Se studiamo con attenzione la storia di quel fatidico 1968, ci accorgeremo che è proprio all’interno della Chiesa Cattolica, nei settori giovanili e maggiormente compromessi con il secolo, che nacque il movimento di protesta italiano.
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Il card. Coccopalmerio interpreta il capitolo VIII di Amoris laetitia
Il cardinale scrive che «i Padri sinodali hanno anche considerato la situazione solo civile o, fatte salve le differenze, persino di una semplice convivenza in cui quando l’unione raggiunge una notevole stabilità attraverso un vincolo pubblico, è connotata da affetto profondo, da responsabilità nei confronti della prole, da capacità di superare le prove, può essere vista come una occasione da accompagnare nello sviluppo verso il sacramento del matrimonio alla luce del Vangelo».
FALSO! I padri sinodali hanno detto NO a qualsiasi forma di convivenza fra uomo e donna senza il sigillo sacramentale!
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Quelli che rispettano la dottrina, ma poi attaccano i dogmi di fede. Come il matrimonio indissolubile
Tra i tanti messaggi usciti in questi giorni dal Sinodo non mancano quelli che, pur essendo presentati come meri adattamenti “pastorali” alla mutata situazione sociologica, propongono in realtà un radicale cambiamento della dottrina dogmatica e morale della Chiesa. Dottrina che nella sua presunta astrazione viene contrapposta all’azione pastorale, cioè alla vita reale.
Suore americane “eretiche”: «Va tutto bene»
Presentato dopo sei anni di indagine il giudizio della Santa Sede sugli istituti religiosi femminili negli Usa. Nessun provvedimento, solo dialogo, anche con quegli istituti che si sono rifiutati di accogliere la visitatrice apostolica. È forse anche un messaggio alla Congregazione per la Dottrina della Fede, che sta conducendo un’altra indagine sulla più vasta associazione di religiose, che seguono tesi «opposte alla rivelazione cristiana».
di Matteo Matzuzzi
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Morale cattolica? Roba vecchia. Teologi tedeschi contro il Sant’Uffizio
di Matteo Matzuzzi (15/01/2014)
La Chiesa deve cambiare il suo atteggiamento sulla morale sessuale. È il 2014 d. C., da un pezzo siamo nel Terzo millennio. Impensabile che Roma contempli solo celibato e matrimonio come alternative che danno senso alla vita. A scriverlo, nero su bianco, sono alcuni tra i più eminenti rappresentanti dell’Associazione dei teologi morali di Germania e della Conferenza dei teologi pastorali di lingua tedesca. A essere coinvolte sono le università di Münster, Tubinga, Friburgo. Nel documento si chiede un superamento della dottrina basata sul dare un giudizio morale circa gli atti sessuali degli individui. “È tempo di adottare un nuovo paradigma, fondato sulla fragilità del matrimonio e le esperienze personali in campo sessuale”. Insomma, Roma deve capire che è giunta l’ora di considerare il matrimonio non più come “un obbligo, bensì come un’istituzione che protegge la fragilità delle persone, la loro vulnerabilità”. A chiederlo, specificano i diciassette firmatari dell’appello, non sono tanto loro, quanto i fedeli. Per farsene un’idea, basta scorgere le prime risposte al questionario proposto alle diocesi del mondo in vista del Sinodo straordinario sulla famiglia del prossimo ottobre: in generale, si invoca un cambio di passo, una svolta. Più misericordia e meno bastone, un po’ come chiede da tempo la maggioranza dei vescovi tedeschi. “Gli insegnamenti della chiesa non sono accettati nella pratica e spesso non sono connessi alla realtà”, continuano i teologi morali nel loro documento: “Appare evidente che l’insegnamento morale cristiano che limita la sessualità al contesto del matrimonio non dà la giusta importanza alle tante forme di sessualità al di fuori di esso”. Il testo recepisce parte di quanto sostenuto nei mesi scorsi dal capo dell’episcopato tedesco, mons. Robert Zollitsch, che di famiglia e pastorale matrimoniale parlerà a fine mese, nel corso del consiglio permanente della Conferenza episcopale in programma a fine gennaio. L’obiettivo è quello di arrivare a dare il via libera al riaccostamento dei divorziati risposati ai sacramenti, come prevedeva un documento diffuso lo scorso autunno dall’ufficio per la cura delle anime della diocesi di Friburgo. Un testo che il prefetto della Dottrina della fede, il tedesco Gerhard Müller, voleva fosse ritirato, senza successo. Per Zollitsch e Marx, il cardinale arcivescovo di Monaco e Frisinga, chi doveva rivedere le proprie posizioni era proprio lui, il custode dell’ortodossia cattolica messo all’ex Sant’Uffizio da Ratzinger e confermato da Bergoglio. Uno scontro aperto e violento, al punto che – ne ha dato notizia qualche giorno fa il quotidiano bavarese Passauer Neue Presse – un gruppo di vescovi locali avrebbe chiesto con tatto e delicatezza a Francesco di depennare il nome di Müller dalla lista dei prossimi cardinali. A corredo della singolare petizione, un rapporto pubblicato sul settimanale Zeit in cui si definiva il prefetto come uno tra i più “ostinati avversari” del Pontefice e una sentenza di Hans Küng, convinto che Müller sia “il nuovo Ottaviani”. Da Santa Marta, come dimostra l’elenco letto domenica scorsa al termine dell’Angelus, la petizione è stata rispedita al mittente. Il prossimo 22 febbraio, il custode della fede riceverà la porpora. Ha altro a cui pensare, Bergoglio, rispetto agli articoli di Küng.
