e, per paura della morte con la quale fu minacciato, firmò” (la condanna dello stesso Atanasio) (Hist. Ar., XLI). Sant’Ilario di Poitiers nel 360 scriveva a Costanzo: “Io non so quale sia stata l’empietà più grande, se il suo esilio o la sua restaurazione” (Contra Const., II). Come osserva il Duchesne, quella di Liberio fu non solo “una debolezza”, ma piuttosto “una caduta”. Ecco la descrizione che ne dà il Butler: “[…] Liberio iniziò ad affondare sotto le sofferenze dell’esilio e la sua risoluzione (contro gli ariani e a favore di Atanasio, ndr) fu provata dalle continue sollecitazioni di Demofilo, vescovo ariano di Beroea, e di Fortunato, vescovo temporeggiatore di Aquileia. Ascoltando suggestioni e lusinghe a cui doveva con orrore rifiutare di porger l’orecchio, egli si indebolì al punto di cedere alla tentazione con grave scandalo della Chiesa intera. Egli sottoscrisse la condanna di Atanasio e una confessione o un credo redatto dagli ariani a Sirmio, benché l’eresia non fosse espressa in esso. E scrisse ai Vescovi ariani orientali di aver ricevuto la vera fede cattolica che molti vescovi avevano approvato a Sirmio. La caduta di un tale prelato e un tale confessore è un terrificante esempio dell’umana debolezza, che nessuno può richiamare alla mente senza tremare. San Pietro cadde per una presuntuosa confidenza nella propria forza e nelle proprie risoluzioni, affinché noi imparassimo che si può stare in piedi solo con l’umiltà”[3].

Benché diversi storici abbiano tentato di scagionare e assolvere Liberio, un’autorità come il cardinal John Henry Newman non dubita di affermare che “la caduta di Liberio è un fatto storico”[4]. “Tutto fa pensare che Liberio abbia accettato la prima formula di Smirne del 351 (ossia un credo ariano, ndr)… egli peccò gravemente evitando deliberatamente l’uso del più caratteristico termine della fede di Nicea e in particolare dell’ homooùsion. Pertanto, benché non si possa dire che Liberio insegnasse una falsa dottrina, è necessario ammettere che, per timore e debolezza, non rese giustizia alla verità tutta intera”[5].

Ma la caduta di Liberio va considerata nel quadro della defezione generale della maggioranza dell’episcopato del tempo, cosa che fa risaltare ancora una volta l’eroismo di Atanasio. Nella V Appendice del suo “Ariani del IV secolo”, così riporta il cardinal Newman: A.D. 360: San Gregorio Nazianzeno afferma, più o meno in questo periodo: “I pastori hanno certamente fatto cose folli; poiché, a parte pochi, i quali o per la loro insignificanza furono ignorati, o per la loro virtù resistettero e furono lasciati come un seme e una radice per la rifioritura e rinascita di Israele sotto l’influenza dello Spirito Santo, tutti cedettero al compromesso, con la sola differenza che alcuni cedettero subito e altri dopo; alcuni furono campioni e guide nell’empietà e altri si aggregarono a battaglia già iniziata, succubi della paura, dell’interesse, delle lusinghe o – ciò che è più scusabile – dell’ignoranza (Orat. XXI.24).

Cappadocia. San Basilio afferma circa nell’anno 372: “I fedeli stanno in silenzio, ma ogni lingua blasfema è libera di parlare. Le cose sacre sono profanate. I laici davvero cattolici evitano i luoghi di preghiera come scuole di empietà e sollevano le braccia in preghiera a Dio nella solitudine, gemendo e piangendo” (Ep. 92). Quattro anni dopo aggiunge: “Le cose sono giunte a questo punto: la gente ha abbandonato i luoghi di preghiera e si è radunata nel deserto. È uno spettacolo triste. Donne e bambini, vecchi ed infermi, soffrono all’aria aperta, in inverno sotto la pioggia, la neve, il vento e le intemperie e, in estate, sotto un sole cocente: essi sopportano tutto ciò perché non vogliono aver parte al cattivo fermento ariano” (Ep. 242). E ancora: “Solo un peccato è ora gravemente punito: l’attenta osservanza delle tradizioni dei nostri Padri. Per tale ragione i buoni sono allontanati dai loro paesi e portati nel deserto” (Ep. 243).

