La “curia parallela” di papa Francesco

Vescovi, Culto divino, Dottrina della Fede: è evidente una chiara strategia da parte di papa Francesco per prendere il controllo dei gangli vitali della Curia, dove non poteva “tagliare” subito: lasciare intatto il guscio ma svuotandolo dall’interno, ovvero i prefetti restano al loro posto ma le decisioni vengono prese concretamente da persone di fiducia del Papa. Come succede anche alla CEI.

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La dottrina o il caos

Il cardinale Walter Brandmüller (nomina di B-XVI) contro il disordine provocato dalla “poca chiarezza” nell’insegnamento cattolico. “Dottrina di fede e prassi pastorale possono essere distinte, sì, ma non scisse”.

di Matteo Matzuzzi (27/03/2014)

“È evidente che la mancanza o la mancante chiarezza circa il genuino insegnamento cattolico da parte di vescovi, predicatori, catechisti e soprattutto dei professori di teologia morale, è la principale causa del caos attuale”. A colloquio con il Foglio, il cardinale Walter Brandmüller, eminente storico della chiesa medievale e moderna e per lunghi anni presidente del Pontificio comitato di Scienze storiche, interviene nel dibattito su matrimonio e famiglia che sarà oggetto dei due sinodi in programma il prossimo ottobre e l’anno prossimo. Un “caos” alimentato anche da chi, tra le file dell’episcopato mondiale, ha detto che l’insegnamento della chiesa cattolica in fatto di morale non è più adeguato ai tempi e che ormai crea solo confusione tra i fedeli più o meno assidui di messe domenicali e confessionali. È il caso, ad esempio, del giovane vescovo di Treviri, mons. Stephan Ackermann.

“Ma che cosa vuol dire?”, s’interroga perplesso il cardinale Brandmüller: “L’affermazione dell’eccellentissimo vescovo di Treviri suscita domande e mi pare che occorra fare una distinzione. Il presule parla semplicemente di ‘insegnamento’, e potrebbe avere ragione se si riferisse al modo di motivare, spiegare e insegnare la dottrina della Chiesa. Avrebbe però torto se volesse dire che la dottrina della chiesa non è più adeguata ai tempi. Infatti, cambiano le domande e le questioni a seconda dei mutamenti socio-culturali, ma la risposta della chiesa in ogni momento della storia non può toccare il depositum fidei una volta e per sempre valido”. Dopotutto, si tratta “del tesoro dal quale il buon padrone della famiglia tira fuori nova et vetera”.

Per rispondere alle “forti attese radicate tra i fedeli” che auspicano aggiornamenti in fatto di insegnamento morale cattolico, il cardinale Walter Kasper ha prospettato una soluzione che riaffermi l’intangibilità della dottrina, ma consenta interventi sulla prassi pastorale. Dottrina e prassi su due binari separati, dunque, schema già criticato dal prefetto dell’ex Sant’Uffizio, il cardinale Gerhard Ludwig Müller e che non trova concorde neppure il nostro interlocutore: certo, “è necessario distinguere tra la dottrina di fede e la prassi pastorale. Distinguere sì, ma non scindere. Ogni prassi pastorale che voglia essere autentica deve ispirarsi e reggersi sulla verità di fede. E’ vero – nota ancora lo studioso creato cardinale da Benedetto XVI nel 2010 – che la realtà sociologica della famiglia non è più quella dei nostri nonni. Ma ciò che mai può essere sottoposto al mutamento storico è la natura stessa, la sostanza della famiglia che nasce dal matrimonio sacramentale tra uomo e donna”. La pastorale, dice ancora Brandmüller, “deve rispondere alla domanda su come spiegare meglio questa realtà per far sì che la si viva più autenticamente nelle circostanze d’oggi”.

Dubbi anche sulla corrente di pensiero secondo cui la chiesa nel corso della sua storia ha sempre sostenuto che, fermo restando il principio una fides, esistono molti modi per viverla e sperimentarla: è vero, spiega il presidente emerito del Pontificio comitato di Scienze storiche, “esistono tanti modi di vivere ed esprimere la fede. Ma questi sono legittimi solo in quanto non contraddicono la dottrina della fede formulata dalla Chiesa. È sempre essenziale la convergenza tra dottrina e vita”. Il problema è la mancanza di chiarezza circa il significato dell’insegnamento cattolico, osserva il porporato: “In più di venticinque anni di attività pastorale – parallelamente alla mia carriera universitaria – ho fatto il parroco in campagna”.

