L’Amoris laetitia ci invita a essere umili e realisti e a fare una “salutare autocritica”: credo che tale atteggiamento non debba essere rivolto solo verso la Chiesa del passato e la sua prassi pastorale, ma, per essere autentico, debba estendersi a 360° e quindi anche alla Chiesa odierna.
Il prossimo Sinodo dei Vescovi è preceduto da un frastuono mediatico che gli attribuisce un significato storico superiore alla sua portata ecclesiologica di mera assemblea consultiva della Chiesa. Qualcuno si lamenta per la guerra teologica che il Sinodo annuncia, ma la storia di tutte le adunanze episcopali della Chiesa (tale è il significato etimologico del termine sinodo e del suo sinonimo concilio) è fatta di conflitti teologici e di aspri dibattiti sugli errori e sulle scissioni che hanno minacciato la comunità cristiana fin dal suo sorgere.
Raffigurazione dell’eresiarca Ario.
Oggi il tema della comunione ai divorziati è solo il vettore di una discussione che verte su concetti dottrinali più complessi, come quello di natura umana e di legge naturale. Questo dibattito sembra tradurre, sul piano antropologico, le speculazioni trinitarie e cristologiche che scossero la Chiesa dal Concilio di Nicea (325) a quello di Calcedonia (451).
Allora si discusse per determinare la natura della Santissima Trinità, che è un unico Dio in tre Persone, e per definire in Gesù Cristo la Persona del Verbo, che sussiste in due nature, la divina e la umana. L’adozione, da parte del Concilio di Nicea, del termine greco homoousios, che in latino fu tradotto con consubstantialis e, dopo il Concilio di Calcedonia, con le parole “della stessa natura” della sostanza divina, per affermare la perfetta uguaglianza del Verbo e del Padre, segna una data memorabile nella storia del cristianesimo e conclude un’epoca di smarrimento, di confusione, di dramma di coscienze analoga a quella in cui siamo immersi.
In quegli anni la Chiesa era divisa tra la “destra” di sant’Atanasio e la “sinistra” dei seguaci di Ario (la definizione è dello storico dei concili Karl Joseph von Hefele). Tra i due poli ondeggiava il terzo partito dei semi-ariani, divisi a loro volte in varie fazioni. All’homoousios niceno, che vuol dire “della stessa sostanza”, venne contrapposto il termine homoiousios, che significa “di sostanza simile”. Non si trattava di una questione di lana caprina. La differenza tra queste due parole, in apparenza infima, cela un abisso: da una parte l’identità con Dio, dall’altra una certa analogia o rassomiglianza, che fa di Gesù Cristo un semplice uomo.
La migliore ricostruzione storica di questo periodo resta quella del cardinale John Henry Newman ne Gli ariani del IV secolo (tr. It. Jaca Book, Milano, 1981), un approfondito studio che mette in luce le responsabilità del clero e il coraggio del “popolino” nel mantenere la fede ortodossa. Il diacono Atanasio, campione dell’ortodossia, eletto vescovo, fu costretto per ben cinque volte ad abbandonare la sua diocesi per percorrere la via dell’esilio.
Nel 357 papa Liberio lo scomunicò e due anni dopo i concili di Rimini e di Seleucia, che costituivano una sorta di grande concilio ecumenico rappresentante l’Occidente e l’Oriente, abbandonarono il termine “consustanziale” di Nicea e stabilirono una equivoca via media, tra sant’Atanasio e gli ariani . Fu allora che san Girolamo coniò l’espressione secondo cui “il mondo gemette e si accorse con stupore di essere diventato ariano”.
Atanasio e i difensori della fede ortodossa vennero accusati di impuntarsi sulle parole e di essere litigiosi e intolleranti. Le stesse accuse vengono oggi rivolte verso chi, dentro e fuori l’aula sinodale, vuole levare una voce di intransigente fermezza nel difendere la dottrina della Chiesa sul matrimonio cristiano, come i cinque cardinali (Burke, Brandmüller, Caffarra, De Paolis e Müller), che, dopo essersi espressi singolarmente, hanno riunito i loro interventi in difesa della famiglia in un libro che è ormai diventato un manifesto, Permanere nella verità di Cristo: Matrimonio e Comunione nella Chiesa cattolica, appena dato alle stampe dalle edizioni Cantagalli di Siena. Allo stesso Cantagalli si deve la pubblicazione di un altro testo fondamentale, Divorziati “risposati”. La prassi della Chiesa primitive del gesuita Henri Couzel.
I commentatori del Corriere della Sera e de la Repubblica si sono stracciati le vesti per la “rissa teologica” in corso. Lo stesso Papa Francesco, il 18 settembre, ha raccomandato ai vescovi di nuova nomina di “non sprecare energie per contrapporsi e scontrarsi”, dimenticando di essersi assunto personalmente la responsabilità dello scontro, nel momento in cui ha voluto affidare al cardinale Walter Kasper il compito di aprire le danze sinodali.
Come ha notato Sandro Magister, è stato proprio il cardinal Kasper, con la sua relazione del 20 febbraio 2014, resa nota da Il Foglio, ad aprire le ostilità e ad innescare il dibattito dottrinale, divenendo così, al di là delle sue intenzioni, il portabandiera di un partito. La formula più volte ribadita dal cardinale tedesco, secondo cui ciò che deve mutare non è la dottrina sull’indissolubilità matrimoniale, ma la pastorale verso i divorziati risposati, ha in sé una portata dirompente, ed è l’espressione di una concezione teologica inquinata nelle sue fondamenta.