Nella medesima Appendice, il cardinal Newman non dubita di sottolineare come, durante la crisi ariana, la sacra tradizione fu mantenuta dai fedeli più che dall’episcopato, ossia – contrariamente alla norma – dalla Chiesa docta più che dalla Chiesa docens. Scrive: “Non è di poco rilievo il fatto che, benché dal punto di vista storico il IV secolo sia stato illuminato da santi e dottori quali Atanasio, Ilario, i due Gregori, Basilio, Crisostomo, Ambrogio, Girolamo e Agostino (tutti vescovi eccetto uno), tuttavia proprio in questo periodo la divina Tradizione affidata alla Chiesa infallibile fu proclamata e mantenuta molto più dai fedeli che dall’episcopato. Intendo dire che […] in quel tempo di immensa confusione il dogma divino della divinità di Nostro Signore Gesù Cristo fu proclamato, imposto, mantenuto e (umanamente parlando) preservato molto più dalla Ecclesia docta che dalla Ecclesia docens; che gran parte dell’episcopato fu infedele al suo mandato, mentre il popolo rimase fedele al suo battesimo; che a volte il Papa, a volte i patriarchi, metropoliti o vescovi, a volte gli stessi Concili[6] dichiararono ciò che non avrebbero dovuto o fecero cose che oscuravano o compromettevano la verità rivelata. Mentre, al contrario, il popolo cristiano, guidato dalla Provvidenza, fu la forza ecclesiale che sorresse Atanasio, Eusebio di Vercelli ed altri grandi solitari che non avrebbero resistito senza il loro sostegno. In un certo senso si può dire che vi fu una “sospensione temporanea”[7] delle funzioni della Ecclesia docens. La maggior parte dell’episcopato aveva mancato nel confessare la vera fede”.

La caduta di Liberio, la resistenza di Atanasio, la fortezza del popolo fedele al tempo dell’arianesimo costituiscono una lezione per ogni tempo. Ancora Newman, nel luglio del 1859, scriveva sul Rambler: “Nel tempo dell’eresia ariana vedo un palmare esempio di uno stato della Chiesa nel quale, per conoscere la tradizione degli apostoli, bisognava ricorrere al popolo fedele, […] La sua voce perciò è la voce della tradizione”.

Questa voce ebbe in Atanasio una guida possente che non tollerava compromessi. Ai cristiani tiepidi non esitava a dire: “Volete essere figli della luce, ma non rinunciate ad essere figli del mondo. Dovreste credere alla penitenza, ma voi credete alla felicità dei tempi nuovi. Dovreste parlare della grazia, ma voi preferite parlare del progresso umano. Dovreste annunciare Dio, ma preferite predicare l’uomo e l’umanità. Portare il nome di Cristo, ma sarebbe più giusto se portaste il nome di Pilato. Siete la grande corruzione, perché state nel mezzo. Volete stare nel mezzo tra la luce e il mondo. Siete maestri del compromesso e marciate col mondo. Io vi dico: fareste meglio ad andarvene col mondo ed abbandonare il Maestro, il cui regno non è di questo mondo”[8].

La storia della crisi ariana è di sorprendente attualità. “Ciò che avvenne allora, più di 1600 anni or sono, si ripete oggi, però con due o tre differenze. Alessandria rappresenta, oggi, l’intera Chiesa, scossa nelle sue fondamenta; ed i fatti di violenza fisica e di crudeltà interessano un’altra sfera. L’esilio si cambia in un silenzio mortale e l’assassinio è sostituito dalla calunnia, pure mortale”[9]. Con queste parole monsignor Rudolf Graber, vescovo di Regensburg, già negli anni ’70 paragonava la complessa e devastante crisi del IV secolo con la silenziosa apostasia del nostro tempo.

Scrivendo ai tempi di Atanasio, san Girolamo stigmatizzò la crisi ariana con queste celebri memorande parole: “Ingemuit totus orbis et arianum se esse miratus est”, il mondo intero gemette e si meravigliò di trovarsi ariano. Il fatto più stupefacente del nostro tempo, in cui assistiamo ad un’autentica disgregazione del cristianesimo, assai peggiore dell’arianesimo, è che – salvo poche eccezioni – nessuno geme e nessuno sembra meravigliarsi. Al contrario, davanti al generale disfacimento, che nessun fedele dotato di senso comune può negare, si continuano ad intonare vecchi e nuovi peana in onore di una Chiesa finalmente uscita dalle catacombe, immemori che la crisi ariana iniziò proprio quando terminarono le persecuzioni.