Ebbene, “dopo l’anno fatale 1968, non ho più dovuto pronunciare la fin allora consueta lettera pastorale sul ‘sacro sacramento del matrimonio’ prescritta per la seconda domenica dopo l’Epifania”. Non era più prevista, non è stata più preparata, “e ciò è emblematico per comprendere quella situazione”.

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Chi è Baldisseri, il cardinale più veloce del pontificato

Il cerchio papale. A capo del Sinodo dei vescovi, parla di dottrina ma per attualizzarla.

di Mattia Matzuzzi (25/03/2014)

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Papa Francesco ritiene che sia opportuno riprendere il grande tema della famiglia alla luce del Vangelo e in più, con i tempi mutati, dare uno sguardo che possa essere di attualizzazione della dottrina della chiesa”. Il fatto è che “molti temi, molti problemi, molte situazioni sono mutate da quel tempo, per cui la chiesa deve essere capace di rispondere alle sfide”. A tracciare l’obiettivo dei prossimi due sinodi sulla famiglia è il neo cardinale Lorenzo Baldisseri, che del Sinodo dei vescovi è (da poco) il segretario generale. È lui che, a margine del convegno internazionale “Papa Giovanni Paolo II: il Papa della famiglia”, spiega alla Radio Vaticana i motivi per cui la chiesa debba prendere atto di quanto è cambiato rispetto all’epoca in cui Karol Wojtyla scrisse l’esortazione Familiaris Consortio e agire dunque di conseguenza.

Il cardinale Baldisseri è colui che ha coordinato la sintesi dei rapporti sui questionari inviati alle diocesi lo scorso novembre e giunti a Roma nelle settimane scorse. È lui che, un po’ irritato, lamentava il fatto che diverse conferenze episcopali avessero violato la consegna della riservatezza, diffondendo alla stampa giudizi poco lusinghieri sull’Humanae Vitae di Paolo VI e più in generale sull’insegnamento cattolico in fatto di morale. “La pubblicazione non era prevista. Si tratta di un’iniziativa unilaterale delle singole conferenze episcopali. Se c’è qualcuno che fa quello che vuole, io non ci posso far nulla”.

Toscano di Lucca, settantatré anni, Baldisseri conosce bene Papa Francesco. Sette anni fa, quando il cardinale Jorge Mario Bergoglio sovrintendeva ai lavori per la stesura del Documento finale della Quinta conferenza generale dell’episcopato latinoamericano ad Aparecida, mons. Lorenzo Baldisseri era in Brasile già da cinque anni come nunzio. È lì che Baldisseri vede all’opera il futuro Papa intento a lavorare al lungo documento che fungerà, anni dopo, da agenda del pontificato. In quelle pagine è delineato il modello di chiesa fatto proprio da Francesco: periferia, poveri, missione, uscita. In Brasile lo aveva mandato Giovanni Paolo II, a coronamento di una carriera diplomatica che l’aveva portato in Guatemala, Salvador, Giappone, Paraguay, Francia, Zimbabwe e per lunghi anni a Haiti. Studi alla Lateranense in Teologia dogmatica e Diritto canonico, è poi entrato nella Pontificia accademia ecclesiastica, dove riuscì a coltivare anche la sua grande passione per la musica: dopotutto, nella diplomazia “si parla pur sempre di concerto delle nazioni”, disse.

Pianista, nel 2007 Benedetto XVI gli chiese di suonare per lui a Castel Gandolfo: “Non ebbi neppure il tempo di provare il pianoforte Steinway, che era appena stato regalato al Papa. Ero emozionato, ma tutto è andato per il meglio”. Tra i compositori prediletti, c’è Villa-Lobos, “scoperto durante gli anni da nunzio in Brasile”.

