Fumagalli, teologia tra equivoci e forzature

Tace l’essenziale sulla natura del matrimonio, espelle le azioni intrinsecamente cattive, equivoca le norme morali negative e ammette un bene possibile, ma senza la Grazia divina. L’analisi del libro di don Aristide Fumagalli nella collana dei libri sulla teologia di Papa Francesco.

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Altro che continuità, qui c’è una voragine

La vera storia degli undici libretti sulla “teologia” di papa Francesco.

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Quando il «colloquium» diventa un vocabolo a-patico

Tutto cominciò con l’enciclica “Ecclesiam Suam” (1964) di Paolo VI. Poi ci si mise di mezzo il postconcilio e nonostante i vari tentativi di precisazione, come quello di De Lubac o di Ratzinger, il termine “dialogo” continua ad essere ambiguo, inteso come atematico e apatico.

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Caritas in Veritate. Riflessioni sul caso “Livi-Bianchi”

di Giovanni Covino, da Campari e de Maistre (29/04/2012)

Il Santo Padre Benedetto XVI conclude la premessa al suo libro Gesù di Nazaret con parole che manifestano un atteggiamento di profonda umiltà: il Pontefice afferma, infatti, che questo suo lavoro è «unicamente espressione della ricerca personale» e «in alcun modo un atto magisteriale», quindi «ognuno è libero contraddirmi». Tali parole mi hanno fortemente colpito, anche perché la lettura di queste righe è avvenuta nel giorno in cui lo stesso Benedetto XVI celebrava la Santa Messa Crismale, durante la quale ha richiamato la virtù dell’obbedienza, indicando in essa, per l’ennesima volta, l’unica via per un autentico rinnovamento.

Ora, sia le parole della prefazione su richiamate, sia quelle seguenti dell’omelia,  aprono ad una seria riflessione su quello che è stato chiamato il “caso Livi”, cioè su quel caso esploso dopo che mons. Antonio Livi, appunto, ha pubblicato un articolo su La Bussola Quotidiana con il titolo Falsi profeti, dove prende in esame le riflessioni fatte da Enzo Bianchi sulle “tentazioni di Cristo”, e  pubblicate lo scorso 4 marzo su Avvenire. Come più volte ha ripetuto Livi nei suoi successivi interventi, il giudizio dato non è contro Bianchi «come persona ma contro la sua “fama di santità”, ossia contro la presentazione che se ne fa come di un vero mistico, di un autorevole interprete della Scrittura, di un venerato maestro di dottrina cristiana, di un eroico combattente per la riforma della Chiesa e per l’ecumenismo.» 

Bisogna tener ben presente questo punto per evitare di far scivolare le giuste osservazioni del filosofo toscano in una vuota polemica di carattere ideologico, che non serve a nessuno. Queste considerazioni devono essere lette in opposizione ad una mentalità che oramai trova larghi consensi tra gli stessi cattolici, ovvero la convinzione di poter essere interpreti infallibili della Scrittura sostituendosi così al Magistero, e di arrogarsi il diritto di giudicare come errate le posizioni della stessa Santa Madre Chiesa. Livi insomma non ha fatto altro che far notare, da pastore, pubblicamente, gravi errori in materia di fede, che pubblicamente Bianchi ha divulgato, e di più sul quotidiano della Conferenza Episcopale Italiana. A ciò si aggiunga che spesso Bianchi si è soffermato, in alcuni articoli, sulla figura di Hans Küng, noto teologo dissidente, e non certamente per prenderne le distanze. È ovvio che nessuno proibisce al priore di Bose di parlare con e di Hans Küng, ma la situazione cambia completamente se viene fatto pubblicamente di lui un elogio, come è avvenuto in un articolo dello scorso 11 marzo, uscito su La Stampa. Il titolo dell’articolo, Hans Küng, l’occasione sprecata dalla Chiesa, è emblematico, in quanto già mostra, con l’espressione “occasione sprecata”, una vena polemica dell’autore nei confronti del giudizio della Chiesa, come se fosse un optional per la Sposa di Cristo custodire e difendere il depositum fidei. Visto che, la custodia della santa fede, non è una cosa superflua, bisognava, piuttosto, dire che l’occasione è stata sprecata non dalla Chiesa, ma dallo stesso Küng che, pubblicando una nuova edizione del suo Essere cristiani, non ha accolto ancora il materno “monito”, pronunciato il 15 febbraio del 1975, di ritornare a praticare la teologia nel modo giusto, come si conviene a un cattolico (cfr. Congregazione per la dottrina della fede, Monitum del 15 febbraio 1975: cfr. Enchiridion Vaticanum, vol. V, § 1090).