La storia ariana si ripresenta ai nostri giorni in toni molto più drammatici. Nel IV secolo, “La Provvidenza mandò al mondo un siffatto uomo (Atanasio), mentre la bufera urlava sempre più forte e le colonne della Chiesa erano scosse e s’inclinavano, ed i muri santi minacciavano di crollare e sembrava che le potenze dell’abisso e le forze dell’alto facessero sparire la Chiesa dalla faccia della terra. Ma un uomo resistette come un macigno in mezzo ai marosi che s’infrangevano; un uomo fu sempre sulla breccia: Atanasio! Egli, Atanasio, brandì la spada di Dio sull’Oriente e sull’Occidente”[10]. Forse la vera tragedia del nostro tempo è quella di non avere un altro Atanasio.

NOTE

[1] M. L. Cozen, A Handbook of Heresies, Londra 1960, pp. 35-36.

[2] Ibidem.

[3] A. Butler, The Lives of the Saints, Londra 1934, II, p. 10.

[4] J. H. Newman, Arians of the Fourth Century, Londra 1876, p. 464 (traduzione nostra).

[5] New Catholic Encyclopedia, New York 1967, VIII, 715, col. 2.

[6] Newman non si riferisce a Concili ecumenici, ma a quei Concili che radunavano un ingente numero di Vescovi locali.

[7] Newman spiega che con l’espressione “sopensione temporanea delle funzioni della Ecclesia docens” egli intende dire che “di fatto non vi fu alcuna autorevole pronunciamento della voce della Chiesa infallibile tra il concilio di Nicea (325) e quello di Costantinopoli (381).

[8] Cf K. Flam, Atanasio viene nella metropoli, in una fossa di belve, Breslavia 1930, p 84.

[9] R. Graber, Sant’Atanasio e la Chiesa del nostro tempo, Brescia 1974, p. 29.

[10] K. Kirch, citato da R. Graber, op. cit., p. 17.

Se uno di noi è in grado di dire a se stesso, come se si trovasse alla presenza di Dio, che non deve agire in conformità di quanto gli viene comandato dal papa, egli è obbligato a obbedire, e, se disobbedisse, commetterebbe un peccato. […] Certamente se sarò costretto a coinvolgere la religione in un brindisi al termine di un pranzo, brinderò al papa – se vi farà piacere -, ma prima alla coscienza, e poi al papa.

Beato John Henry Newman (via cristianesimocattolico)

Cristianesimo Cattolico: Quale modello ci offre il santo di Assisi?

cristianesimocattolico:

di Cristina Siccardi (20/03/2013)

«Molti mi hanno detto ti dovevi chiamare Adriano per essere un vero riformatore», ha affermato il neo eletto Sommo Pontefice alla prima udienza pubblica con i giornalisti del 16 marzo scorso, «oppure Clemente per vendicarti di Clemente XIV che abolì la Compagnia…

Cristianesimo Cattolico: Quale modello ci offre il santo di Assisi?

I “cattolici del sottobosco” vogliono farci credere che san Francesco era Che Guevara

Eccoli qui i “quelli che la sanno lunga”, subito pronti a trasformare il poverello d’Assisi in un pauperista. Ma se lo conoscessero veramente, cambierebbero idea

di Aldo Vitale (15/03/2013)

[…] Chi è, dunque, il “cattolico da sottobosco”? È un cattolico che ama definirsi, in genere, “non praticante” (come se potesse esistere davvero; sarebbe come ammettere un campione olimpico che non ha abbia mai vinto nulla), che volteggia in tondo sulla Chiesa senza mai farvi posa, che costruisce raffinate critiche e dotte disquisizioni su qualcosa di cui all’un tempo si sente parte, ma a cui non vuole aderire; che si sente cattolico, ma nutrendo una incrollabile diffidenza verso la Chiesa, la sua dottrina teologica e soprattutto morale; che non prega, considerando gli atti di devozione come vecchi retaggi para-superstiziosi, ma che prontamente critica chi dovesse mancare di spiritualità all’interno del clero; che non pratica i sacramenti, ma che pretende il sacerdozio per le donne, la comunione per i divorziati, il matrimonio, anche quello religioso, divorziabile; che si straccia le vesti per il malcostume dei sacerdoti, attaccati al sesso, talvolta quello perverso della pedofilia, al denaro, al potere, ma che caldeggia l’abolizione del celibato, cioè del rigore ascetico del sacerdozio cattolico; che vorrebbe in cuor suo appartenere alla Chiesa, ma senza l’obbedienza; che ritiene che in tema di fede (dimensione che interpreta in modo assolutamente non privato, ma addirittura psico-intimistico) ognuno abbia il diritto di pensare ciò che vuole senza nessuna guida teorica, senza alcuna direzione teologica, insomma senza differenze tra ortodossia ed eresia e comunque senza eventuali conseguenze nel secondo caso.