Per comprendere il pensiero di Kasper bisogna risalire a una delle sue prime opere, e forse la principale, L’assoluto nella storia nell’ultima filosofia di Schelling, pubblicata nel 1965 e tradotta da Jaca Book nel 1986. Walter Kasper appartiene infatti a quella scuola di Tubinga che, come egli scrive in questo studio, “ha avviato un rinnovamento della teologia e dell’intero cattolicesimo tedesco nell’incontro con Schelling ed Hegel” (p. 53). La metafisica è quella di Friedrich Schelling (1775-1854), “gigante solitario” (p. 90), dal cui carattere gnostico e panteista il teologo tedesco tenta invano di liberarsi.
Nella sua ultima opera, Philosophie der Offenbarung (Filosofia della rivelazione), del 1854, Schelling contrappone al cristianesimo dogmatico quello della storia. “Schelling – commenta Kasper – non concepisce in modo statico, metafisico e sovratemporale il rapporto tra naturale e soprannaturale, bensì in modo dinamico e storico. L’essenziale della rivelazione Cristiana è proprio questo, che essa è storia” (p. 206).
Anche per Kasper il cristianesimo, prima di essere dottrina è storia, o “prassi”. Nella sua opera più nota, Gesù il Cristo (Queriniana, Brescia 1974), egli sviluppa una cristologia in chiave storica che dipende dalla Filosofia della rivelazione dell’idealista tedesco. La concezione trinitaria di Schelling è quella degli eretici sabelliani e modalisti, precursori dell’arianesimo. Le tre Persone divine sono ridotte a tre “modi di sussistenza” di un’unica persona-natura (modalismo), mentre l’essenza della Trinità si risolve nel suo manifestarsi al mondo. Cristo non è intermediario tra Dio e l’uomo, ma la realizzazione storica della divinità nel processo trinitario.
Coerente con la cristologia è l’ecclesiologia di Kasper. La Chiesa è innanzitutto “pneuma”, “sacramento dello Spirito”, definizione che, per il cardinal tedesco, “corregge” quella giuridica di Pio XII nella Mystici Corporis (La Chiesa luogo dello spirito, Queriniana, Brescia 1980, p. 91). Il campo di azione dello Spirito Santo non coincide infatti, come vuole la Tradizione, con quello della Chiesa cattolica romana, ma si estende ad una più vasta realtà ecumenica, la “Chiesa di Cristo” di cui la Chiesa cattolica è parte.
Per Kasper il Decreto del Vaticano II sull’ecumenismo spinge a riconoscere che l’unica Chiesa di Cristo non si limita a quella cattolica, ma è divisa in chiese e comunità ecclesiali separate (ivi, p. 94). La Chiesa cattolica è “dove non c’è alcun vangelo selettivo”, ma tutto si dilata in maniera inclusiva, nel tempo e nello spazio (Chiesa cattolica- Essenza, realtà, missione, Queriniana, Brescia 2012, p. 289). La missione della Chiesa è di “uscire da sé stessa” per riacquistare una dimensione che la renda veramente universale. Eugenio Scalfari, che si atteggia a terzo papa, dopo quello emerito e quello regnante, pur ignaro di teologia, attribuisce la medesima concezione a papa Francesco, affermando che per lui la Chiesa missionaria è quella che “deve uscire da sé e andare nel mondo”, realizzando il cristianesimo nella storia (La Repubblica, 21 settembre 2014).
Queste tesi si riflettono nella teologia morale di Kasper, secondo cui l’esperienza dell’incontro con Cristo dissolve la legge, o meglio la legge è un impaccio di cui l’uomo deve liberarsi per incontrare la misericordia di Cristo. Schelling nella sua filosofia panteista assorbe in Dio il male. Kasper assorbe il male nel mistero della Croce, in cui vede la negazione della metafisica tradizionale e della legge naturale che ad essa consegue. “Il passaggio dalla filosofia negativa alla filosofia positiva è per Schelling nello stesso tempo passaggio dalla legge al vangelo” (L’assoluto nella storia, p. 178), scrive il cardinale tedesco, che vede a sua volta il passaggio dalla legge al vangelo nel primato della prassi pastorale sull’astratta dottrina.
Ritratto di Martin Lutero
Sotto quest’aspetto, la dottrina morale del cardinal Kasper è, almeno implicitamente, antinomista. L’antinomismo è un termine coniato da Lutero contro un suo oppositore di sinistra, Johann Agricola (1494-1566), ma risale alle eresie antiche e medioevali per indicare il rifiuto dell’Antico Testamento e della sua legge, sentito come mera costrizione e vincolo, in antitesi al Nuovo Testamento, cioè alla nuova economia della Grazia e della libertà. Più generalmente si intende come antinomismo il rifiuto della legge naturale e morale che ha la sua radice nel rifiuto dell’idea di natura. Per gli antinomisti cristiani non c’è legge perché non c’è una oggettiva d universale natura umana. La conseguenza è l’evaporazione del senso del peccato, la negazione degli assoluti morali, la Rivoluzione sessuale all’interno della Chiesa.
Si comprende in questa prospettiva come il cardinal Kasper nel suo recente libro apparso in tedesco nel 2012 e poi tradotto in italiano per i tipi della Queriniana nel 2013, Misericordia. Concetto fondamentale del vangelo – Chiave della vita, si proponga di rompere il tradizionale equilibrio tra giustizia e misericordia, facendo di quest’ultima, contro la tradizione, l’attributo principale di Dio. Ma, come ha osservato padre Serafino Lanzetta in un’eccellente analisi del suo volume, pubblicata da www.chiesa, “la misericordia perfeziona e compie la giustizia ma non l’annulla; la presuppone, altrimenti non avrebbe in sé ragion d’essere”. La scomparsa della giustizia e della legge rende incomprensibile il concetto di peccato e il mistero del male, a meno di non reintegrarli in una prospettiva teosofica e gnostica.