Ieri, ad esempio, ha rivoluzionato la commissione cardinalizia di vigilanza sullo Ior. Fuori quattro dei cinque eminentissimi nominati il 16 febbraio di un anno fa da Benedetto XVI. Tra questi, spicca l’ex segretario di stato, Tarcisio Bertone. Un assetto, quello definito a Ratzinger dimissionario lo scorso inverno, che avrebbe dovuto avere mandato quinquennale, ma che creò non poche polemiche in una curia che vedeva quelle nomine come il colpo di coda finale del plenipotenziario del Papa dimissionario. L’unico superstite del vecchio organigramma è il cardinale Jean-Louis Tauran, protodiacono di Santa romana Chiesa e fedelissimo di Francesco. Con lui, ci saranno i cardinali Christoph Schönborn, Pietro Parolin, Christopher Collins (arcivescovo di Toronto) e l’arciprete di Santa Maria Maggiore, lo spagnolo Santos Abril y Castelló, favorito per assumerne la presidenza.
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Il prefetto di Francesco e segretario di B-XVI alza la voce in Germania
di Matteo Matzuzzi (20/12/2013)
“Molti di quelli che si erano mostrati entusiasti per Francesco rimarranno con la gioia strozzata in gola”. Sono parole dure quelle che monsignor Georg Gänswein, prefetto della Casa pontificia e segretario del Papa emerito Benedetto XVI, pronuncia in un intervento che sarà pubblicato sul numero di gennaio della prestigiosa rivista di cultura tedesca Cicero. Guarda alla situazione della chiesa di Germania, una parte consistente della quale avanza a Roma richieste di rapide riforme e significativi cambi di passo. Svolta sulla pastorale familiare, sui sacramenti, tanto per cominciare. E ancora, sì a un ruolo più attivo e centrale delle donne nella Chiesa. Non si tratterà delle cardinalesse – chi lo pensa “soffre un po’ di clericalismo” – ha detto domenica Francesco nell’ampia intervista concessa ad Andrea Tornielli e pubblicata sulla Stampa – ma sulle diaconesse si può aprire il dibattito. Gänswein, però, frena: “Non credo che il Papa concederà spazio a certe iniziative provenienti dalla Germania”, e il riferimento è proprio alla possibilità di concedere il diaconato alle donne, ipotesi rilanciata anche da porporati di rango come il cardinale teologo Walter Kasper: “Impossibile”, dice il segretario personale del Pontefice emerito.
Durante l’ultima sessione primaverile della Conferenza episcopale tedesca svoltasi a Treviri, l’ex presidente del Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani spiegava come fosse possibile istituire la figura del diacono femminile capace di svolgere funzioni pastorali e particolari servizi liturgici. Non c’erano problemi di dogmi, aggiungeva Kasper: niente ordinazione, basterebbe una semplice e meno impegnativa benedizione. Gänswein si mostra perplesso e non vede all’orizzonte cambiamenti su questo fronte, neppure ora che Papa è il gesuita che tante aspettative ha generato in gran parte dell’episcopato mondiale, con il quale dice di collaborare “in fiducia e armonia”. Rimarranno deluse, quindi, “quelle forze che hanno cercato di sfruttare il nuovo Pontefice per i propri interessi”, spiega il prefetto della Casa pontificia. Basta guardare al documento dell’ufficio per la cura delle anime della diocesi di Friburgo che autorizzava il riaccostamento dei divorziati risposati ai sacramenti, primo fra tutti la comunione, nel nome della misericordia tanto evocata da Francesco. Ma è stato lo stesso Pontefice, sempre alla Stampa, a chiarire di aver “parlato del battesimo e della comunione come cibo spirituale per andare avanti, da considerare un rimedio e non un premio. Alcuni – ha aggiunto – hanno subito pensato ai sacramenti per i divorziati risposati, ma io non sono sceso in casi particolari: volevo solo indicare un principio”.
Una risposta indiretta anche a quanti, a partire dal cardinale Reinhard Marx, arcivescovo di Monaco e Frisinga, avevano accusato il prefetto della congregazione per la Dottrina della fede, monsignor Gerhard Ludwig Müller, di voler imbrigliare e chiudere il dibattito sulla pastorale matrimoniale in vista del prossimo Sinodo straordinario di ottobre. Polemiche assurde, le ha definite qualche giorno fa in una lunga intervista all’agenzia cattolica tedesca kath.net il cardinale svizzero Kurt Koch, tra l’altro successore di Kasper al dicastero per l’unità dei cristiani e in questi giorni in visita in Russia (ha incontrato anche il Patriarca di Mosca, Kirill): “Müller non ha fatto altro che richiamare la dottrina della chiesa, ribadendo ciò che era già stato affermato sul tema specifico all’epoca in cui prefetto dell’ex Sant’Uffizio era il cardinale Joseph Ratzinger. Ogni serio esame del problema deve partire da questi insegnamenti, che corrispondono alla chiara volontà di Gesù Cristo”. Opporre ancora una volta l’insegnamento alla pastorale, ha detto Koch, “non può essere la direzione in cui si deve muovere la chiesa. Nuove modalità di espressione pastorale si possono trovare solo nella luce portata dalla verità della dottrina”.