[CARO ALDO VITALE, CI SONO ANCHE CATTOLICI PRATICANTI CHE SONO “CATTOLICI DA SOTTOBOSCO”]

Ecco perché il “cattolico da sottobosco” guarda alla figura di San Francesco d’Assisi con speranza e con fiducia, portandolo in giro, dentro e fuori la Chiesa, come esemplare prototipico di santità, di veracità dello spirito, di rottura con la corruzione ecclesiastica, di recupero dell’autenticità del messaggio evangelico, di vera, inossidabile, profonda imitatio Christi, tuttavia, deformandone spesso la figura e descrivendolo addirittura come un rivoluzionario, una specie di Che Guevara ante litteram.

Ma è proprio così? Sicuramente no, altrimenti si farebbe di San Francesco più di quanto il santo d’Assisi pensava di sé, e perché San Francesco non è di certo l’unico aderente all’imitazione di Cristo, tranne che si voglia negare che esistano altri santi oltre il “porziuncolo di Dio”.

Altri grandi esempi di vita monastica, spirito riformatore e carisma mistico, del resto, sono stati, tra le centinaia, San Benedetto, San Tommaso d’Aquino, San Pier Damiani, Santa Caterina, Santa Brigida di Svezia, Santa Faustina Kowalska.

Se San Francesco d’Assisi si spogliò dei suoi beni, San Benedetto si lanciò completamente nudo sui fittissimi rovi per resistere e vincere la tentazione diabolica, mentre San Tommaso d’Aquino intratteneva lunghe conversazioni, con immenso stupore e timore dei suoi confratelli che sentivano più voci e persino risate provenire dalla sua cella nel cuore della notte, con San Pietro e San Paolo per la risoluzione di problematiche teologiche poi ridotte per iscritto nella sua Summa Theologiae.

Quanto dunque è effettivamente francescano il “cattolico da sottobosco”?

Prendendo qualche esempio e qualche riferimento dagli scritti del santo di Assisi si scopre che il “cattolico da sottobosco” pensa di essere spiritualmente un francescano, ma è ben lungi dall’essere anche soltanto un banale eretico.

Circa l’obbedienza al Papato ed alla Chiesa, infatti, così intimava, nel suo “Piccolo Testamento”, ai suoi frati il santo d’Assisi: «Sempre siano fedeli e sottomessi ai prelati e a tutti i chierici della santa madre Chiesa».

San Francesco inoltre esortava a non disprezzare i chierici anche quando essi fossero peccatori: «Beato il servo che ha fede nei chierici che vivono rettamente secondo le norme della Chiesa romana. E guai a coloro che li disprezzano. Quand’anche, infatti, siano peccatori, tuttavia nessuno li deve giudicare, poiché il Signore esplicitamente ha riservato solo a se stesso il diritti di giudicarli»; difendeva il celibato (che oggi si vorrebbe abolito da parte di molti “cattolici da sottobosco” che dicono di ispirarsi al santo d’Assisi) tanto da scrivere che «tutti i frati, ovunque siano o vadano, evitino gli sguardi impuri e la compagnia delle donne»; esortava ad accertare con cura la ortodossia teologica di coloro che volevano far parte dell’ordine francescano, infatti scrisse che «se alcuni vorranno intraprendere questa vita e verranno dai nostri frati, questi li mandino dai loro ministri, ai quali soltanto e non ad altri sia concesso di ammettere i frati. I ministri, poi, diligentemente li esaminino intorno alla fede cattolica e ai sacramenti della Chiesa»; prevedeva sanzioni per chi si allontanava dall’ortodossia teologica e morale, tanto da scrivere che «tutti i frati siano cattolici, vivano e parlino cattolicamente. Se qualcuno poi a parole o a fatti si allontanerà dalla fede e dalla vita cattolica e non se ne sarà emendato, sia espulso totalmente dalla nostra fraternità».