Ora, volendo leggere gli interessi di Bianchi verso il teologo dissidente,  protestanti, non credenti ecc., in relazione al dialogo e all’apertura, e quindi come atto caritatevole, non bisogna dimenticare  che la carità non va disgiunta dalla verità, pena il venir meno della stessa carità; a tal proposito leggiamo in un documento del Concilio Vaticano II che «bisogna assolutamente esporre con chiarezza tutta intera la dottrina», evitando dunque ambiguità di ogni genere, nella consapevolezza che «niente è più alieno dall’ecumenismo che quel falso irenismo, che altera la purezza della dottrina cattolica e ne oscura il senso genuino e preciso» (Concilio Ecumenico Vaticano II, Decreto sull’ecumenismo Unitatis redintegratio, n. 11.), insegnamento prezioso, che richiama alla mente il Vangelo di Giovanni, quando Nostro Signore parla di se stesso come il “pane della vita” e invita a cibarsi del suo Corpo e del suo Sangue: molti andarono via per la durezza del linguaggio, ma non per questo Gesù lo “addolcì” (Gv, 6, 1-71).

Come si può notare le mie riflessioni, mettono in evidenza che le considerazioni di Livi vanno al di là delle pagine di Avvenire, per inserirsi in scia alle preoccupazioni dello stesso Benedetto XVI circa la situazione della Chiesa: nel suo ultimo lavoro, Vera e falsa teologia, infatti, il filosofo toscano si è impegnato nel delicato compito di «verificare se un discorso su Dio e sulla religione rispetti lo statuto epistemologico di un’autentica “scienza della fede”» e per far ciò ha compiuto una “risalita epistemica”, cioè ha individuato dei presupposti che rendono logicamente accettabile le tesi che vengono formulate da chi si professa teologo. Nelle pagine centrali del trattato Livi esplicita i presupposti per una corretta elaborazione teologica e dichiara: «Il più importante dei criteri per effettuare in teologia una corretta ermeneutica del dogma è dunque l’attenta individuazione del nucleo dogmatico proprio di ogni tema teologico attraverso il sistematico riferimento alla Tradizione, alla Scrittura e al Magistero». Questo importante criterio didiscernimento non può non essere tenuto presente da tutti i cattolici, in particolar modo da chi ha importanti responsabilità pastorali, solo in tal modo si può evitare di aggiungere confusione a confusione e cominciare una vera opera di evangelizzazione.

È ovvio, dunque, che le preoccupazioni di Livi non sono legate ad una sterile critica nei confronti del priore di Bose, piuttosto esse si volgono a quel fenomeno diffuso -come già richiamato – di far passare per autentica teologia ciò che si allontana dalla dottrina di Cristo, fedelmente custodita nei secoli dalla Chiesa. Molti sono gli studiosi a cui possiamo far riferimento circa tale atteggiamento: oltre al già citato Hans Küng, anche i tedeschi Karl Rahner e Klaus Hemmerle, ma anche gli italiani Piero Coda e Vito Mancuso, autori la cui metodologia di studio viene minuziosamente esaminata da Livi nel suo ultimo lavoro epistemologico, dove emerge chiaramente che le tesi formulate da questi (e da altri vari autori) non possono qualificarsi come teologiche, e non perché lo dice Livi, ma solo perché tali tesi possono dirsi propriamente teologiche (e quindi utili al rafforzamento della fede dei cattolici) solo quando risultano conformi alla prime verità costituite dal dogma, ossia dalla Parola di Dio così come viene proposta infallibilmente dalla Chiesa.

Incompatibilità tra teologia cattolica e filosofia hegeliana

Mons. Antonio Livi, decano emerito di filosofia alla Pontificia Università Lateranense, allievo di Etienne Gilson, offre a Disputationes una riflessione sulle conseguenze del dilagare della filosofia hegeliana in ambito teologico.  La familiarità con la philosophia perennis che ha lungamente insegnato ne fa uno dei maggiori epistemologi tomisti; ha recentemente dato alle stampe un testo che vuole andare alle radici concettuali dell’attuale crisi dottrinale: il problema prima ancora che teologico è filosofico. Nel suo recentissimo “Vera e falsa teologia. Come distinguere l’autentica scienza della fede da un’equivoca filosofia religiosa” denuncia la “teologia” di Teilhard de Chardin, Karl Rahner, Hans Küng e Klaus Hemmerle; egli afferma che è suo compito di filosofo quello di mostrare “falsa” la teologia di chi è nell’incoerenza logica coi principi filosofici essenziali, esprimendo un giudizio sui presupposti filosofici che inficiano qualsiasi trattazione teologica e lasciando al Magistero il compito di condannare. Nel presente articolo Mons. Livi analizza scientificamente il pensiero del noto teologo italiano Piero Coda, proponendo alcune dense citazioni. Ne emerge un bagaglio d’ispirazione hegeliana e l’improponibile conciliazione con la scienza teologica, che ad esso viene sottomessa; è dunque lecito parlare di “falsa teologia” per chiare ragioni epistemologiche. Ma mons. Livi denuncia anche un aspetto da pochi rilevato nell’attuale confusione immanentista: la comparsa del teologo-vate, oseremmo dire. Ovvero del teologo che non è non più servitore della Verità rivelata, ma autonomo interprete – e addirittura quasi organo – della Rivelazione, trascurando il dato oggettivo della Tradizione, del Magistero della Chiesa e persino della Scrittura. S. C.