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I parroci disobbedienti di Germania vanno allo scontro con la Chiesa
Kulturkampf antiromano. In 800 chiedono dialogo tra pari, dove “il sacerdote può contraddire il vescovo”. Divorziati, celibati e altro.
di Matteo Matzuzzi (04/12/2013)
Dopo i vescovi, tocca ai parroci. In ottocento, tra sacerdoti e diaconi tedeschi riuniti in quella Iniziativa parroci che qualche anno fa, tra Austria e Germania, chiese l’abolizione del celibato sacerdotale e il via libera all’ordinazione delle donne, si sono ritrovati nell’abbazia benedettina di Münsterschwarzach. Hanno chiesto ancora una volta che la chiesa cattolica apra alle riforme, a cominciare dal riaccostamento dei divorziati ai sacramenti, specie alla comunione. Non si tratta di ritocchi più o meno profondi alla macchina curiale o di accorpamenti tra dicasteri, come si sta discutendo in questi giorni a Santa Marta, in occasione del secondo incontro degli otto consultori chiamati da Francesco a riformare la curia. Iniziativa parroci vuole molto di più.
Gli ottocento ribelli hanno discusso “molto apertamente” – dice chi era presente alla riunione – del concetto di disobbedienza nella chiesa. Dopotutto, ha chiarito il loro portavoce, don Karl Feser, “la linea di demarcazione tra l’obbedienza e la coscienza è molto sottile. Ecco perché c’è necessità di creare un’atmosfera di dialogo e fiducia tra i vescovi e i parroci”. Si lamentano dello scollamento tra vertice e base, tra ciò che viene deciso a Roma e ciò che viene vissuto nelle parrocchie di città o campagna giorno dopo giorno. La volontà è di arrivare a un dialogo tra pari, dove “il sacerdote può contraddire il vescovo” in quanto “ciascuno deve seguire la strada che gli è indicata dalla coscienza”. A garantire la bontà della via intrapresa, c’è sempre la misericordia che lava da ogni peccato e tutto perdona.
Disobbedire al proprio pastore, dunque è legittimo, secondo Iniziativa parroci.
Dal Vaticano è già arrivato l’altolà del prefetto della congregazione per la Dottrina della fede, monsignor Gerhard Ludwig Müller, che ha accusato gli ottocento sacerdoti di volersi costruire una propria chiesa, “secondo i propri gusti e in sintonia con lo spirito del tempo”. Don Feser, il portavoce, rispedisce al mittente i severi ammonimenti del custode dell’ortodossia cattolica: “La nostra intenzione è solo quella di chiarire che le strutture non sono qualcosa di prefissato, bensì si costruiscono”.
Anche le strutture della Chiesa, dunque, “si possono cambiare, perché l’unica cosa importante è il messaggio di Cristo”. Già nel 2010, Iniziativa parroci aveva promosso un sondaggio tra i preti austriaci sull’abolizione del celibato del sacerdozio: ben l’ottanta per cento aveva risposto favorevolmente. L’anno dopo, duecentocinquanta sacerdoti firmavano un appello in cui si chiedeva l’ammissione delle donne all’ordine sacro e già allora, anticipando il dibattito serrato di queste settimane tra l’episcopato tedesco, si dicevano pronti a concedere la comunione ai divorziati. Una sfida aperta nei confronti di Roma, con l’allora portavoce, Helmut Schüller, che tuonava: “Il Vaticano non può imporre le proprie convinzioni ai preti austriaci”.
Anche allora, Iniziativa parroci mostrava i dati di una consultazione secondo la quale il cinquantadue per cento dei parroci ammetteva di pensarla in modo diverso da Roma su “importanti questioni di fede e pastorale”. Non si trattava solo di celibato sacerdotale o di donne prete, possibilità per altro già escluse più volte da Francesco nelle sue interviste e nell’esortazione apostolica “Evangelii Gaudium”. Quasi la totalità dei sacerdoti austriaci invocava anche più attenzione alla “formazione umana” dei preti in seminario, i quali avrebbero dovuto dimostrare di essere pronti a rapportarsi con maggior fiducia e più apertura al mondo moderno. Sulla pastorale matrimoniale, poi, non si fatica a scorgere punti di contatto con i propositi dei combattivi vescovi tedeschi, decisi a imprimere un’accelerazione decisiva all’approvazione delle nuove linee guida su famiglia e matrimonio già in occasione dell’assemblea plenaria del prossimo marzo.
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Il magistero parallelo dei teologi italiani
I commenti letti nei giorni scorsi sull’opera del teologo morale don Enrico Chiavacci, morto due settimane fa, mettono in rilievo una grande confusione tra ciò che è fedele alla dottrina della Chiesa e le opinioni dei singoli teologi. Come nel caso della legge morale naturale: la concezione di Chiavacci è in aperto contrasto con il magistero, ed è fonte di pericolose ambiguità che aprono, tra l’altro, all’ideologia di genere.
di Giorgio Maria Carbone (09-09-2013)
Il 25 agosto scorso è morto a Firenze, all’età di 87 anni, don Enrico Chiavacci. È un nome che ai più forse non dirà molto, eppure è stata una figura che ha avuto un ruolo importante nella teologia morale italiana. Le sue posizioni sono apparse spesso in contrasto con quanto affermato dal Magistero, ma ciò non ha impedito che fosse per decenni docente nella facoltà di Teologia dell’Italia centrale e i suoi scritti hanno influenzato generazioni di sacerdoti e teologi. Ma ciò che colpisce sono i commenti letti in occasione della sua morte, in cui don Chiavacci appare sorprendentemente una sorta di “custode dell’ortodossia”. Basterebbe leggere i passi dell’omelia dell’arcivescovo di Firenze, cardinale Giuseppe Betori, al suo funerale, riportati da Avvenire («C’è una stretta connessione tra la limpidezza delle intenzioni nel trasmettere la Parola e la correttezza oggettiva dei suoi contenuti»), oppure la testimonianza di Gianni Gennari su Vatican Insider («Fedele alla dottrina….»). Senza voler giudicare la persona e le sue intenzioni, non si può però tacere che il contenuto della teologia morale di don Chiavacci non è affatto in sintonia con la dottrina e il Magistero, e non certo su questioni secondarie, come peraltro dimostra il breve saggio di padre Giorgio Carbone che qui pubblichiamo. La questione va ben oltre la teologia di don Chiavacci, è un problema molto più generale perché non è la prima volta che accade, e dimostra l’esistenza di un vero e proprio “magistero parallelo” che da anni si insegna nei seminari e nelle facoltà teologiche e che, oltretutto, riceve l’avallo anche di diversi vescovi. Con grande confusione per i semplici fedeli.