Ritroviamo quest’errore nel postulato luterano della “sola misericordia”. Abolita la mediazione della ragione e della natura, per Lutero l’unica via per risalire a Dio è la “fede fiduciale”, che ha il suo preambolo non nella ragione metafisica, da cui deve essere totalmente svincolata, ma in un sentimento di disperazione profonda, che ha a sua volta il proprio oggetto nella “misericordia” di Dio, invece che nelle verità da Lui rivelate.
Questo principio, come ha dimostrato Silvana Seidel Menchi in Erasmo in Italia 1520-1580 (Bollati Boringhieri, Torino 1987), si sviluppa nella letteratura ereticale del sedicesimo secolo grazie anche all’influenza del trattato di Erasmo, De immensa Dei misericordia (1524), che spalancava agli “uomini di buona volontà” le porte del cielo (ivi, pp. 143-167). Nelle sétte di derivazione erasmiana e luterana che costituiscono l’estrema sinistra della riforma protestante riaffiorano inoltre gli errori antitrinitari del IV secolo: arianesimo, modalismo, sabellianesimo, fondati sul rifiuto o sul travisamento dell’idea di natura.
L’unico percorso penitenziale possibile per conoscere l’abbraccio della Misericordia divina è il rifiuto del peccato in cui siamo immersi e il riconoscimento di una legge divina da osservare e da amare. Questa legge è radicata nella natura umana ed è incisa nel cuore di ogni uomo “dal dito stesso del Creatore” (Rm 2, 14-15). Essa costituisce il criterio di giudizio supremo di ogni azione e delle vicende umane nel loro complesso, ovvero della storia.
Il termine natura non è astratto. La natura umana è l’essenza dell’uomo, ciò che egli è prima di essere una persona. L’uomo è una persona, titolare di diritti inalienabili, perché ha un’anima. E ha un’anima perché, a differenza di qualsiasi altro vivente, ha una natura razionale. Naturale non è ciò che nasce dagli istinti e dai desideri dell’uomo, ma ciò che corrisponde alle regole della ragione, che deve a suo volta conformarsi a un ordine oggettivo e immutabile di princìpi. La legge naturale è una legge razionale e immutabile, perché immutabile, in quanto spirituale, è la natura dell’uomo. Tutti gli individui della stessa natura agiranno o dovranno agire nella stessa maniera, perché la legge naturale è iscritta nella natura non di questo o quell’uomo, ma nella natura umana considerata in sé stessa, nella sua permanenza e nella sua stabilità.
Il cardinale Kasper non crede nell’esistenza di una legge naturale universale e assoluta e nell’Instrumentum laboris, il documento ufficiale del Vaticano che prepara il Sinodo di Ottobre, questo ripudio della legge naturale traspare con evidenza, anche se presentato in chiave sociologica, più che teologica. “Il concetto di ‘legge naturale’ risulta essere come tale oggi nei diversi contesti culturali, assai problematico, se non addirittura incomprensibile” (n. 21) – si dice – anche perché “oggi, non solo in Occidente, ma progressivamente in ogni parte della terra, la ricerca scientifica rappresenta una seria sfida al concetto di natura. L’evoluzione, la biologia e le neuroscienze, confrontandosi con l’idea tradizionale di legge naturale, giungono a concludere che essa non è da considerarsi ‘scientifica’” (n. 22).
Alla legge naturale viene contrapposto, secondo il programma kasperiano, lo spirito del Vangelo, di cui occorre comunicare i valori “in modo comprensibile all’uomo di oggi”. Si rende perciò necessario “dare un’enfasi decisamente maggiore al ruolo della Parola di Dio quale strumento privilegiato nella concezione della vita coniugale e familiare. Si raccomanda maggiore riferimento al mondo biblico, ai suoi linguaggi e forme narrative. In tal senso, degna di rilievo è la proposta di tematizzare e approfondire il concetto, di ispirazione biblica, di “ordine della creazione”, come possibilità di rileggere in modo esistenzialmente più significativo la “legge naturale” (…) Si raccomanda anche l’attenzione al mondo giovanile da assumere come interlocutore diretto, anche su questi temi” (n. 30).
Le inevitabili conseguenze di questa nuova concezione della morale, di cui dovranno discutere i padri sinodali, sono tratte da Vito Mancuso, su La Repubblica del 18 settembre. La legge naturale “è un peso troppo gravoso da portare”; occorre perciò puntare a “un profondo percorso di rinnovamento in materia di etica sessuale” che dovrebbe portare alle “seguenti necessarie aperture: sì alla contraccezione; sì ai rapporti prematrimoniali; sì al riconoscimento delle coppie omosessuali”.
Di fronte a questo catastrofico itinerario verso l’immoralismo, come meravigliarsi che cinque cardinali abbiano pubblicato un libro in difesa della morale tradizionale e che altri cardinali, vescovi e teologi, si siano associati a questa posizione? Contro chi invoca una nuova disciplina dottrinale e pastorale, ha scritto il cardinale Pell, si eleva “una barriera insormontabile”, basata su “la quasi completa unanimità su questo punto di cui la storia cattolica dà prova da duemila anni” (Prefazione a Juan Pérez-Soba, Stephen Kampowski, Oltre la proposta di Kasper, Cantagalli, Siena 2014, p. 7).
C’è da sperare che il confronto sia libero e trasparente, senza l’imposizione dall’alto di regole che falsino il gioco. La posta non è una semplice divergenza di opinioni, ma il chiarimento sulla missione della Chiesa. C’è da augurarsi inoltre che i presuli fedeli alla Tradizione non si facciano intimidire e che siano capaci di sopportare con pazienza le violenze mediatiche e le censure ecclesiali, anche ingiuste e pesanti, che dovessero subire. “La canzone migliore continua ad essere la nostra” (p. 8), scrive ancora il cardinal Pell e Atanasio rimane un modello, nel nostro tempo, per tutti coloro che non si ritraggono dalla giusta battaglia in difesa della verità.