La “falsa teologia” di Piero Coda

di Mons. Antonio Livi, da Disputationes Theologicae (13/03/2012)

La teologia, in quanto “scienza della rivelazione divina”, presuppone necessariamente la fede nella rivelazione stessa, e quindi può essere praticata con coerenza e rigore epistemologico solo da quei credenti che intendono mettere i frutti della loro riflessione al servizio delle finalità pastorali della Chiesa. La teologia, infatto, ad altro non deve mirare se non ad allargare i confini dell’interpretazione razionale del dogma, per l’edificazione di tutti i credenti nella fede comune. Di conseguenza, come la filosofia giunge a proposizioni che possono esibire una pretesa di verità solo se queste risultano conformi alle “prime verità” costituite dal senso comune[1], così la teologia giunge a proposizioni che possono esibire una pretesa di verità solo se queste risultano conformi alle “prime verità” costituite dal dogma, ossia dalla Parola di Dio custodita e interpretata infallibilmente dalla Chiesa e che ogni cristiano è tenuto a credere come l’unica verità che salva.
 Il disconoscimento (almeno implicito) di questo fondamentale principio epistemologico ha portato in questi ultimi anni molti teologi di professione ad adulterare la teologia cattolica; i principali errori di metodo della “falsa teologia” sono questi:

1) l’oltrepassamento sistematico del “limite ermeneutico”;

2) la relativizzazone del “dato rivelato”, mentre viene assolutizzata l’ipotesi teologica;

3) l’infondata interpretazione del ruolo ecclesiale del teologo come finalizzato alla ri-formulazione del dogma;

4) la negazione del carattere soprannaturale della Rivelazione (ne è esempio l’evoluzionismo materialistico nella cristologia del gesuita francese Pierre Teilhard de Chardin, e poi anche l’a priori trascendentale nella teologia fondamentale del gesuita tedesco Karl Rahner);

5) l’adozione di categorie gnoseologiche che pregiudicano il carattere razionale dell’atto di fede nei misteri rivelati (tra queste, il pregiudizio anti-fondazionistico e anti-metafisico, che ha prodotto l’attuale deriva fideistica e la perdita del realismo teologico conseguente all’applicazione del metodo fenomenologico;

6) l’adozione delle categorie dialettiche dell’idealismo, con la conseguente storicizzazone della dottrina cristiana (ciò è evidente nello svizzero Hans Küng, ma si rileva anche nel tedesco Klaus Hemmerle e nei suoi epigoni italiani, Piero Coda e Vito Mancuso);

7) l’assolutizzazione della logica pragmatica a scapito della logica aletica, con il che la scienza teologica è ridotta a retorica in funzione di talune scelte pastorali (come nel campo dell’ecumenismo e del dialogo inter-religioso;

8) la manipolazione della teologia dogmatica in funzione delle contrapposte ideologie religiose del “conciliarismo” e dell’anticonciliarismo;

9) la creazione del mito di un presunto “pensiero moderno” in base al quale la dottrina della fede dovrebbe essere radicalmente re-interpretata (ciò è avvenuto a partire dal modernismo del primo Novecento fino ad arrivare alla cosiddetta teologia “post-conciliare”;

10) la manipolazione della teologia morale manipolata in funzione delle contrapposte ideologie politiche (ciò è evidente soprattutto nella cosiddetta “teologia della liberazone” e in altre forme di “teologia politica”.