«La vera natura dell’uomo è il non aver natura»: questa tesi, enunciata a modo di slogan, la ritroviamo in molti scritti di don Enrico Chiavacci. Letteralmente è nella voce Legge naturale (in L. Rossi e A. Valsecchi (edd.), Dizionario enciclopedico di teologia morale, Paoline 1973, p. 491): «L’uomo non è definibile se non come colui che tende verso, che ha il compito di scegliere se stesso e il proprio cammino di autorealizzazione. La vera natura dell’uomo è il non aver natura. In queste condizioni dedurre dalla natura umana precetti operativi descrivibili e imponibili dall’esterno, dal filosofo, dal sovrano, dallo stesso Magistero ecclesiastico è impensabile». Ma anche più recentemente: «Quando si parla di natura e per conseguenza di legge naturale occorre sempre tenere presente che la natura non è un dato fisso e immutabile valido per tutti e per sempre: è un dato che varia e varia per due motivi. Varia costantemente, anche se in modo impercettibile, con l’evoluzione continua della specie nelle varie aree ambientali e culturali in cui la specie umana sussiste. Varia però anche da individuo a individuo nelle complesse strutture cerebrali e nella loro interazione che oggi la scienza comincia a comprendere e indagare» (Omosessualità, un tema da ristudiare, in Rivista di teologia morale 2010, p. 474).
La presentazione della nozione di natura umana come qualcosa di vago e privo di un contenuto preciso è funzionale a ottenere un risultato: negare il carattere oggettivo, universale e immutabile della legge morale naturale. Di fatti troviamo scritto: «Caratteristica dunque della legge naturale è proprio quella di non essere positiva, cioè non scritta né scrivibile una volta per tutte» (Legge naturale, in L. Rossi e A. Valsecchi (edd.), Dizionario enciclopedico di teologia morale, Paoline 1973, p. 486).
Anche il manuale Teologia morale. Morale generale (Cittadella 1977, pp. 132-153), esprime queste stesse idee. In particolare respinge l’idea della legge morale come insieme di precetti, per il fatto che – a suo dire – il precetto limita l’ambito di esercizio della libertà umana ed è incompatibile con la nozione di coscienza.
Nel leggere questi testi si ha la sensazione di trovarsi davanti a giochi di parole, al compiacimento dell’ambiguità e dell’equivoco. Comunque meraviglia che non ci siano delle definizioni. Eppure un manuale o delle voci di enciclopedie dovrebbero muovere qualsiasi ragionamento proprio da definizioni.
Ebbene il primo equivoco è sul concetto di natura umana rilevante ai fini del discorso etico. Per natura umana non si intende ciò che l’uomo condivide con la natura, cioè qualche caratteristica corporea o la solidarietà con il cosmo. Ma la “natura umana” eticamente rilevante è ciò che caratterizza l’essere umano, rispetto agli altri viventi, e che è all’origine del suo agire. La “natura umana” è il principio essenziale e operativo di ognuno di noi e consiste nella capacità di conoscere e amare gli obiettivi (cioè i fini) della propria vita, sia in astratto che in concreto. In secondo luogo ogni uomo, attraverso l’esperienza conoscitiva e affettiva di se stesso, giunge a conoscere i fini della propria esistenza: questi fini sono segnalati da inclinazioni strutturali e native. Ad esempio l’inclinazione a conservarsi nell’esistenza segnala come fine e bene da compiere (quindi bene morale) l’esistenza fisico-corporea. Poi l’inclinazione a conoscere il reale segnala un altro fine umano e cioè la conoscenza del vero. Quindi, l’inclinazione a vivere in società e ad amare segnala altri fini come l’amore fraterno e l’amore sponsale. Ora la natura umana come sopra definita e i fini segnalati dalle inclinazioni strutturali dell’essere umano sono elementi universali che possiamo riconoscere nelle civiltà umane che si sono succedute nei secoli. E quindi costituiscono l’ossatura del carattere universale e immutabile della legge morale naturale.
Il secondo equivoco è relativo al presunto carattere non precettivo della legge morale naturale. Stupisce che questi molteplici testi dedicati al tema citino sì Tommaso d’Aquino, ma non citino mai questi suoi laconici insegnamenti: «lex non est aliud, nisi dictamen rationis, la legge non è altro che un dettato della ragion pratica» (Somma teologica I-II, 91, 1 e 2); «lex est ordinatio rationis, la legge è un ordinamento della ragione» (Somma teologica I-II, 90, 2 e 4); «lex naturalis est aliquid per rationem constitutum, la legge morale naturale è qualcosa prodotto dalla ragione» (Somma teologica I-II, 94, 1). Le citazioni potrebbero facilmente moltiplicarsi. Ma vogliono dire sempre la stessa cosa: la legge morale, e in particolare la legge morale naturale è un prodotto della ragion pratica, cioè è un enunciato, un giudizio (soggetto, copula e predicato) nel quale il soggetto è un atto umano e il predicato è espresso in termini gerundivi, cioè «da farsi» o «da evitarsi». Quindi, la legge morale naturale si pone come un progetto che precede e orienta un’attività libera e responsabile, sollecita la libertà umana, non la soffoca, ma la conduce al bene integralmente umano.