“[…] E ad un esame più attento scopriamo che i dogmi sono molto meno stabili di quello che sembri. Norman Tanner, gesuita britannico, analizzando la formula del Credo di Nicea e di Calcedonia, dimostra in un acuto saggio come i primi Concilii ecumenici abbiano speso molto tempo e molta sapienza teologica nel precisare e correggersi. Dunque se lo hanno fatto in quell’epoca, perché non oggi? In pratica le definizioni dogmatiche che consideriamo immutabli non lo erano al tempo in cui furono determinate e per molti decenni sono state riviste e rielaborate”. (Concilium 2/2014, Dall’«anathema sit» al «Chi sono io per giudicare?», Queriniana, pp. 200, euro 15; queriniana).
Se si dovessero seguire tutte le voci che si sentono senza dubbio s’impazzirebbe.
Riporto quest’estratto da una recensione di un libro pubblicato dall’editrice Queriniana perché ha un’opinione corrente e comune nel nostro povero mondo: “I dogmi sono relativi, poiché già agli inizi si dimostrarono fluttuanti; quindi anche oggi possiamo cambiarli (o relativizzarli)”. Di fatto molti cristiani se ne sono da tempo sbarazzati come se fossero vecchie scarpe rotte e questo discorso, alla fine, va esattamente in questa direzione anche se chi lo fa, magari, non lo vuole ammettere.
A differenza di un’argomentazione grezza che porta al relativismo, c’è da dire che nella recensione di questo libro si discetta con una certa raffinatezza intellettuale. Si sottolinea, infatti, che i termini usati nei primi secoli cristiani erano fluttuanti, incerti, a volte intercambiabili e, addirittura, dopo un po’ uno sostituiva un altro.
Questo è senz’altro vero poiché allora si stava formando un vocabolario teologico e i significati dei termini della cultura filosofica ed ellenistica non si prestavano sempre all’uso cristiano.
Quello che, però, pare sfuggire totalmente a questi “teologi” e filologi è che sin dall’epoca apostolica la Chiesa aveva ben chiaro chi fosse Dio e come si fosse manifestato in Gesù Cristo per averne avuto esperienza nei suoi propri membri. La chiarezza e la rocciosa stabilità di questa coscienza non nasceva da un apparato filosofico, da una sapienza di parole (come direbbe san Paolo), ma da un incontro: l’uomo, attraverso la fede in Cristo, aveva incontrato Dio, l’Inconoscibile si era reso conoscibile, direi “palpabile”. Al Dio sconosciuto dell’Areopago i cristiani sapevano dare un nome perché lo avevano incontrato. Si vedano, ad esempio, certi discorsi rivolti all’imperatore da sant’Ambrogio, discorsi che all’uomo attuale potrebbero parere di una sicumera irritante: “Ciò che voi [pagani] ignorate, noi lo abbiamo conosciuto dalla voce di Dio. E ciò che voi cercate con le vostre ipotesi (suspiciones), noi lo abbiamo per certo dalla Sapienza di Dio e dalla Verità”[1].
Dietro a ciò c’è quello che, in termini fin troppo banalizzati e alcune volte equivoci, definiamo “esperienza nello Spirito” [2].
Ecco perché lo stesso Ambrogio affermava: “Perché [tu, imperatore,] cerchi i Vescovi di Dio, cui hai preferito le richieste sacrileghe dei pagani? Non possiamo avere nulla in comune con l’errore altrui” [3]. Parole assai poco… ecumeniche!
Il nucleo dell’esperienza di Dio è passato dagli apostoli alle comunità cristiane e da queste è stato sempre più custodito in particolari comunità di credenti. I monasteri, nati come reazione al rilassamento dei cristiani in un impero che non li perseguitava più e che, anzi, li allettava nel lusso della corte imperiale, conservarono il nucleo di questa esperienza mistica: il Cristianesimo è prima di tutto un incontro con il Dio della vita manifestato in Gesù Cristo, un incontro che è e resta ineffabile, indicibile. Poco importa che siano relativamente pochi ad averlo avuto. Quei pochi fanno la verità del Cristianesimo.
Non a caso i più autorevoli padri della Chiesa, fatte le scuole più alte dell’impero, si ritiravano in monastero o ne passavano un certo tempo. Lo stesso Gregorio Magno sospirava i tempi in cui poteva vivere in monastero, lontano da mille problemi pastorali che gli assorbivano tutte le energie, proprio perché quello era il luogo dell’incontro con l’Ineffabile, nella preghiera ininterrotta.
Se la Chiesa dei primi secoli ha la chiarissima coscienza di chi è Dio deve immediatamente confrontarsi con alcuni che, capendolo a modo loro, deformano quest’esperienza mostrando tutta un’altra via. Sono i cosiddetti eretici. I dogmi, allora, non nascono tanto dall’esigenza di affermare con parole umane chi è Dio (cosa in realtà impossibile e legata alla pura indicibile esperienza) ma dall’esigenza di dire chi Dio non è.
Nel momento in cui si stabiliscono delle affermazioni simboliche per porre dei “paletti” entro i quali orientare il proprio spirito, ci s’imbatte nelle difficoltà della lingua e della cultura di allora.
S’inizia, dunque, ad usare timidamente certi termini, li si sostituisce con altri, si dona nuovo significato a parole che, nell’ellenismo, volevano significare altro, ecc.