       Ho citato, tra gli autori che hanno prodotto una teologia di impianto idealistico, Piero Coda, che da Hemmerle ha ripreso il progetto di una «ontologia trinitaria». Nei suoi saggi indirizzati a sviluppare questa metodologia teologica  (cfr Il Logos e il nulla. Trinità, religioni, mistica, del 2003; Dio Uno e Trino. Rivelazione, esperienza e teologia del Dio dei cristiani, del 2009; Della Trinità. L’avvento di Dio tra storia e profezia, del 2011) Coda ha ripetutamente prospettato una re-intepretazione del dogma cristiano sul modello speculativo della dialettica di hegeliana (Hegel è stata la sua prima e fondamentale fonte di ispirazione: cfr Il Negativo e la Trinità. Ipotesi su Hegel,  del 1987 e La percezione della forma. Fenomenologia e cristologia in Hegel, del 2007) e con il ricorso programmatico agli schemi concettuali che Massimo Cacciari, Emanuele Severino, Massimo Donà e altri autori di tradizione idealistica e fenomenologica vanno oggi proponendo, schemi con i quali ha tentato anche di re-interpretare il pensiero metafisico di un tomista come Jacques Maritain (cfr Piero Coda, Ontosofia. J. Maritain in ascolto dell’essere, Mimesis, Milano – Udine 2009), che pure ne Le Paysan de la Garonne (1966) aveva denunciato l’errore teologico derivante dalla pretesa di utilizzare gli schemi idealistici e la metodologia fenomenologica nell’interpretazione del dogma cristiano.

 Del suo maestro Hemmerle Coda ha scritto che «è un pensatore autenticamente “contemporaneo”, incastonato nel presente, ma proprio per questo ricco di memoria storica e proteso verso il nuovo e il futuro. C’è fin dall’inizio come una vocazione all’unità, nel suo pensiero. Non solo sotto il profilo dell’Oggetto da pensare (in definitiva, Dio e l’uomo in Lui), ma – come un tutt’uno – sotto quello del méthodos (la “via”) del pensare stesso. La scuola del grande filosofo della religione B. Welte (di cui è stato successore per qualche anno a Freiburg) gli ha dato i primi strumenti intellettuali per far sì che l’esperienza umana, nella polivalenza delle sue espressioni e insieme nell’irriducibile singolarità dei suoi eventi, gli si dischiudesse nei suoi molteplici significati riconducendoli all’unità del loro riferimento a Dio. La fenomenologia di E. Husserl e l’analisi esistenziale di M. Heidegger – le due forse più grandi lezioni della filosofia tedesca nella prima metà del nostro secolo – gli giungevano così mediate e illuminate dalla limpida fede cristiana del suo “maestro”, che lo riconobbe ben presto come il discepolo più acuto e originale. L’incontro col pensiero di F. Rosenzweig, con la sua tematizzazione della “conoscenza messianica” in cui il darsi dell’Oggetto (che, essendo Dio, è il Soggetto assoluto) implica il darsi “sino alla fine” di me a Lui; e quello con l’ontologia strutturale di H. Rombach, con la sua acuta fenomenologia della libertà e della relazione “polare” tra i soggetti, arricchiscono quel suo tipico approccio fenomenologico alle profondità dell’essere che resterà sempre come un marchio di originalità del suo pensiero. Ed è di qui, dalla contemporaneità di questo ri-pensamento dell’ontologia in prospettiva fenomenologica esistenziale e intersoggettiva, che Hemmerle legge e valorizza le grandi lezioni della metafisica greca della “ousía” (soprattutto Aristotele), di quella medioevale dell’actus essendi (Tommaso), di quella moderna dell’”io penso” (Kant), comprendendole nel loro significato particolare e insieme collocandole nel percorso dell’approfondimento del pensiero umano nel suo accesso al mistero di Dio» (Piero Coda, in Gens. Rivista di vita ecclesiale, 1995). Quanto alla sua personale metodologia teologica, in un suo saggio del 2006 Coda si identifica  volutamente con il metodo di quella “filosofia religiosa” moderna e contemporanea che ho denunciato altrove come fonte dell’inquinamento metodologio della teologia cattolica del Novecento[2]. Scrive infatti il teologo piemontese, nel contesto della sua re-interpretazione del “mistero pasquale” di Cristo crocifisso e risorto: «Si può seguire la presenza della realtà del Crocifisso come via alla conoscenza di Dio, pur in forme diverse e persino distanti, in tre grandi filoni che attraversano la modernità giungendo fino a noi: quelle filosofico (da Meister Eckhart a Hegel e Schelling  e a Heidegger], quello teologico (da Lutero ai grandi teologi del Novecento: K. Barth, S. Bulgakov, H.U. von Balthasar] e quello mistico.