Richiamato a Roma nel 2012, fu nominato segretario della Congregazione per i vescovi e segretario del collegio cardinalizio. Ed è in questa veste che nel 2013 sarebbe rimasto sorpreso dal gesto che il neoeletto Pontefice, appena rientrato in Sistina dopo la vestizione nell’attigua stanza delle lacrime. Avvicinatosi per omaggiare Francesco, Baldisseri vedrà imporsi sul capo lo zucchetto rosso cardinalizio appartenuto a Bergoglio. Il Papa preso quasi alla fine del mondo recuperava un’antica tradizione ormai caduta in desuetudine: fu Papa Roncalli l’ultimo a porre la porpora in testa al segretario del Conclave, all’epoca Alberto di Jorio. Gesto che preconizza il cardinalato, come infatti poi è accaduto.

Alla prima occasione utile, un mese fa, Baldisseri – nel frattempo già promosso alla segreteria generale del Sinodo – veniva creato cardinale. Secondo in lista, subito dopo il segretario di stato, Pietro Parolin, e prima del prefetto custode della fede, Gerhard Ludwig Müller.

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C’è chi vuole “aggiornare” la dottrina sulla famiglia

In vista del Sinodo per la Famiglia, il suo segretario generale, il cardinale Lorenzo Baldisseri, ritiene che la dottrina vada rivista. Considera superata l’esortazione apostolica “Familiaris Consortio” alla luce dei “tempi mutati”. Nemmeno il cardinale Kasper si era spinto così avanti. E le reazioni non si fanno attendere.

di Matteo Matzuzzi (24-03-2014)

L’obiettivo dei prossimi due Sinodi sulla famiglia (ottobre 2014 e 2015) lo ha spiegato direttamente colui che del Sinodo è (dallo scorso settembre) segretario generale, il neocardinale Lorenzo Baldisseri. L’occasione era data dal Convegno internazionale su “Giovanni Paolo: il Papa della famiglia” organizzato dal Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per studi su matrimonio e famiglia in collaborazione con i Cavalieri di Colombo, che si è tenuto a Roma il 20 e 21 marzo. Intervenuto nell’ultima sessione riservata ai delegati delle conferenze episcopali europee, il cardinale Baldisseri ha poi rilasciato una breve intervista alla Radio Vaticana. Premesso che «l’iniziativa di trattare il tema della famiglia, quindi anche del matrimonio, è stato un momento importantissimo per la chiesa, stabilito da Papa Giovanni Paolo II», è venuto il tempo di andare oltre, dice sostanzialmente il porporato. In che modo? «Oggi naturalmente sono passati molti anni da quella famosa enciclica, la Familiaris Consortio (che in realtà è un’esortazione apostolica, ndr), e Papa Francesco ritiene che sia opportuno riprendere questo grande tema alla luce del Vangelo e in più, con i tempi mutati, dare uno sguardo che possa essere di attualizzazione della Dottrina della Chiesa». E questo perché – ha aggiunto il segretario generale del Sinodo dei vescovi – «molti temi, molti problemi, molte situazioni sono mutate da quel tempo, per cui la chiesa deve essere capace di rispondere alle sfide».

La posizione, dunque, è chiara: attualizzare la dottrina e aggiornare la Familiaris Consortio perché non rispondente più a quelle problematiche “inedite” che si sono affermate nell’ultimo trentennio. Su tutte, la questione del genere e delle unioni tra persone dello stesso sesso. Una prospettiva, quella illustrata dal cardinale Baldisseri, che si pone sulla scia di quanto scritto e dichiarato nelle recenti e numerose interviste dal cardinale Walter Kasper, il teologo cui Francesco aveva chiesto di tenere la relazione concistoriale sulla famiglia, e che già a gennaio era stata fatta propria in un’intervista a un quotidiano tedesco dal cardinale honduregno Oscar Rodríguez Maradiaga, ascoltatissimo coordinatore del gruppo di otto porporati che studia la riforma della curia.