Questa fluttuazione di linguaggio non significava che i dogmi (o meglio i “paletti” per orientare il proprio spirito) non fossero chiari. Non significava che Cristo nell’esperienza dei cristiani non fosse Dio, non fosse la porta per il Padre, ecc. Queste ultime cose erano gelosamente custodite ed erano chiare come il sole!
La fluttazione terminologica significava, invece, che i termini utilizzati mostravano sempre qualche evidente limite.
Tuttavia ci si rendeva conto che era necessario stabilire delle convenzioni perché il Cristianesimo da via verso Dio (come lo era stato nell’esperienza dei più ferventi fino ad allora) non si trasformasse in una semplice filosofia umana.
Riassumendo: la chiarezza dell’esperienza precede il tentativo, a volte a tentoni, di stabilire dei “paletti” o dei dogmi. Una volta che questi si stabiliscono universalmente (con i concili ecumenici) si tengono come punto di non ritorno, come affermazioni simboliche per stabilire la differenza tra l’ortodossia della fede dall’eterodossia che porterebbe ad un cammino spirituale fuorviato [4].
Detto ciò, oggi, si ha chiaro che il Cristianesimo è un cammino e che Cristo è una porta verso Dio? Nella maggioranza dei casi, no! Viviamo in pieno relativismo incoraggiato, talora, pure dagli stessi papi recenti. Oggi, in molti ambienti occidentali, il Cristianesimo è un discorso su Dio con un’istanza puramente etica da seguire. L’orizzonte è sempre più puramente umano. Anzi, ormai è esclusivamente umano! In un contesto vuoto di “esperienza nello Spirito”, cambiare il linguaggio dei dogmi significherebbe senza dubbio alterarne il linguaggio simbolico chiudendo il Cielo, buttando la chiave e impedendo a se stessi e ad altri di accedere al Cielo stesso [5].
Per giunta in questa nostra atmosfera relativistica è logico aspettarsi che i dogmi siano addirittura dichiarati insensati. E, in una realtà “vuota di Spirito”, lo sono per davvero!
Quello che oggi manca, a differenza della Chiesa nei primi secoli, è la matura coscienza d’aver incontrato Dio nella fede in Gesù Cristo, d’averne in qualche modo “patita” la presenza, come dicono gli esicasti bizantini.
D’altronde, gli stessi santi occidentali sono raramente dei mistici e prevalentemente dei puri uomini etici.
Tutto diventa, allora, questione di semplici parole, di semplici concetti. Di qui la paura più o meno incoscia che la scienza smentisca il Cristianesimo!
Così, senza un profondo incontro, si disquisisce dell’aria fritta e nulla ha più senso: il relativismo vuoto di esperienza cristiana porta all’agnosticismo bello e buono!
A questo punto, pure la liturgia (della quale questo blog si occupa) diviene pura celebrazione umana tra uomini e per gli uomini con qualche istanza etica in nome di Dio. Lo vediamo nella pratica, infatti…
La Chiesa in occidente continua velocemente la sua corsa verso il basso senza che alcuno la freni e queste pubblicazioni mostrano in modo drammaticamente chiaro il vuoto di esperienza nello Spirito che pare precederle. Tutto pare essere un puro discorso, una filosofia…
A differenza di ciò, i santi antichi sapevano bene quello che facevano. Essi dicevano: “Noi non lottiamo per delle parole (poiché una parola può essere combattuta da un’altra) ma per una questione di vita o di morte. Il Cristianesimo è, infatti, vita in Dio e morte in chi non lo accetta”. I dogmi hanno questo background cosa, oggi, quasi completamente persa. Non fanno che affastellarsi fatti su fatti a riprova di tutto ciò…
Un appunto dell’ultimo momento
Inserisco, quale documentazione, questo scritto che rivela in modo eloquente la coscienza dogmatica di una certa parte del mondo occidentale. Come si nota, qui esiste, di fatto, la costruzione di un “nuovo cristianesimo” con basi ben differenti da quelle tradizionali.
NON TUTTI I CRISTIANI CREDONO NELLE DUE NATURE DI GESU’ Credo che il dialogo ebraico- cristiano- islamico, nel quale il papa si è mosso con tanto impegno, abbia un nodo fondamentale da sciogliere. Si tratta di rifare i conti con i Concili di Nicea e di Calcedonia che, nel loro linguaggio filosofico-ellenistico, vanno riletti e reinterpretati alla luce delle Scritture. Un immenso e documentatissimo lavoro storico ed ermeneutico ci permette in tutta tranquillità di negare le due nature in Gesù. La dottrina delle due nature, nel linguaggio dei Concili, non poteva essere altro che la dichiarazione di fede per cui i cristiani non separavano Gesù da Dio, nel senso che egli era il “tramite” e il testimone della presenza e della “rivelazione” di Dio. Leggere oggi come ontologico questo linguaggio, significa prescindere totalmente dal Gesù storico e dal messaggio del Secondo Testamento. La divinizzazione di Gesù, come fatto ontologico, non appartiene necessariamente alla fede cristiana (Barbaglio, Ortensio da Spinetoli, Schillebeeckx, Kung, Salas, Spong, Lenaers, Adriana Destro, Mauro Pesce, Tamayo,Elizabeth Johnson, M. Fox, Haigth, Boimard, Vigil, Gounelle……), ma ad una sua interpretazione filosofica, letteraria contingente [6]. Oggi possiamo liberamente e responsabilmente sentirci cristiani sapendo che la nostra fede non è vincolata a formule che potevano avere un senso dentro una stagione culturale datata. Non è amore alla tradizione, ma becero tradizionalismo ripetere delle formule ignorando la inevitabile mutazione dei linguaggi. La nostra fede deve sempre reinventare il modo con cui dirsi [7].