   a) Per quanto riguarda il filone filosofico, e, in particolare, la concezione stessa del pensare, si può individuare un percorso che va da Meister Eckhart […] a Hegel […] e Schelling […] sino a Heidegger […]. È in qualche modo l’istanza dell’intelligentia fidei di Agostino e Tommaso che viene ripresa, ma con un forte riferimento all’experientia fidei, al silenzio mistico di Dionigi e alla novità, anche sul livello del pensare, del Crocifisso. Si vuole conoscere Dio, al di là della semplice rappresentazione concettuale, in un rapporto di immediatezza che permetta però di dirlo e di viverne nel mondo. Diversamente, a che “serve” un Dio inaccessibile del quale in definitiva si può, ed anzi è persino meglio fare a meno? Così ragiona il pensiero moderno. Si intuisce che il Cristo crocifisso, in cui Dio stesso vive la morte (il “ Gott ist tot ”, Dio è morto, che attraversa la modernità), è la chiave d’accesso a un pensare/vivere nuovo in cui Dio è nell’uomo e l’uomo in Dio. Anche se, smarrita la regula fidei, si rischia di cadere nell’abisso del nichilismo e di vanificare l’evento di Gesù Cristo.

   b) Anche nel filone teologico si assiste alla riscoperta della centralità del Crocifisso nella conoscenza di Dio. Un ruolo importante lo gioca Martin Lutero […] che nelle famose tesi 19 e 20 della disputa di Heidelberg contrappone la via della conoscenza esistenziale di Dio, propria della fede, a quella proposta dalla teologia speculativa della scolastica. […] Questo filone, interagendo per vie diverse con il primo, porterà lentamente importanti frutti, che emergeranno sicuri nella teologia del XX secolo (penso, in particolare, come già accennato, a K. Barth, S. Bulgakov, H.U. von Balthasar). Tra essi, due sono fondamentali: la riscoperta che l’evento pasquale vissuto da Gesù (la morte di croce, la resurrezione, l’effusione dello Spirito) è il luogo culminante della rivelazione e della comunicazione di Dio Amore all’umanità; e l’intuizione che l’amore tra le tre Persone della Trinità, come appunto manifesta l’evento pasquale, implica il totale dono-di-sé, e perciò una kénosi (svuotamento), una morte che non ha nulla di negativo, ma manifesta piuttosto l’infinita pienezza della vita di Dio partecipata alla creature umane.

   c) Nel filone mistico non ci troviamo di fronte a semplici intuizioni filosofiche e teologiche, ma all’esperienza coinvolgente e trasformante di Gesù crocifisso come via alla comunione vissuta con Dio Trinità» (Piero Coda, «L’esperienza e l’intelligenza della fede in Dio Trinità da sant’Agostino a Chiara Lubich», in Nuova umanità, 28 [2006], pp. 527-553; qui pp. 542-544).