Ma il segretario generale del Sinodo va oltre, perché se Kasper ha ribadito che in discussione non c’è la dottrina, quanto piuttosto la prassi da adottare caso per caso a seconda delle circostanze concrete e particolari con cui ci si trova a dover fare i conti, Baldisseri parla di necessità di attualizzare la dottrina. Una prospettiva, questa, che era già stata respinta con forza dal cardinale Carlo Caffarra: «L’immagine quindi di una Familiaris Consortio che appartiene al passato, che non ha più nulla da dire al presente, è caricaturale. Oppure è una considerazione fatta da persone che non l’hanno letta», aveva detto una settimana fa al Foglio. Il problema, per Caffarra, non sta tanto nel parlare di adeguamento o accomodamento dell’insegnamento cristiano al tempo d’oggi, quanto nel ribadire che c’è una verità che deve fungere da bussola. Concetto che l’arcivescovo di Bologna ha ripetuto anche nell’intervento pronunciato al convegno su Giovanni Paolo II chiuso proprio da Baldisseri: «La nostra ragione è talmente indebolita che sentendo parlare di verità, pensa subito ad opinioni circa il matrimonio, ad una qualche teoria della famiglia. Opinioni alla quali si contrappongono altre opinioni; teorie contestate con altre teorie. E così è accaduto nel mondo di oggi. Il risultato non poteva che essere la convinzione che non esiste alcuna verità circa il matrimonio», ha detto il cardinale Caffarra.

Sul tema è intervenuto nuovamente anche il prefetto della congregazione per la Dottrina della fede, il cardinale Gerhard Ludwig Müller. Presente a Capua per presentare il sesto volume dell’opera omnia di Joseph Ratzinger – Benedetto XVI e per ritirare il premio assegnatogli dall’associazione “Tu es Petrus”, il porporato tedesco ha espresso ben più di una riserva quando sente «cardinali che vanno in giro parlando di tante cose». Il tema in oggetto era quello della concessione della comunione ai divorziati risposati e pur senza mai nominare Walter Kasper, Müller ha ricordato che seguire la prassi ortodossa e quindi autorizzare il riaccostamento sacramentale a chi ha dato vita a una seconda unione «significherebbe tradire la volontà e la parola del Signore» e proprio per questo «non possono essere riconosciute». Una chiusura netta, quella del prefetto già vescovo di Ratisbona, che si colloca sulla scia di quanto da egli stesso già dichiarato in altre circostanze, a partire dal lungo articolo pubblicato il 22 ottobre scorso sull’Osservatore Romano. In ballo c’è quel falso concetto di misericordia “slegato dalla verità” contro cui s’è scagliato anche il cardinale conservatore Raymond Leo Burke, intervenendo qualche giorno fa alla Catholic University of America di Washington. Sulla stessa linea, benché con maggiore prudenza, sembra essersi inserito anche il cardinale Sean O’Malley, arcivescovo di Boston che pure può vantare un solido e stretto rapporto di collaborazione con Francesco. Certo, ha detto O’Malley, «si cercherà di aiutare chi ha sperimentato il fallimento del matrimonio», ma «la Chiesa non muterà il suo insegnamento sull’indissolubilità del matrimonio». Già lo scorso febbraio, intervistato da John Allen per il Boston Globe, l’arcivescovo della capitale del Massachusetts si era mostrato refrattario a cambiamenti in materia: «Non vedo alcuna giustificazione teologica per mutare l’atteggiamento della Chiesa sulla riammissione dei divorziati risposati ai sacramenti».

© LA NUOVA BUSSOLA QUOTIDIANA

Lo “zeitgeist” è una boiata

di Matteo Matzuzzi (06/03/2014)