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Note
[1] AMBROGIO DI MILANO, Lettera 73, 8 in Lettere 70-77, a cura di G. Banterle, Milano – Roma 1988, p. 67
[2] ID., Lettera 72, 14 in Lettere 70-77, a cura di G. Banterle, Milano – Roma 1988, p. 47.
[3] La definizione di “esperienza nello Spirito” è stata ampiamente sfruttata e abusata da parte di alcuni settori cristiani sia nel mondo protestante che in quello cattolico. Spesso è presentata come qualcosa di puramente psicologico, nevrotico, sentimentale, dunque assolutamente umano. Anche questo è il segno palese di un incredibile allontanamento dalla prassi e dalla prudenza della Chiesa antica. In realtà l’ “esperienza nello Spirito” evangelica è qualcosa che rimane nel dominio dell’ineffabile, per quanto possa essere esperito.
[4] Nella coscienza della Chiesa antica non esiste alcuna distinzione tra dogma e spiritualità, poiché il primo è ordinato per la seconda: “Per noi e per la nostra salvezza…”, recita il Credo, aggiungendo tutta una serie di punti fermi da credersi. Purtroppo oggi, negli scaffali “spiritualità” delle librerie religiose i due campi paiono ampiamente dissociati (e lo sono pure nell’insegnamento). Questo da adito ad un certo individualismo “fai da te” oltre che ad un consolidato relativismo: tutte le vie spirituali sono considerate equivalenti tra loro. Un religioso cattolico, un giorno, si recò nell’Athos e voleva parlare di spiritualità. Il monaco ortodosso iniziò col parlargli di dogmi con meraviglia e un certo indispettimento del primo. Come si vede nel monaco ortodosso è ancora intatta la coscienza della Chiesa antica.
[5] Chi presume di poter cambiare il linguaggio dei dogmi lo può pensare proprio perché mosso da un individualismo di stampo moderno. Anticamente nessuno poteva pensarlo e questo è dimostrato pure dal dialogo avuto da papa Leone III con i presuntuosi teologi di Carlo Magno. Il dogma è cosa che riguarda tutta la Chiesa, non una sola persona, e quindi dev’essere discusso da tutta la Chiesa. Neppure un papa, affermava Leone III, può inserire, togliere o modificare qualsiasi cosa dal dogma della Chiesa. Relativismo e individualismo selvaggio oramai la fanno da padroni nel Cristianesimo di casa nostra. È, appunto, un Cristianesimo “vuoto di esperienza nello Spirito” e totalmente pieno di presunzione umana!
[6] Questa frase riduce quella che è l’esperienza spirituale di Cristo, quale “porta al Padre”, ma pure quale Dio in sé, ad una sorta di “filosofia contingente”. Questa conclusione può discendere o da una totale ignoranza o da una lettura degli scritti ascetici e patristici con occhiali unicamente razionalistici. Era questo quello che avrebbe inteso sant’Atanasio di Alessandria? Non credo proprio! Il destino di questi pensatori è unicamente quello di svuotare definitivamente il Cristianesimo della sua peculiarità. A questo punto, se va bene, Cristo diviene un semplice “profeta”, esattamente come si predica nell’Islam. C’è da dire che questi autori hanno il coraggio di dire quello che pensano e vivono ma la maggioranza, priva di tale coraggio, di fatto non si allontana molto da queste conclusioni. L’arianesimo ha sempre tormentato l’Occidente cristiano proprio perché i suoi presupposti fin troppo umanistici lo permettono.
Il supremo criterio di giudizio per un cattolico dovrebbe essere quello della Chiesa: amare e odiare ciò che la Chiesa ama e odia. Amare la verità, in tutta la sua unicità e integrità, odiare l’errore in tutte le sue molteplici espressioni. Ortodossia ed eterodossia restano il metro ultimo di giudizio a cui la ragione di un cristiano deve sottomettersi.
Il Papa Paolo II istituì nel 1542 la congregazione dell’Inquisizione romana, poi detta Sant’Uffizio e oggi congregazione per la Dottrina della Fede, allo scopo di tutelare la purezza dell’ortodossia; san Pio V, nel 1571, affiancò ad essa, la congregazione dell’Indice con il compito di segnalare tutti i libri difformi dalla retta dottrina cattolica. Nel 2002 è stato pubblicato dal Centre d’Etudes de la Renaissance dell’università di Sherbrooke L’Index Librorum prohibitorum 1600-1966, che raccoglie tutte le opere condannate fino alla soppressione dell’Indice, voluta da Paolo VI nel 1966. Dal protestantesimo all’illuminismo, dal liberalismo cattolico al modernismo, non c’è autore eterodosso che non sia stato individuato e condannato per il bene della Chiesa e la salvezza delle anime.
L’Indice costituiva un prezioso strumento per aiutare i cattolici a conoscere e detestare gli errori e le eresie; il S. Uffizio era il supremo tribunale a cui ogni cattolico poteva rivolgersi quando aveva qualche dubbio o perplessità in materia di fede o di morale.
Alla congregazione per la Dottrina della Fede, succeduta al S. Uffizio, si devono, negli ultimi anni, numerose notificazioni come la Dominus Jesus del 2000 o le Considerazioni circa i progetti legali di riconoscimento delle unioni omosessuali del 2003. Dopo lo sconcertante intervento del cardinale Kasper, in tema di divorziati risposati, al Concistoro del 20 febbraio 2014, e l’altrettanto inquietante documento Instrumentum laboris, presentato il 26 giugno, in preparazione al prossimo Sinodo sulla famiglia, sarebbe lecito attendersi dalla congregazione, oggi presieduta dal cardinale Gerard Mueller, una parola chiarificatrice sui gravi problemi sul tappeto in materia di famiglia e morale sessuale.