Faccio notare come qui il teologo ignori di proposito ogni differenza epistemologica tra filosofia e teologia, e poi anche le differenze dottrinali tra  cattolicesimo, ortodossia e protestantesimo; inoltre, pur non potendone fornire alcuna giustificazione  scientifica (né personale né di studiosi alla cui autorità potrebbe appellarsi), azzarda giudizi storiografici del tutto inaccettabili: come quando racconta di un filone speculativo che unirebbe Meister Eckhart a Hegel e a Schelling  e infine a Heidegger, quando si sa che senza Spinoza e senza Kant  non si comprenderebbe la genesi dell’idealismo tedesco, così come non si comprenderebbe la genesi della fenomenologia esistenziale di Heidegger senza Nietzsche da una parte e senza Husserl dall’altra. Ma Piero Coda vuole dimostrare che c’è un filone di pensiero filosofico che presta attenzione al tema della conoscenza di Dio non metafisica ma esperienziale, ricorrendo a espressioni e figure della fede cristiana; ma allora perché non parlare di Kierkegaard? E poi: considerare tutta la teologia, prima di quei pensatori moderni, incapace di «conoscere Dio, al di là della semplice rappresentazione concettuale, in un rapporto di immediatezza che permetta però di dirlo e di viverne nel mondo», significa ignorare il pensiero e la vita di teologi come Anselmo d’Aosta, Bonaventura, Tommaso d’Aquino e Giovanni Duns Scoto, nonché di mistici come Angela da Foligno[3]. Ma questo accumulo di dati falsi è comprensibile in un sistema di pensiero che mira unicamente a giustificare retoricamente una ben precisa scelta metodologica, quella appunto della filosofia religiosa di ispirazione hegeliana. Ne è conferma questa affermazione di uno dei discepoli di Coda: «Qual è il rapporto tra filosofia e teologia? È evidente che non si tratta di riproporre tout court la sintesi di pensiero greco e cristianesimo così come è culminata nel Medioevo, dal momento che è proprio essa all’origine della successiva divaricazione tra filosofia e teologia. Ma neppure si tratta di riproporre altri tentativi di sintesi, per quanto significativi, avanzati dai secoli posteriori (penso, per un esempio, al tentativo di Rosmini). Oggi è richiesto un passo ulteriore, che nasce dal comprendere una verità di fondo: la Rivelazione non solo illumina la filosofia, ma è essa stessa filosofia, in quanto è rivelazione dell’essere, partecipato in noi nella sua realtà uni-trina, e del suo senso profondo e ultimo.  Questo è il contributo filosofico precipuo che la Rivelazione apporta, così come già Hegel, filosofo e teologo insieme, aveva intuito e cercato di trasporre in chiave filosofica dialettica, avente il suo paradigma nella Trinità, che diventa per lui l’elemento propulsore dell’intera realtà e della storia» (Pasquale Foresi, «Filosofia e teologia», in Nuova umanità,  28 (2006], pp. 521-525; qui pp. 524-525). Le radici idealistiche di una filosofia religiosa che ritiene di poter utilizzare Hegel si notano anche per l’identificazione, che qui fa Foresi, della teologia con la filosofia, dicendo che «la Rivelazione non solo illumina la filosofia, ma è essa stessa filosofia»; si tratta infatti della medesima nozione di «cristianesimo-filosofia» che caratterizza la filosofia religiosa di Teodorico Moretti-Costanzi, rappresentante illustre della scuola neo-idealistica di Pantaleo Carabellese. Certamente, la ripresa da parte di Coda dei procedimenti hegeliani nell’interpretazione del dogma cristiano non è senza molte distinzioni, che però si limitano a rilievi concettuali e non toccano il tema che a me qui interessa, che poi è l’essenziale in rapporto alla teologia. Infatti, egli dichiara di considerare teologicamente condivisibili le critiche formulate da Pannenberg circa l’arbitrario primato che Hegel avrebbe concesso al «Geist» (che poi finisce per essere identificato con il «Begriff») rispetto alla «Liebe»[4]. A commento di quelle osservazioni, Coda scrive: «Proprio questa scelta “prova che Hegel non aveva coscienza della differenza strutturale tra l’idea dell’amore e la struttura monologica della coscienza di sé” (meglio ancora sarebbe dire dello spirito interpretato come concetto), per cui diventa comprensibile, da un punto di vista hegeliano, “la tesi dell’analogia strutturale tra il concetto e il soggetto” (inteso come spirito), il che ― d’altronde ― “conduce del tutto naturalmente a una descrizione dell’attività del soggetto assoluto come auto-dispiegamento del concetto dell’assoluto”. E ciò significa, inscindibilmente, un tradimento dell’originaria e originale “forma” personalistico-comunionale della rivelazione cristiana in uno schema oggettivisticamente impersonale, e dunque il tradimento del principio cristiano dell’unità nella libertà» (Piero Coda, Il negativo e la Trinità. Ipotesi su Hegel, Città Nuova Editrice, Roma 1987, p. 363). In definitiva, Coda è comunque persuaso che l’utilizzo di Hegel in teologia sia oggi non solo possibile ma anche necessario, come rilevava con soddisfazione un filosofo cattolico: «La filosofia hegeliana […]  può certamente fornire un impulso geniale allo svolgimento della comprensione teologica della rivelazione»[5]. E così Coda ritiene possibile, anzi necessaria, una riformulazione razionale della dottrina cristiana della Trinità sulla base della dialettica hegeliana: Hegel ― pensa il teologo italiano ― ha ragione nel sostenere che, per ottenere la sua pienezza, l’«idea di Dio» (che non è lo stesso che dire semplicemente “Dio”) deve includere la «sofferenza del negativo», e proprio tale negatività come Denkform può far comprendere il significato dell’Assoluto trinitario. In tal modo, il Padre ammette in sé il male e il dolore mediante l’annichilimento (kenosis) del Figlio («Gesù «abbandonato»), lo Spirito (trattato linguisticamente come se si trattasse del «Geist» hegeliano) è la coscienza dei credenti; l’Incarnazione è reciproca inclusione del divino nell’umano e dell’umano nel divino; infine, la Chiesa stessa è dialettica dello Spirito che si fa anima della comunità dei credenti in cammino verso l’unione spirituale di tutti gli uomini, e i sacramenti sono soltanto segni o simboli  di questo agire dello Spirito nella Chiesa. Ecco un passaggio di un suo scritto nel quale la trascendenza di Dio, la gratuità del soprannaturale (la grazia), la struttura allo stesso tempo carismatica e gerarchica della Chiesa, il dogma come formulazione irreformabile dell’unica fede ecclesiale sono considerati retaggi di una coscienza cristiana ancora immatura: «La prima e decisiva figura in cui la comunità dei discepoli si struttura e si ostende al mondo, con ciò volendo e dovendo attestare la presenza di Gesù, è quella che nasce a partire dall’Eucaristia e attorno alla celebrazione dell’Eucaristia si costruisce. Il linguaggio eucaristico, se per sé propizia un peculiare linguaggio teologico, ancora prima e originariamente propizia un preciso linguaggio ecclesiale. Esso, per la logica intrinseca del segno eucaristico nella correlazione dei diversi soggetti ecclesiali cui dà forma nella peculiarità del loro ministero, non può in prima istanza qualificarsi come gerarchico e piramidale, uniforme e massificante, cerimoniale e identitario, ma piuttosto come fraterno e pericoretico, sinfonico e pluriforme, conviviale e ospitale: espressione e maturazione progrediente dell’essere/diventare uno, nella libertà dello Spirito, in Cristo Gesù, per la salvezza del mondo» (Piero Coda, «Quale rapporto fra la scienza che indaga sul divino e la comunità dei discepoli?», in Avvenire, 30 agosto 2011, p. 22).