“L’idea che la dottrina possa essere separata dalla prassi pastorale della Chiesa è diventata prevalente in molti ambienti, ma questa idea non corrisponde né è mai corrisposta a ciò che è la fede cattolica”. Dal Sant’Uffizio, il cardinale prefetto Gerhard Ludwig Müller risponde indirettamente alla relazione teologica di Walter Kasper sulla famiglia e ribadisce quanto già detto nel lungo intervento pubblicato sull’Osservatore Romano lo scorso ottobre: non si può separare ciò che Dio ha unito. Müller tiene il punto anche davanti alle dichiarazioni aperturiste di eminenti porporati che da mesi invocano un rapido adeguamento dell’insegnamento della chiesa ai tempi correnti, non più rappresentati dal dettato della Humanae Vitae di Paolo VI e dalla Familiaris Consortio di Giovanni Paolo II. Il cardinale progressista Reinhard Marx aveva suggerito al prefetto custode della Fede con toni ben poco diplomatici di rimanere al suo posto, visto che nessuno gli aveva dato la patente per “bloccare discussioni avviate da altri”, chiaro riferimento al Sinodo straordinario convocato dal Papa. Müller però non retrocede e rispedisce al mittente anche le teorie secondo le quali l’insegnamento cattolico in fatto di morale sarebbe soggetto ad aggiornamenti secondo i costumi del tempo: “Dobbiamo stare molto attenti quando parliamo dell’insegnamento della Chiesa. Sarebbe fuorviante se con la parola ‘cambiamento’ intendessimo negare o respingere ciò che è stato fatto fino a ieri. Io preferirei parlare di sviluppo dell’insegnamento della chiesa”, dice al National Catholic Register. “Gli insegnamenti della chiesa sono radicati nella persona di Cristo, nel mistero dell’autorivelazione divina”. Non si può mutarli, adeguarli allo Zeitgeist e alle aspettative di chi invoca cambiamenti alla dottrina senza neppure conoscerla, fatto “deprecabile”, diceva severo il custode dell’ortodossia cattolica qualche giorno fa, commentando i risultati del questionario sulla famiglia inviato lo scorso novembre alle diocesi in giro per il mondo. “C’è sempre una continuità in ciò che la Chiesa insegna”, e questo concetto deve essere ben presente anche quando si considera la questione della riammissione ai sacramenti dei divorziatiti risposati: “L’insegnamento di Cristo e della sua chiesa è chiaro, un matrimonio sacramentale è indissolubile. In secondo luogo, le persone la cui condizione di vita contraddice l’indissolubilità del matrimonio non possono essere ammesse all’eucaristia”. Certo, “i pastori e le comunità parrocchiali sono tenute a stare accanto ai fedeli che si trovano in questa situazione”. Nulla di più, perché se da un lato bisogna aiutare i divorziati affinché non si considerino separati dalla chiesa, dall’altro vale quanto scritto nella Familiaris Consortio: “I divorziati risposati contraddicono oggettivamente quell’unione di amore tra Cristo e la Chiesa, significata e attuata dall’eucaristia”, aveva scritto il prossimo santo Giovanni Paolo II. E’ forte però la sensazione che si sia nell’imminenza di una svolta attesa anche da parte dell’episcopato, che pubblicamente dichiara la necessità di archiviare quanto (come l’Humanae Vitae) “crea solo confusione”. Il problema, secondo Müller, è che “i media laici fraintendono la Chiesa”, trattandola come fosse un’entità meramente politica e dimenticando che “la missione del Papa è di essere fedele agli insegnamenti di Cristo e della sua Chiesa. Può trovare modi nuovi e creativi per essere fedele a questi insegnamenti, ma per il Pontefice la realtà più profonda è la fedeltà continua a Cristo. E se i media hanno creato aspettative fuori luogo, è un peccato”.

© – FOGLIO QUOTIDIANO

La falsa obbedienza e l’”Osservatore Romano”

di Fabrizio Cannone (08/01/2014)

S. Tommaso, parlando dell’obbedienza e della disobbedienza, fissava i paletti dell’obbedienza virtuosa e legittima (cf. Somma Teologica, II-II, q. 104-195), affermando che «due sono i motivi per cui un suddito può non essere tenuto a ubbidire in tutto al proprio superiore. Primo, per il comando di un’autorità più grande».

E citava la Glossa di Pietro Lombardo che insegna così: «Se quindi l’imperatore comanda una cosa e Dio comanda il contrario, si deve ubbidire a Dio senza badare all’imperatore». E poi proseguiva: «Secondo, un suddito non è tenuto a ubbidire al superiore se questi gli comanda delle cose nelle quali il suddito non è a lui sottoposto (…). Perciò nelle cose riguardanti i moti interiori della volontà non siamo tenuti a ubbidire agli uomini, ma soltanto a Dio».

Sull’Osservatore Romano del 29 dicembre 2013 c’è un lungo articolo di Maurizio Gronchi che riabilita il pensiero di Theilard de Chardin, annullando l’importante Monitum emesso dal Sant’Uffizio contro il gesuita francese il 30 giugno del 1962. Di per sé non esiste nessun obbligo di “obbedire” alle prese di posizione di un quotidiano, e nemmeno di un quotidiano cattolico, ma “L’Osservatore” non è un quotidiano come gli altri. Nato per volontà del beato Pio IX, è l’unico giornale stampato all’interno dello Stato Città del Vaticano.