San Francesco, inoltre, ordinava da un lato la povertà, ma non l’ingenuo pauperismo, diversamente da quanto oggi molti ritengono errando del tutto, tanto da disporre perentoriamente che «i calici, i corporali, gli ornamenti dell’altare e tutto ciò che serve al sacrificio, devono essere preziosi».

Inoltre ordinava la sottomissione e la fedeltà alla Chiesa, cioè alla sua gerarchia, alla sua dottrina teologica e morale; scriveva infatti: «Nessun frate predichi contro la forma e le prescrizioni della Santa Chiesa e senza il permesso del suo ministro»; sanciva il massimo rigore con riguardo alle ordinazioni sacerdotali (che oggi il “cattolico da sottobosco” vorrebbe estendere alle donne) scriveva: «Nessuno sia ricevuto contro le norme e le prescrizioni della santa Chiesa».

Più che un rivoluzionario, più che un sobillatore, più che un “rovesciapapi”, San Francesco era il santo della povertà materiale come espressione della povertà spirituale, cioè dell’umiltà, virtù che conduce, se davvero presente, in primo luogo alla sottomissione e all’obbedienza alla Chiesa cattolica, specialmente se si ritiene di appartenere ad essa.

Sembra, insomma, che il “cattolico da sottobosco” predichi beni su qualcosa che in effetti ignora del tutto.

Grazie a questo tipo di strano francescano che è il “cattolico da sottobosco”, dunque, si comprende che c’è tanta differenza tra l’essere francescani e il pensare di esserlo, quanta ne esiste tra il conoscere effettivamente il pensiero di San Francesco e il pensare di conoscerlo.

Il Papa, Papa Francesco compreso, serve proprio a questo, cioè a correggere chi sbaglia, a recuperare chi finisce fuori strada, ad insegnare a chi ignora.

Si spera che il “cattolico da sottobosco” possa finalmente imparare qualcosa.

Viva Cristo Re! Viva la Vergine di Guadalupe, Regina del Messico

cristianesimocattolico:

I cattolici, talvolta, sono costretti a impugnare le armi per difendere la Chiesa. I cristeros messicani hanno testimoniato la loro fede nel martirio gridando: «Viva Cristo Re! Viva la Vergine di Guadalupe, Regina del Messico». Non c’è gloria più grande che dare la vita per Gesù Cristo.

E TU, VISITATORE CATTOLICO DI QUESTO BLOG, NON TI SENTI UN CRISTEROS?

Viva Cristo Re! Viva la Vergine di Guadalupe, Regina del Messico

Cristianesimo Cattolico: Sentinelle nel post-concilio. Dieci testimoni dell’ininterrotta Traditio

cristianesimocattolico:

Il primo lancio del nuovo libro di Bertocchi ed Agnoli è stato fatto a Firenze, presso la Chiesa di Ognissanti, con una conferenza tenuta dai due autori. Cosa si è generato nel post-concilio? Una crisi di una proporzione spaventosa. Il Vaticano II doveva essere una “primavera”, una “nuova…

Cristianesimo Cattolico: Sentinelle nel post-concilio. Dieci testimoni dell’ininterrotta Traditio

Il travaglio della Chiesa nel post-concilio e le figure di difensori indomiti

di Cristina Siccardi. da Riscossa Cristiana (10/02/2012)

È l’ultimo, in realtà è il primo. Ossia, Monsignor Marcel Lefebvre è l’ultimo a comparire nel libro Sentinelle nel post-concilio. Dieci testimoni controcorrente, curato da Lorenzo Bertocchi e Francesco Agnoli (Cantagalli, pp.156, € 10,00), ma fu il primo che con coraggio, come sacerdote e come Vescovo, comprese la tragedia che stava avvenendo nella Chiesa: il modernismo faceva la voce grossa e pretendeva, nel Concilio Vaticano II, di affermare le sue idee rivoluzionarie, bandendo la Chiesa costantiniana, la Chiesa che insegnava ai bambini e agli adulti un catechismo non ludico, non sociale, non ideologico, ma dottrinale.