Si noti, a conferma di quanto vado dicendo, come il metodo teologico venga collegato esclusivamente a presunte esigenze culturali di una «contemporaneità» che sembra  progredire di anno in anno (ma sempre nella medesima direzione) e nella quale hanno il medesimo rilievo le «prospettive maturate in ambito teologico, filosofico e delle scienze umane» e gli orientamenti  dottrinali della Chiesa cattolica: questi e quelli rispondono ugualmente a una sollecitazione dello Zeitgeist (visto come voce dello Spirito Santo), che  solo il teologo è in grado di interpretare infallibilmente e di tradurre in azione pastorale (la riformulazione del «linguaggio teologico ed ecclesiale»);  missione del teologo, infatti, non è tanto il «servizio alla fede» della Chiesa quanto al pieno compimento delle istanze culturali del “mondo” di oggi. Nemmeno si pone il problema di come possa sapere che cosa pensano gli uomini di oggi ― tutti, in ogni luogo in ogni situazione esistenziale ― e di come possa giustificare, teologicamente, che certe categorie culturali siano «la voce dello Spirito che parla alle chiese». Il problema nemmeno si pone, perché è appunto un problema di epistemologia teologica; ma Coda si muove in un contesto di mera filosofia religiosa (non è casuale il riferimento al concetto di «empatia» di Edith Stein, che rappresenta una delle espressioni più tipiche del pensiero filosofico-religioso del primo Novecento), e in tale contesto ogni arbitraria interpretazione, sia della fede cristiana che del mondo esterno ad essa, non ha altra giustificazione che la propria pretesa superiorità “spirituale”, sicché chiunque esprima una diversa opinione  è considerato sordo alla «voce dello Spirito».

NOTE
[1] Cfr Antonio Livi, Perché interessa la filosofia e perché se ne studia la storia, Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma 2007; Idem, Filosofia del senso comune. Logica della scienza e della fede, Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma 2010.
[2] Cfr Antonio Livi, Vera e falsa toelogia. Come distinguere l’autentica “scienza della fede” da un’equivoca “filosofia religiosa”, Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma 2012.
[3] Cfr Domenico Alfonsi –Mario Mesolella (ed.), La Beata Angela da Foligno, la metafisica della mistica, Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma 2010.
[4] Cfr Wolfhart Pannenberg, Subjectivité de Dieu et doctrine trinitaire, in L. Rumpf – A. Bieler [ed.], Hegel et la théologie contemporaine, Delacheux et Nestlé, Neuchatel – Paris 1967, pp. 171-189.
[5] Aniceto Molinaro, Annotazioni intorno a una «teologia hegeliana», in Mysterium Christi. Symbolgegenwart und theologische Bedetung. Festschrift für Basil Studer, Studia Anselmiana, Roma 1995, pp. 329-347; ora in Idem, Frammenti di una metafisica, Edizioni Romane di Cultura, Roma 2000, pp. 103-116, qui p. 112)

Mons. Antonio Livi critica Enzo Bianchi e Piero Coda

di Fabrizio Cannone, da Corrispondenza Romana (27/03/2012)

Mons. Antonio Livi non fa parte di quelle correnti insipide della cosiddetta “teologia contemporanea” per la quale la parola teologia non significa affatto studio, amoroso, di Dio e della sua Parola-Legge, ma mero conseguimento di titoli accademici presso uno dei tanti pontifici istituti della Penisola. Eppure, di mons. Livi, già Decano e docente di Filosofia alla Lateranense, è impressionante la produzione teologica e filosofica, con decine di volumi pubblicati (l’ultimo e decisivo contributo è Vera e falsa teologia. Come distinguere l’autentica “scienza della fede” da un’equivoca “filosofia religiosa”, Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma 2012).