La legge morale naturale è un insieme di enunciati universali espressi sempre alla forma gerundiva e non va confusa – come sembra facciano i testi di Chiavacci – con il giudizio di prudenza e con il giudizio di scelta. Questi ultimi due giudizi riguardano un atto singolare e concreto: in particolare la virtù cardinale della prudenza dà all’intelletto pratico l’abilità nel formulare il giudizio direttivo dell’atto singolare. Tale giudizio (di prudenza e di scelta) non è semplice deduzione logica, ma è applicazione della legge morale alle circostanze concrete e singolari. È una conclusione che presenta aspetti nuovi e originali, perché alla formulazione di tale giudizio concorrono gli habitus morali personali, le passioni, la volontà di applicare la scienza etica, chiarezza conoscitiva circa la situazione particolare.
Al di là di queste chiarificazioni, un paragrafo (il n. 53) della lettera enciclica del beato Giovanni Paolo II, Veritatis splendor, sembra proprio rispondere al nostro tema: «La grande sensibilità che l’uomo contemporaneo testimonia per la storicità e per la cultura conduce taluni a dubitare dell’immutabilità della stessa legge naturale, e quindi dell’esistenza di “norme oggettive di moralità” valide per tutti gli uomini del presente e del futuro, come già per quelli del passato: è mai possibile affermare come valide universalmente per tutti e sempre permanenti certe determinazioni razionali stabilite nel passato, quando si ignorava il progresso che l’umanità avrebbe fatto successivamente? Non si può negare che l’uomo si dà sempre in una cultura particolare, ma pure non si può negare che l’uomo non si esaurisce in questa stessa cultura. Del resto, il progresso stesso delle culture dimostra che nell’uomo esiste qualcosa che trascende le culture. Questo “qualcosa” è precisamente la natura dell’uomo: proprio questa natura è la misura della cultura ed è la condizione perché l’uomo non sia prigioniero di nessuna delle sue culture, ma affermi la sua dignità personale nel vivere conformemente alla verità profonda del suo essere. Mettere in discussione gli elementi strutturali permanenti dell’uomo, connessi anche con la stessa dimensione corporea, non solo sarebbe in conflitto con l’esperienza comune, ma renderebbe incomprensibile il riferimento che Gesù ha fatto al «principio», proprio là dove il contesto sociale e culturale del tempo aveva deformato il senso originario e il ruolo di alcune norme morali (cf. Mt 19,1-9). In tal senso “la Chiesa afferma che al di sotto di tutti i mutamenti ci sono molte cose che non cambiano; esse trovano il loro ultimo fondamento in Cristo, che è sempre lo stesso: ieri, oggi e nei secoli”. È lui il “Principio” che, avendo assunto la natura umana, la illumina definitivamente nei suoi elementi costitutivi e nel suo dinamismo di carità verso Dio e il prossimo. Certamente occorre cercare e trovare delle norme morali universali e permanenti la formulazione più adeguata ai diversi contesti culturali, più capace di esprimerne incessantemente l’attualità storica, di farne comprendere e interpretare autenticamente la verità. Questa verità della legge morale – come quella del “deposito della fede” – si dispiega attraverso i secoli: le norme che la esprimono restano valide nella loro sostanza, ma devono essere precisate e determinate “eodem sensu eademque sententia” secondo le circostanze storiche dal Magistero della Chiesa, la cui decisione è preceduta e accompagnata dallo sforzo di lettura e di formulazione proprio della ragione dei credenti e della riflessione teologica».
Le premesse vaghe e ambigue da cui siamo partiti conducono, senza però dirlo esplicitamente, verso soluzioni altrettanto vaghe circa questioni di morale sessuale.
Noto solo un particolare stridente. Mentre il nostro Autore parla di una «nuova rigidità» del magistero della Chiesa, cioè «un magistero morale con rigorose normative su specifici comportamenti», primo esempio sarebbe a suo dire la Casti connubi di Pio XI (così in La legge naturale: strumento necessario e urgente ma difficile da maneggiare, in Rivista di teologia morale, 2008, p. 335). Lo stesso Autore accetta come «certezza scientifica» il fatto che «la condizione omosessuale è stata ufficialmente tolta dall’elenco delle psicopatologie» (in Omosessualità, un tema da ristudiare, in Rivista di teologia morale 2010, p. 473). Quando invece è risaputo che nel 1993 l’American Psychiatric Association con una votazione a stretta maggioranza, e senza alcuna evidenza di carattere scientifico, tolse l’omosessualità dalla successiva edizione del Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM): e la questione è ancora dibattuta.
Inoltre, il nostro Autore definisce il fenomeno della transessualità come «realtà incontrovertibile e praticamente immutabile» (in Omosessualità, un tema da ristudiare, in Rivista di teologia morale 2010, p. 475). Quando invece sono noti nella letteratura specialistica casi di persone affette da transessualismo che grazie a percorsi terapeutici sono riuscite ad accettare il proprio corpo, e quindi la disforia di genere è cessata.
Quindi, molti affermazioni gratuite e – per esser buoni – discutibili.