Afferma Lorenzo Bertocchi: «Abbiamo inserito anche monsignor Marcel Lefebvre perché la sua figura, al di là dei preconcetti e delle controversie, risulta interessante per comprendere ciò che è accaduto durante e dopo il Vaticano II» (1), di cui il prossimo 11 ottobre ricorre il cinquantesimo di apertura. È proprio il caso di dirlo: Monsignor Lefebvre aveva ragione… Aveva ragione a piangere sull’archiviazione del rito “antico” perché aveva compreso che ciò che sarebbe accaduto sull’altare, sarebbe accaduto anche fuori dalle chiese: togliendo il concetto di Santo Sacrificio e riducendolo ad un solo memoriale della Cena e non più orientandosi a Dio, ma verso il popolo, la Fede ne avrebbe subito un colpo durissimo. È quello che è esattamente accaduto in questi cinquant’anni. Ancora una volta la lex orandi si è dimostrata non solo specchio, ma anche e soprattutto maestra elevatrice della lex credendi: questo principio, che ha fatto della liturgia cattolica e, in modo particolare, del rito della Santa Messa i più potenti strumenti di conversione alla sequela di Cristo, nel postconcilio e, in modo particolare dopo la riforma liturgica, diviene uno dei principali grimaldelli della secolarizzazione.

Bertocchi riporta alcune parole dell’allocutio di apertura del Concilio pronunciate da Giovanni XXIII (1881-1963): «Non già che manchino dottrine fallaci, opinioni e concetti pericolosi […] ma essi sono così in evidente contrasto con la retta norma dell’onestà […] che gli uomini da se stessi sembrano siano propensi a condannarli […]: questa la grande fiducia nella maturità dei fedeli con cui si guardava al mondo e al futuro, a differenza di quei “profeti di sventura” che “nei tempi moderni” vedevano solo “prevaricazione e rovina”» (2). Ebbene, chi erano questi profeti di sventura? Indubbiamente molti uomini della Curia romana, fra cui spiccava il Cardinale Alfredo Ottaviani (1890-1979) e fra i Vescovi Monsignor Lefebvre e tutti coloro che formeranno il Coetus Internationalis Patrum, composto da 450 Vescovi (3).

Durante il Concilio accaddero cose inaudite sia teologicamente (come ha dimostrato Monsignor Brunero Gherardini), sia storicamente (come ha dato prova il Professor Roberto de Mattei), sia umanamente, delle quali molto ebbe a soffrire lo stesso Paolo VI (1897-1978), che mai avrebbe aperto un Concilio in quelle circostanze.

La Chiesa del post-concilio ha messo in solaio il Crocifisso, ovvero la Chiesa della Tradizione, e ha puntato i riflettori sul Concilio Vaticano II con un Cristo storicizzato e umanizzato. Ma come è potuto accadere tutto questo all’interno della Chiesa, Sposa amatissima del Salvatore? Paolo VI «vide la causa di tutto questo in un “potere avverso” – Satana – che “da qualche fessura era entrato fin nel Tempio di Dio”» (4).

Dirà, infatti, Monsignor Lefebvre ai seminaristi di Écône nel 1976: «La nostra battaglia è sovrannaturale, contro potenze spirituali del Demonio e degli angeli malvagi, una battaglia di giganti; non una diatriba dialettica, una giostra intellettuale. Entrando in seminario voi entrate nella storia della Chiesa, ma conducete una guerra che non sta sul piano naturale, altrimenti voi sareste completamente fuori dalla verità. La nostra battaglia è sul piano della grazia divina. Preparatevi filosoficamente, ma la grazia che convincerà le anime, non la otterrete che con la preghiera, il sacrificio, la mortificazione, la santità vissuta» (5).