Il direttore è nominato dal Romano Pontefice e la testata esprime, logicamente, il pensiero della Santa Sede. Certo, quando si tratta di cultura, politica ed economia i redattori hanno una più grande libertà, ma questa libertà sarebbe induzione all’errore se vi si pubblicassero degli articoli contrari alla fede della Chiesa, al Magistero ecclesiastico e alla Tradizione. Questo caso purtroppo non è puramente ipotetico e l’articolo di riabilitazione del padre Theilard de Chardin ha almeno una valenza positiva: precisare meglio i limiti dell’obbedienza. Chi magari per desiderio di santa obbedienza al Sommo Pontefice Francesco e al suo quotidiano, seguisse la prosa del Gronchi sappia che andrebbe direttamente contro il Monito emesso nel 1962 per volontà del beato Giovanni XXIII.

Tutto ciò è così lampante che il giornalista lo ammette candidamente riportando il magnifico Monitum del Sant’Uffizio e definendolo «controverso e doloroso»: chi segue questo giudizio si oppone in realtà direttamente al Magistero di Giovanni XXIII. Il testo del Monito dichiara: «Certe opere del P. Pietro Teilhard de Chardin, comprese anche alcune postume, vengono pubblicate ed incontrano un favore tutt’altro che piccolo. Indipendentemente dal dovuto giudizio in quanto attiene alle scienze positive, in materia di filosofia e teologia si vede chiaramente che le opere menzionate racchiudono tali ambiguità ed anche errori tanto gravi, che offendono la dottrina cattolica».

Purtroppo il Magistero della Chiesa non piace a Maurizio Gronchi, il quale esalta Theilard oltre ogni plausibile lode, perfino ingannando il lettore con citazioni fuorvianti ed estrapolazione di giudizi. Secondo il Gronchi il pensiero dell’eretico francese contiene al massimo «certe lacune e difficoltà», ma non «ambiguità pericolose e gravi errori». Sull’Osservatore Romano si cita un documento del Magistero dottrinale della Chiesa e lo si giudica «controverso e doloroso». E qui siamo già sul cammino dell’apostasia. Poi si procede ad elogiare senza misura ciò che il Magistero ha condannato.

Quindi si pretende di correggere il giudizio del Magistero: non vi sarebbero “gravi errori” in Theilard, il quale nega il peccato originale e la distinzione tra materia e spirito, ma solo tollerabili «lacune e difficoltà». A nostro parere, però, se qualcuno vuole obbedire al Magistero della Chiesa, deve “non obbedire”, non accettare, non approvare quanto scritto sull’Osservatore Romano del 29 dicembre 2013.

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Il magistero parallelo dei teologi italiani

I commenti letti nei giorni scorsi sull’opera del teologo morale don Enrico Chiavacci, morto due settimane fa, mettono in rilievo una grande confusione tra ciò che è fedele alla dottrina della Chiesa e le opinioni dei singoli teologi. Come nel caso della legge morale naturale: la concezione di Chiavacci è in aperto contrasto con il magistero, ed è fonte di pericolose ambiguità che aprono, tra l’altro, all’ideologia di genere.

di Giorgio Maria Carbone (09-09-2013)

Il 25 agosto scorso è morto a Firenze, all’età di 87 anni, don Enrico Chiavacci. È un nome che ai più forse non dirà molto, eppure è stata una figura che ha avuto un ruolo importante nella teologia morale italiana. Le sue posizioni sono apparse spesso in contrasto con quanto affermato dal Magistero, ma ciò non ha impedito che fosse per decenni docente nella facoltà di Teologia dell’Italia centrale e i suoi scritti hanno influenzato generazioni di sacerdoti e teologi. Ma ciò che colpisce sono i commenti letti in occasione della sua morte, in cui don Chiavacci appare sorprendentemente una sorta di “custode dell’ortodossia”. Basterebbe leggere i passi dell’omelia dell’arcivescovo di Firenze, cardinale Giuseppe Betori, al suo funerale, riportati da Avvenire («C’è una stretta connessione tra la limpidezza delle intenzioni nel trasmettere la Parola e la correttezza oggettiva dei suoi contenuti»), oppure la testimonianza di Gianni Gennari su Vatican Insider («Fedele alla dottrina….»). Senza voler giudicare la persona e le sue intenzioni, non si può però tacere che il contenuto della teologia morale di don Chiavacci non è affatto in sintonia con la dottrina e il Magistero, e non certo su questioni secondarie, come peraltro dimostra il breve saggio di padre Giorgio Carbone che qui pubblichiamo. La questione va ben oltre la teologia di don Chiavacci, è un problema molto più generale perché non è la prima volta che accade, e dimostra l’esistenza di un vero e proprio “magistero parallelo” che da anni si insegna nei seminari e nelle facoltà teologiche e che, oltretutto, riceve l’avallo anche di diversi vescovi. Con grande confusione per i semplici fedeli.