LA DISOBBEDIENZA DEI SUPERIORI
di P. Giovanni Cavalcoli, OP (24/08/2013)
Gli anziani come me ricordano bene l’agitato, chiassoso e scomposto periodo della cosiddetta “contestazione” soprattutto giovanile degli ambienti universitari civili ma anche ecclesiastici della fine anni ’60, che vagamente e confusamente si richiamavano al Concilio Vaticano II scambiato per una specie di Rivoluzione Francese o palingenesi universale dell’umanità, ma con agganci anche ad altri pensatori sedicenti innovatori, come per esempio il teologo Harvey Cox o i “teologi della morte di Dio” per i credenti o il famoso sociologo Herbert Marcuse per i non-credenti e i cattolici sedicenti “aperti”, mentre i comunisti più o meno scopertamente soffiavano sul fuoco o facevano da bordone con i soliti pretesti della liberazione dei lavoratori oppressi dall’oppressione capitalista.
E’ quel fenomeno diffusosi nel mondo occidentale, che è rimasto alla storia col nome di ’68, iniziato negli Stati Uniti all’Università di Berkeley e poi trapiantato a Parigi con l’ancora più famoso “maggio 1968”, dove si vedevano gli studenti dare l’assalto tra le barricate all’Università come i giacobini dettero l’assalto alla Bastiglia.
Io ho vissuto in pieno quel periodo perché allora mi trovavo a studiare filosofia all’Università di Bologna. Quello che allora maggiormente si notava, che turbava e preoccupava l’ambiente civile ed ecclesiale legato nella stragrande maggioranza ad un certo rispetto per le autorità, abituato ad un comportamento sociale tranquillo ed ordinato, erano i frequenti ed impressionanti episodi di spavalda e tracotante disobbedienza e ribellione alle istituzioni della Chiesa e dello Stato, come erano per esempio in campo civile le manifestazioni di studenti all’Università che impedivano il regolare svolgimento delle lezioni, cortei di protesta per le strade urlando l’odio di classe sotto al spinta dell’estremismo comunista.
Di lì a poco sarebbero iniziati i cosiddetti “anni di piombo” per l’azione sediziosa e criminale delle Brigate Rosse, mentre in campo ecclesiastico, anche se naturalmente non con tale violenza, analoghe manifestazioni di ribellioni a docenti e superiori, preti che dichiaravano all’omelia della Messa di volersi sposare, teologi sorpresi nudi sulla spiaggia come fu il caso del famoso Edward Schillebeecxk, teologi come Karl Rahner, affiancati dalla tacita o velata complicità di alcuni Episcopati nazionali, i quali rifiutavano come sbagliato l’insegnamento di Paolo VI contenuto nell’enciclica Humanae Vitae.
Tutto ciò avvenne in nome del rinnovamento della cultura e dell’autonomia degli studenti nei confronti di quelli che allora si chiamavano i “baroni”, assai semplicemente gli insegnanti, sulla base di una concezione della cultura – ho vissuto in prima persona questi avvenimenti –, per la quale lo studente è perfettamente alla pari del professore, ossia non ha nulla da imparare da lui, soprattutto se si tratta di contenuti tradizionali, ma il rapporto studente-professore doveva limitarsi ad un “dialogo” nel quale, se lo studente poteva anche apprendere dall’insegnante, anche questi però doveva accettare quello che diceva lo studente.
Nacque l’uso di interrompere l’insegnante durante la lezione per manifestare critiche e dissenso. Nei posti più educati invece l’intervento dello studente, come era già nell’antica tradizione della scolastica medioevale (le quaestiones quodlibetales), serviva a chiarire questioni anche per il bene della classe. Si introdusse la pratica dei cosiddetti “seminari di studio”, nei quali lo studente aveva una parte organizzativa facendo già tirocinio di insegnamento nei confronti degli altri studenti, sia pur sempre assistito dal professore, qualcosa di simile al medioevale baccalaureus, uno studente intermedio fra il docente e il resto della classe. La grande rivoluzione sessantottina recuperava antiche tradizioni medioevali!
Tuttavia, in un clima di relativismo culturale, quale quello di allora e tipico della modernità, non erano generalmente ammesse verità oggettive comuni, ma i contenuti della cultura dovevano emergere dal “confronto dialettico” in continua evoluzione, dove ogni risultato, mai del tutto scontato, certo e definitivo, poteva sempre esser messo in discussione da quello successivo.
Naturalmente gli studenti in questa rivoluzione non avevano tutti i torti e non erano assenti autentici maestri e formatori ed anche il ’68 non fu privo di aspetti positivi nel sottolineare la responsabilità e l’iniziativa personale dello studente nella propria formazione, mentre certamente idee nuove penetravano nel mondo dell’Università, più favorevoli ad una comunicazione tra studenti e docenti.
Adesso non si doveva più sottostare all’insegnante come a un dio in terra, ma era ammesso proporre o anche imporre ai docenti alcune alternative o limitazioni di potere concordate attraverso trattative e nel reciproco rispetto. Allo studente venivano concesse facoltà di mutare anche i programmi per ragionevoli motivi. L’insegnante doveva tener maggior conto della considerazione nella quale era tenuto dagli studenti. E gli insegnanti più saggi ed aggiornati rinunciavano a certi privilegi che consentivano loro di avere un eccessivo potere sugli studenti.
Avvenivano comunque all’Università agitatissime ed affollatissime riunioni di cinque o sei ore, fino alle cosiddette “occupazioni”, che duravano anche giorni, al termine delle quali, dopo una successione di martellanti e strillanti slogan marxisti, anarchici, maoisti e rivoluzionari, non si concludeva assolutamente nulla e chi pretendeva una conclusione certa e chiara appariva un reazionario, servo dei padroni.