I Padri della Chiesa vengono sempre in soccorso, ecco allora che san Giovanni Crisostomo (344/354- 407) spiega: «Se poi alcuno esamini l’accanimento con cui quegli [il Demonio] combatte, troverà cosa ridicola il paragonarvi [quello consueto] fra uomini; e se scegliendo le più rabbiose e feroci belve, vorrà contrapporle alla furia di quello, le troverà al confronto mansuetissime e docilissime, tanto furore quegli esala nell’assalire le nostre anime. La durata poi della battaglia qui [fra noi] è breve, e pur nella sua brevità occorrono frequenti intervalli: il sopravvenire della notte, la stanchezza della strage, il tempo di prendere cibo e molte altre circostanze permettono al soldato di riposare, di svestire l’armatura e respirare alcun poco, rifocillarsi con cibo e bevanda e con molti altri mezzi riacquistare il pristino vigore. Ma col maligno, non è dato mai deporre le armi né prendere sonno a chi voglia serbarsi affatto incolume; è forza che l’una o l’altra accada di queste due cose: o cadere e soccombere se si spoglia [delle armi], o rimanere continuamente in piedi armato e vigilante. Ché quegli senza tregua insiste con tutto il suo campo, spiando le nostre disattenzioni, adoperando egli maggior diligenza alla nostra rovina, che noi stessi alla nostra salvezza. Inoltre il non esser egli da noi veduto e il sopraggiungerci di sorpresa, cose che più d’ogni altra sono causa di infiniti danni per chi non è in continua vigilanza, presentano questa lotta come assai più scabrosa di quella» (6).

Accadde proprio questo: le armi vennero deposte in nome del «Dialogo». E con infausta volontà e irragionevole determinazione non si volle più vigilare, né sull’errore, né sul peccato. Non si rimase più in piedi, la maggior parte si sedette placidamente, mentre il maligno proseguiva, indisturbato, la sua opera di corruzione attraverso la teologia e la filosofia. Dietro Chenu (1895-1990), Daniélou (1905-1974), Congar (1904-1995), de Lubac (1896-1991), Rahner (1904-1984) c’erano Hume (1711-1776), Kant (1724-1804), Hegel (1770-1831), Comte (1798-1857) … Proprio Kant, ne La religione entro i limiti della sola ragione (1793), giunse a sostenere: «Non c’è che una sola (vera) religione; ma ci possono essere diverse specie di fede. Si può aggiungere che nella pluralità delle Chiese, distinte le une dalle altre per la diversità delle loro credenze speciali, si può trovare, tuttavia, una sola e medesima vera religione», ecco il relativismo religioso tanto paventato dal Cardinale John Henry Newman (1801-1890).

Il Dottore della Chiesa Crisostomo era passato di moda, come lo stesso san Tommaso d’Aquino (1225-1274) e poche sentinelle rimasero a vigilare; il libro pubblicato da Cantagalli le descrive: Eugenio Corti, Romano Amerio (1905-1997), Giovannino Guareschi (1908-1968), san Pio da Pietrelcina (1887-1968), Padre Tomas Tyn (1950-1990), don Divo Barsotti (1914-2006), padre Cornelio Fabro (1911-1995), il Cardinale Giuseppe Siri (1906-1989), Monsignor Brunero Gherardini e Monsignor Marcel Lefebvre (1905-1991).

Interessante ciò che scrive Francesco Agnoli a proposito del Cardinale Siri: «Mentre molti vescovi e padri conciliari “tradizionalisti” (monsignor Sigaud, monsignor Marcel Lefebvre, monsignor de Castro Mayer, il cardinal Ruffini, monsignor Carli, etc.) iniziano a organizzarsi, per far fronte all’alleanza progressista, molto più agguerrita e strutturata, “la percezione di aver perso la battaglia conciliare” – soprattutto per le posizioni di papa Montini, per lo strapotere dei periti e dei “teologhelli” alla moda – spingono pian piano Siri “ad autoescludersi dai dibattiti. Una sorta di rassegnazione lo portava forse a non gettarsi nella mischia, dove spesso prevalevano opinioni ai suoi occhi assolutamente eterodosse”» (7). Il 19 novembre 1964 Siri arrivò ad affermare: «Se la Chiesa non fosse divina questo Concilio l’avrebbe seppellita».

Amore per la Chiesa di Roma, per Cristo, per Maria Santissima e per il Papa mossero e muovono questi uomini controcorrente, sprezzanti l’amor proprio ed il giudizio del mondo.

NOTE

1) L.Bertocchi-F.Agnoli, “Sentinelle nel post-concilio. Dieci testimoni controcorrente”, Cantagalli, Siena 2011, p. 12.

2) Ivi, pp. 5-6.

3) I Padri conciliari erano in tutto 2.540 con diritto di voto.

4) Paolo VI, Omelia, 29 giugno 1972.

5) Conferenze di Monsignor M. Lefebvre a Écône,27 B, 28 A, 13 e 23 febbraio 1976.

6) San Giovanni Crisostomo, “De Sacerdotio”, Libro VI, § XII.

7) Ivi, p. 119.