Oggi però si pretende di sostituire l’ortodossia con l’“ortoprassi”. La rivista internazionale di teologia “Concilium” ha dedicato il suo ultimo numero al tema: Dall’«anathema sit» al «Chi sono io per giudicare?», a partire dalla famosa frase di Papa Francesco sull’omosessualità: “chi sono io per giudicare”, pronunciata di ritorno dal Brasile, nel luglio 2013. Gli autori definiscono l’ortodossia come “una violenza metafisica”.
Essi ritengono che le formule e i dogmi non possono comprendere l’evoluzione storica, ma ogni problema vada collocato nel suo contesto storico e sociopolitico. Il concetto di ortodossia va superato, o quanto meno ridimensionato, perché, viene utilizzato come“punto di riferimento per soffocare la libertà di pensiero e come arma per sorvegliare e punire” (“Concilium”, 2/2014, p. 11). Al primato della dottrina va sostituito quello della prassi pastorale, come spiega a sua volta il padre Juan Carlos Scannone, intervenendo a sostegno del cardinale Kasper, nell’articolo Teologia serena, fatta in ginocchio, sulla “Civiltà Cattolica” del 7 giugno 2014.
Le categorie di ortodossia e di eterodossia vengono accantonate come antiquate. E nascono nuove espressioni semantiche. Una delle più curiose è quella di “cripto-lefebvrismo”: un termine che il padre Angelo Geiger FI ha recentemente utilizzato sul suo sito americano per squalificare, oltre alla mia persona, un benemerito sito cattolico quale Rorate Coeli, colpevole di aver espresso la sua preoccupazione per quanto sta accadendo ai Francescani dell’Immacolata. Per padre Geiger tutto è normale e chi mette in dubbio questa normalità è un “cripto-lefebvriano”.
Chi sono i “ cripto-lefebvriani”? Sono coloro che, nella situazione di confusione contemporanea, pur non facendo parte della Fraternità San Pio X, guardano alla Tradizione cattolica come a un punto di riferimento. Sono i cattolici che vogliono rimanere ortodossi e, per esserlo, si richiamano al Magistero definitivo della chiesa, non meno “vivo” e attuale del Magistero indiretto e non definitorio dei vescovi e del Papa regnante.
Il padre Angelo Geiger accusa i Francescani fedeli a padre Stefano M. Manelli, Rorate Coeli e il sottoscritto di essere contro il Papa e il Vaticano II. Lo preghiamo di leggere il volume pubblicato dal suo confratello padre Serafino M. Lanzetta Il Vaticano II. Un concilio pastorale. Ermeneutica delle dottrine conciliari, Cantagalli, Siena 2014. L’opera, condotta sotto la guida del prof. Manfred Hauke, è valsa all’autore l’abilitazione alla libera docenza presso la Facoltà Teologica di Lugano.
Padre Lanzetta vi spiega che l’insegnamento del Vaticano II si situa sulla linea del Magistero ordinario della Chiesa, ma senza esigere un’adesione di fede. “La qualificazione teologica più adeguata per le dottrine da noi esaminate, salvo meliore iudicio, sembra essere quella di sententiae teologicae ad fidem pertinentes: questioni su cui il magistero non si è ancora pronunciato definitivamente, la cui negazione potrebbe condurre a mettere in pericolo altre verità di fede e la cui verità è garantita dal loro intimo collegamento con la Rivelazione” (pp. 430-431). La discussione di queste tesi teologiche è ancora libera e aperta. Il dato dottrinale del Vaticano II, scrive ancora padre Lanzetta, va letto alla luce della perenne Tradizione della Chiesa e il Concilio non può che iscriversi in questa ininterrotta Tradizione (p. 37). “Ciò che solo può far da guida nella comprensione del Vaticano II è l’intera Tradizione della Chiesa: il Vaticano II non è l’unico né l’ultimo concilio della Chiesa, ma un momento della sua storia” (pp. 74-75). “La perenne Traditio Ecclesiae è, quindi, il primo criterio ermeneutico del Vaticano II” (p. 75).
Padre Lanzetta, uno dei Francescani dell’Immacolata che hanno chiesto le dispense per lasciare il suo Istituto, è un “cripto-lefebvriano”? Se è così, il capo dei cripto-lefebvriani è Benedetto XVI, che ha proposto di leggere il Concilio Vaticano II alla luce della Tradizione e non la Tradizione alla luce del Vaticano II, come vorrebbe la scuola di Bologna. E se a padre Lanzetta padre Geiger vuole contrapporre mons. Agostino Marchetto, definito da Papa Francesco come “il miglior ermeneuta del Vaticano II”, egli dovrebbe sapere che padre Lanzetta e il prof. de Mattei fanno parte, assieme a mons. Marchetto, di un gruppo di studiosi che da oltre due anni, ognuno con la propria identità di teologo e di storico, si confronta in maniera costruttiva per approfondire il Concilio Vaticano II, senza reciproche demonizzazioni. La frase In necessariis unitas, in dubiis libertas, in omnibus caritas, cara a Giovanni XXIII, è respinta da chi si serve del Novus Ordo Missae e del Concilio Vaticano II per chiudere la bocca a chi pone delle domande in nome della retta fede cattolica.
Preghiamo il padre Geiger di sostituire le false etichette con dei buoni argomenti, se riesce a trovarli. Ciò che ci qualifica o ci squalifica dinnanzi alla Verità e a Nostro Signore Gesù Cristo, che è Via, Verità e Vita (Gv 4, 1-6), non sono le denominazioni polemiche, ma il buon uso della nostra ragione, che non può mai essere in contraddizione con la nostra fede. Alle accuse dei nominalisti, rispondiamo con le parole di san Paciano di Barcellona: Christianus mihi nomen est, catholicus cognomen.