Quanto alla situazione ecclesiale, imparai molto dal libro del Maritain Le Paysan de la Garonne, nel quale egli, con dovizia di documenti e fine umorismo, denunciava il ritorno di modernismo assai peggiore di quello dei tempi di S.Pio X, per una pretestuosa interpretazione del Concilio Vaticano II, che i neomodernisti facevano a loro vantaggio. Quasi nessuno ascoltò il grido di allarme del grande pensatore francese (che non fu il solo!) e per questo oggi ci troviamo nell’attuale situazione disastrata. E sì che Maritain non era un conservatore!
In mezzo a questa confusione e a questi disordini, trovai molta luce e conforto nella tradizione e nella dottrina della Chiesa, compresa quella conciliare e postconciliare. Ero un grande ammiratore di Papa Giovanni e Paolo VI. Proprio in quegli anni nei quali i sovversivi che si dichiaravano vittime dei baroni, preconizzavano una nuova società libera da qualunque autoritarismo, dove loro sarebbero stati i protagonisti e servi del popolo (i vari Capanna, Cohn-Bendit, Margherita Cagol, Toni Negri, ecc.), io studiavo Maritain, Gilson, Garrigou-Lagrange, S.Agostino, S.Bernardo, S.Bonaventura e S.Tommaso, insieme con i documenti della Chiesa con immensa gioia e frutto spirituale. Sentivo nella mia anima una perfetta consonanza e risonanza di quei sublimi insegnamenti e quindi la lealtà e l’onestà, la persuasività e la fondatezza delle loro motivazioni ed esposizioni.
Così maturò in me la vocazione domenicana ed entrai in convento a Bologna nel 1971. Fu allora che mi accorsi quanto il modernismo e la sovversione, sotto falso pretesto di “progresso”, avevano turbato e stavano turbando la Chiesa, dove avvenivano episodi di ribellione simili a quelli che stavano accadendo nella società civile, anche se certo non con la medesima violenza. Ma c’era una violenza più sottile: quella dell’inganno nel campo della fede e della teologia.
Nel contempo constatavo con sgomento il proliferare di errori tra teologi di grido senza che i vescovi intervenissero. Rari ed inefficaci gli interventi di Roma. Erano presi solo i pesci piccoli. Ed io mi domandavo: come mai? Ma che ci stanno fare i superiori? In tal modo gli errori si spargevano a piene mani in tutti gli ambienti ecclesiali: dalla famiglia, alla scuola, negli ambienti di lavoro, nella cultura, nelle parrocchie, nei movimenti, nelle istituzioni accademiche, come un’alluvione fangosa che all’inizio di basso livello, poi cresce e cresce sino a salire ai piani superiori delle case. O, all’inverso, come una seduzione fascinosa che sempre più avvolge fino a far perdere la testa e l’oggettività dello sguardo.
O in altre parole: una “sporcizia”, come avrebbe detto Benedetto XVI trent’anni dopo, che giungeva a contaminare vescovi, superiori, docenti ed educatori, i quali o non si rendevano conto di cosa stava succedendo o lo consideravano con un sorrisetto di compatimento o non facevano niente per non dire che alcuni erano conniventi o nascostamente o apertamente.
Certo Roma continuava sempre ad essere il faro e il centro del comando. Ma mentre il faro continuava ad illuminare – e questo come potrebbe non essere? – viceversa il comando diventava sempre più debole e disatteso da coloro stessi, collaboratori, pastori e superiori, che avrebbero dovuto trasmettere gli ordini alla base. E solo a questo titolo potevano esigere di esser obbediti a loro volta dai sudditi o dagli inferiori.
L’avvento di Giovanni Paolo II pose termine agli anni di piombo, all’espansione del comunismo ed alle manifestazioni intraecclesiali plateali, eclatanti e violente contro la gerarchia, la Chiesa, il Papa e il Magistero. Ma non smise un lavoro o sotterraneo o anche palese da parte dei teologi e moralisti modernisti nel portare avanti il loro programma di secolarizzazione della Chiesa e le loro idee sovversive nella formare i giovani.
Qui purtroppo il Pontificato di questo grande Papa non poté far nulla. Egli si dedicò con grande impegno e prodigiosa energia, senza risparmio di forze, ad un’opera mondiale e spettacolare di evangelizzazione con i suoi numerosissimi viaggi e contatti con un’infinità di persone, ma dedicò assai poco tempo a uno studio attento ed approfondito come soltanto il Papa avrebbe potuto e dovuto fare, dei principali problemi dottrinali e morali della Chiesa, onde fornire quei rimedi che solo il Papa avrebbe potuto offrire, ed a fornire la S.Sede di collaboratori competenti, coraggiosi e disinteressati, soprattutto nel campo della custodia della retta fede, sicché il modernismo cominciò di soppiatto a penetrare anche nelle stanze dei bottoni.
Il Papa aveva sempre sulla bocca il problema dei giovani, e aveva con essi una grande capacità di contatto umano, ma purtroppo la formazione seminariale ed accademica, nonché quella degli studentati religiosi restava in gran parte nelle mani dei modernisti, per esempio i rahneriani. Quali preti e quali vescovi, quali educatori di giovani potevano uscire da questi formatori? Quale concetto dell’obbedienza potevano dare questi formatori, loro che per primi erano disobbedienti alla Chiesa? Lo vediamo oggi.
Ed anzi che cosa successe soprattutto verso la fine del pontificato di Giovanni Paolo II? Che quella debolezza di governo che si era cominciata a notare con Paolo VI, che parlava di “magistero parallelo”, aumentò ulteriormente e ci fu un vero salto di qualità.