Si dice perfino che abbia contribuito, da par suo, alla redazione della magnifica enciclica, oggi rimossa, Fides et ratio (1998). Da tempo poi, collabora con varie iniziative di apologetica cattolica, come La Bussola quotidiana on line. Su quest’ultima rubrica ha pubblicato recentemente (13 marzo 2012) un’importante critica teologica verso l’auto-nominatosi “profeta di Bose”, quel fratel Enzo Bianchi che, oltre ad essere autore di molte opere discusse e discutibili, è stato altresì iniziatore di una comunità religiosa, di stampo eterodosso, verso la fine del Vaticano II.

Bianchi appartiene, se si vuole, all’ultima generazione del neo-modernismo post-conciliare, in compagnia di vari teologi e intellettuali cattolici che si caratterizzano da un lato per l’eterodossia delle posizioni (tutti gli autori censurati dal Magistero negli ultimi anni, da Küng a padre Sobrino, sono di questa corrente spuria) e dall’altro per l’enorme presenza sui media, purtroppo anche cattolici (Avvenire e Famiglia Cristiana in primis).

Scrive Livi: «Grazie al non disinteressato aiuto dei media anticattolici, Enzo Bianchi ha saputo gestire molto bene la propria immagine pubblica: quando si rivolge a quanti si professano cattolici, Enzo Bianchi veste i panni del ‘profeta’ che lotta per l’avvento di un cristianesimo nuovo (un cristianesimo che deve essere moderno, aperto, non gerarchico e non dogmatico, cioè, in sostanza, non cattolico); quando invece si rivolge ai cosiddetti ‘laici’ (ossia a coloro che hanno smesso di professarsi cattolici oppure non lo sono mai stati ma desiderano tanto vedere morire una buona volta il cattolicesimo), Enzo Bianchi si presenta simpaticamente come loro alleato, come una quinta colonna all’interno della Chiesa cattolica (se non piace la metafora di ‘quinta colonna’ posso ricorrere alla metafora, ideata da Dietrich von Hildebrand, di cavallo di Troia nella Città di Dio)».

Con questa doppiezza né profetica né cristiana, il Bianchi è riuscito ad avere una popolarità incredibile che lo candida ad “anti Papa” viste le sue posizioni lontane dal Magistero e in opposizione frontale con la Tradizione. Impossibile ripercorrerle tutte! Si oppose, negli ultimi anni, al celibato sacerdotale, alla dichiarazione Dominus Jesus, al motu proprio Summorum Pontificum, e perfino alla Madonna di Fatima la quale condannando, tra le ideologie moderne, solo il comunismo (ideologia con cui solitamente simpatizzano modernisti e semi-modernisti), non sarebbe credibile!!

Qualche giorno prima mons. Livi, con la medesima acribia teologica e filosofica, aveva espresso alcune serissime riserve nei riguardi del teologo Piero Coda, certamente meno conosciuto del Bianchi, ma ben noto, come un capofila del progressismo cattolico. In questo lungo testo, pubblicato dal blog Disputationes Theologicae, Livi stila preventivamente 10 criteri per distinguere gli errori dal dogma cattolico: si tratta di punti di fondamentale importanza teologica che non abbiamo lo spazio di riprendere qui. Ma che certamente dovranno essere sapientemente valutati da chi non vorrà proporre una nuova Professio fidei che voglia escludere le ambiguità teologiche più diffuse, anche in connessione con la giusta interpretazione o applicazione delle novità conciliari.

Livi accusa Coda di essere dipendente dall’idealismo di Hegel e di identificarsi «volutamente con il metodo di quella ‘filosofia religiosa’ moderna e contemporanea» che egli ha «denunciato altrove come fonte dell’inquinamento metodologico della teologia cattolica del Novecento».

Anche Coda, come Enzo Bianchi, Hans Küng, e prima di loro Karl Rahner, ha ribaltato l’ermeneutica tradizionale: non legge infatti la filosofia e le opinioni del tempo alla luce del Vangelo, ma reinterpreta le categorie bibliche e teologiche, alla luce della modernità immanentista ed anti-teista.

Infine, secondo Livi, mons. Coda ignora «le differenze dottrinali tra cattolicesimo, ortodossia e protestantesimo». Cosa, in verità, né innocente, né rara nella teologia accreditata come scientifica nel post-Concilio. Auspichiamo che questa di Livi sia la prima di una serie di ormai indispensabili messe in guardia che dimostrino come la lettura del Concilio alla luce della Tradizione sia la strada obbligata per depurare la teologia cattolica dagli abbagli della modernità.