Papa Francesco punta tutto sulla carità cristiana perché la Chiesa è in difficoltà. Ma curare le umane sofferenze senza tenere ferma l’ortodossia è strategia pericolosa.
Rino Cammilleri (10/10/2013)
La famosa intervista di papa Francesco a Civiltà cattolica dovrebbe avere chiarito a questo punto il programma del pontificato Bergoglio e gli spunti di perplessità che certe affermazioni «a braccio» alla stampa o certi gesti avrebbero generato in alcuni.
È sembrato che, per esempio, il primo viaggio proprio a Lampedusa tra i clandestini sia stato frutto di un impulso dopo aver visto in tivù le immagini dell’ennesimo naufragio. Gli auguri ai musulmani per il ramadan, le telefonate improvvisate a comuni fedeli, gli scambi di zucchetto in piazza, le esortazioni ai disoccupati a «lottare» per il lavoro, il rifiuto di scarpe rosse, ornamenti d’oro, residenze vaticane, l’uso di auto di serie seduto accanto al guidatore; tutto questo, insomma, avrebbe fatto pensare a certuni che l’ex arcivescovo di Buenos Aires continui a comportarsi come ha sempre fatto e a considerare l’intera cattolicità come se fosse una delle periferie degradate della capitale argentina. L’atteggiamento da simpaticone (squilla il cellulare: ciao, sono papa Francesco) o l’interlocuzione privilegiata con Eugenio Scalfari (promuovendolo «papa» dei laicisti), autorizzerebbero a ritenerlo.
Ma l’intervista a Civiltà cattolica ha spazzato ogni dubbio: il papa sa quello che fa, e quello che fa è parte di una precisa strategia. Eccola, in sintesi. L’uomo contemporaneo è ormai completamente plagiato da una cultura relativistica che ha azzerato ogni valore sia divino che umano. Parlargli di principi non negoziabili è pura perdita di tempo: non li capisce più. L’attacco di secoli al principio di autorità ha stravinto e la gente non sopporta più i maestri. Ma la civiltà odierna è anche un tritacarne che aumenta esponenzialmente il numero degli scarti. L’uomo moderno, ferito e maciullato dal lato oscuro della modernità (che, promettendo felicità a tutti, ha realizzato un grado di malessere mai visto), allorché giace a terra sanguinante bada solo alla mano che lo risolleva e cura, poco importandogli se è di un Samaritano (cioè, esponente di una categoria che gli è stato insegnato a odiare). Ecco, dunque, il programma: aprire le braccia ai sofferenti e ai drop-out, senza polemizzare, senza controbattere, senza rinfacciare gli errori. Dopo che la corazza mentale sarà stata dissolta dalla condizione di bisogno, il disgraziato vedrà nella Chiesa una madre misericordiosa e non, come gli è stato inculcato, un centro ideologico di potere. Il problema urgente è la crisi di fede, di cui la crisi morale è solo conseguenza. Da qui, dice papa Francesco, bisogna ripartire. Da zero. Alla luce di ciò il modus operandi di Bergoglio appare più chiaro.
Quella che sta proponendo è una sorta di gigantesca «scelta religiosa» da parte dell’intera Chiesa: curare in primis le umane sofferenze, poi, solo poi, insegnare il catechismo e tutto il resto. Da qui anche la reticenza a parlare di temi «scomodi» come nozze gay, aborto, eutanasia. Dice: quale sia la posizione della Chiesa su questi argomenti lo sanno tutti ed è inutile che il papa la ripeta continuamente. Epperò -vien da pensare- anche il primato dell’ortoprassi sull’ortodossia (per usare un linguaggio da addetti ai lavori clericali) è un dèjà vu.
Dal primato al distacco, poi, il passo è breve, e una prassi slegata dall’ortodossia l’abbiamo già vista nella famosa «teologia della liberazione». Se non inietti costantemente nella prassi la tua dottrina, un’altra ne prenderà il posto, magari una che le somiglia: ieri il marxismo, oggi il buonismo relativista. È un rischio, speriamo calcolato. Trasformare l’intera Chiesa in una Caritas sarà sufficiente alla nuova evangelizzazione? Dare alla gente quell’immagine della Chiesa che la gente vuole (assistenza gratuita, silenzio sul peccato e l’errore) è davvero l’idea vincente? A queste domande solo il futuro potrà rispondere.
Ma almeno un esempio nel passato c’è, Madre Teresa, che in India faceva esattamente quel che papa Bergoglio indica a tutti i cattolici oggi: la carità silenziosa. Assisteva lebbrosi e moribondi senza aprir bocca sulla dottrina di Cristo: gli indiani, che già la accusavano di proselitismo, avrebbero cacciato lei e le sue suore. Ma cosa rimane in India di tanto duro lavoro sugli «ultimi»? La cristianizzazione del subcontinente galoppa? I cristiani locali non vengono più perseguitati?
In attesa, comunque, che la strategia «samaritana» di papa Bergoglio dia risultati, ci si chiede quanto rimanga utile un Cortile dei Gentili, dispendiosa passerella per Scalfari & Odifreddi vari. Così il famoso «dialogo», e pure l’ecumenismo, la teologia e l’apologetica, vecchi arnesi che, come lo stesso catechismo, nulla dicono all’uomo contemporaneo; anzi, ci sta che lo infastidiscano e respingano. «Scelta religiosa», dunque. Del resto, l’ha già fatta il «popolo di Dio» di sua iniziativa, disertando le parrocchie e riversandosi nei santuari mariani: basta andare a Medjugorje per rendersene conto. Qui, pure la Madonna va al sodo: non parla di catechismo e di dottrina, ma dice solo «convertitevi, pregate, digiunate». Forse perché è vicina l’ora di chiudere il sipario? Chissà…