Quale? Che fino ad allora la diffusione del modernismo, non repressa come si sarebbe dovuto fare, si era limitata alla sola contaminazione delle intelligenze, e quindi era rimasta ad uno stadio solo teorico, senza conseguenze nel governo della Chiesa, mentre d’altra parte i fedeli sudditi della Chiesa, teologi e buoni pastori, godevano tutto sommato della libertà di confutare i modernisti e di diffondere la sana dottrina in obbedienza al Magistero, dando essi stessi esempio di obbedienza.
Invece, con la fine degli anni ’90 e l’inizio del 2000, i modernisti cominciarono a raggiungere posti di potere sempre più numerosi ed elevati, dai quali potevano imporre con la forza e le minacce quelle idee modernistiche che avevano liberamente assorbito dai loro maestri negli anni o del seminario o della formazione religiosa o dell’Università, intralciando e fermando nel contempo il lavoro dei fedeli obbedienti al Magistero e al Papa, i quali hanno sempre più cominciato a sembrare dei “disobbedienti”, ma disobbedienti ovviamente non al Magistero ma ai superiori modernisti.
Così i sessantottini diventati vescovi o superiori si stanno mostrando ben più duri ed autoritari dei vecchi “baroni”, che essi forse con sincerità avevano contestato da giovani, mentre i vescovi del preconcilio potevano essere sì severi, ma almeno lo facevano in nome della retta fede e dell’obbedienza alla Chiesa. Invece questi nuovi superiori, contrari all’inquisizione medioevale (del resto giustamente), hanno poi istituito clandestinamente una nuova inquisizione, senza alcuna ragione giuridica, ma basata solo sulla loro prepotenza, per imporre con la forza la linea del modernismo.
Così oggi avviene che quegli stessi che trenta o quarant’anni fa con arroganza e sicumera, dai banchi del seminario o dell’Università si ribellavano ai maestri accusati di autoritarismo reazionario, presentandosi come paladini della libertà dello studio, antesignani del progresso della cultura e del futuro della Chiesa, nonchè profeti delle “comunità di base”, adesso che hanno raggiunto il potere dopo infinite vergognose adulazioni e “obbedienze” ai maestri modernisti, considerano i loro propri comandi come precetti divini, disobbedendo ai quali piovono sul ribelle i più rigorosi castighi per aver offeso nel superiore la presenza di Cristo, quando loro stessi per primi se ne infischiano di Papi, di Santi e di Magistero, certi dell’impunità ed anzi coccolati da tutta l’ideologia laicista, massonica o modernista come uomini del dialogo, della tolleranza e del rispetto del diverso.
I loro protetti sono personaggi intoccabili, per cui chi osa criticarli scandalizza i loro devoti, meglio dire fanatici, più che se un credente vedesse profanata l’eucaristia. Viceversa i buoni cattolici sono trattati come pezze da piedi col massimo dispregio, come dementi e indegni di qualunque risposta, anche perché tali superiori, non avendo argomenti seri, non sanno controbattere alle loro obiezioni.
Per quanto un suddito faccia presente con rispettato, lealtà e competenza difficoltà od obbiezioni alle direttive di questi superiori con riferimento alla dottrina della Chiesa o la Magistero del Papa, questi superiori non ascoltano ragione, come se il loro verbo fosse la verità assoluta e la via necessaria della salvezza, castigando questi sudditi che in realtà non desiderano altro che obbedire ad un superiore decente ed obbediente. Accade così che a chi disobbedisce alla Chiesa non capita nulla, ma a chi disobbedisce al superiore modernista, si salvi chi può.
Come uscire da questa situazione gravissima, da questo male spaventoso? Ormai le forze della disobbedienza autolegalizzata sono tali che la S.Sede e i buoni vescovi non sono assolutamente in grado di governare tale la situazione.
Non resta che sperare in una resipiscenza dei responsabili, che in fin dei conti sono rivestiti quasi sempre di autorità legittima (non stiamo a verificare) e dovrebbero sapere qual è il loro dovere. Siano essi pronti ad ascoltare la loro coscienza e, rinunciando ad ogni ambizione e smania di potere, vogliano, con l’ispirazione dello Spirito Santo e l’intercessione della Beata Vergine Maria, temere l’incombente castigo divino e, mossi da un sincero spirito di pentimento, esercitare la loro sacra missione con autentico spirito di servizio alla verità e al bene delle anime.
Sesso, quando la suora ne è malata
«Non sono d’accordo con la Chiesa su questo argomento». È sufficiente questa brevissima frase, inserita da suor Marie-Paul Ross a pagina 34 del suo Parliamo di sesso – Perché la Chiesa non deve temere l’eros (Piemme, 2013) per inquadrare questo volume nella giusta prospettiva. Un libro scritto da una suora non fedele al Magistero («Conformarmi alle regole per me è un incubo!», afferma lei stessa, p. 13), che tranne alcuni (rari) barlumi di assennatezza si pronuncia in maniera totalmente difforme alla Chiesa su temi quali la contraccezione, l’aborto, il divorzio, il matrimonio dei sacerdoti… e l’elenco potrebbe continuare. Un testo, insomma, che genera confusione tra i fedeli e che, attraverso le parole di una suora, presenta come accettate da parte della Chiesa opinioni in netto contrasto con l’insegnamento dei Vangeli. Suor Marie-Paul Ross è una suora della congregazione delle “Missionarie dell’Immacolata Concezione”, ma soprattutto è una sessuologa convinta che le persone «non hanno soltanto bisogno di evangelizzazione» (p. 9), bensì hanno bisogno di qualcuno che le aiuti ad avere «una sessualità sana e responsabile» (p. 9), in quanto «l’educazione sessuale è essenziale per mantenere un popolo in buona salute» (p. 39).