 «La vera natura dell’uomo è il non aver natura»: questa tesi, enunciata a modo di slogan, la ritroviamo in molti scritti di don Enrico Chiavacci. Letteralmente è nella voce Legge naturale (in L. Rossi e A. Valsecchi (edd.), Dizionario enciclopedico di teologia morale, Paoline 1973, p. 491): «L’uomo non è definibile se non come colui che tende verso, che ha il compito di scegliere se stesso e il proprio cammino di autorealizzazione. La vera natura dell’uomo è il non aver natura. In queste condizioni dedurre dalla natura umana precetti operativi descrivibili e imponibili dall’esterno, dal filosofo, dal sovrano, dallo stesso Magistero ecclesiastico è impensabile». Ma anche più recentemente: «Quando si parla di natura e per conseguenza di legge naturale occorre sempre tenere presente che la natura non è un dato fisso e immutabile valido per tutti e per sempre: è un dato che varia e varia per due motivi. Varia costantemente, anche se in modo impercettibile, con l’evoluzione continua della specie nelle varie aree ambientali e culturali in cui la specie umana sussiste. Varia però anche da individuo a individuo nelle complesse strutture cerebrali e nella loro interazione che oggi la scienza comincia a comprendere e indagare» (Omosessualità, un tema da ristudiare, in Rivista di teologia morale 2010, p. 474).

La presentazione della nozione di natura umana come qualcosa di vago e privo di un contenuto preciso è funzionale a ottenere un risultato: negare il carattere oggettivo, universale e immutabile della legge morale naturale. Di fatti troviamo scritto: «Caratteristica dunque della legge naturale è proprio quella di non essere positiva, cioè non scritta né scrivibile una volta per tutte» (Legge naturale, in L. Rossi e A. Valsecchi (edd.), Dizionario enciclopedico di teologia morale, Paoline 1973, p. 486).

Anche il manuale Teologia morale. Morale generale (Cittadella 1977, pp. 132-153), esprime queste stesse idee. In particolare respinge l’idea della legge morale come insieme di precetti, per il fatto che – a suo dire – il precetto limita l’ambito di esercizio della libertà umana ed è incompatibile con la nozione di coscienza.

Nel leggere questi testi si ha la sensazione di trovarsi davanti a giochi di parole, al compiacimento dell’ambiguità e dell’equivoco. Comunque meraviglia che non ci siano delle definizioni. Eppure un manuale o delle voci di enciclopedie dovrebbero muovere qualsiasi ragionamento proprio da definizioni.

Ebbene il primo equivoco è sul concetto di natura umana rilevante ai fini del discorso etico. Per natura umana non si intende ciò che l’uomo condivide con la natura, cioè qualche caratteristica corporea o la solidarietà con il cosmo. Ma la “natura umana” eticamente rilevante è ciò che caratterizza l’essere umano, rispetto agli altri viventi, e che è all’origine del suo agire. La “natura umana” è il principio essenziale e operativo di ognuno di noi e consiste nella capacità di conoscere e amare gli obiettivi (cioè i fini) della propria vita, sia in astratto che in concreto. In secondo luogo ogni uomo, attraverso l’esperienza conoscitiva e affettiva di se stesso, giunge a conoscere i fini della propria esistenza: questi fini sono segnalati da inclinazioni strutturali e native. Ad esempio l’inclinazione a conservarsi nell’esistenza segnala come fine e bene da compiere (quindi bene morale) l’esistenza fisico-corporea. Poi l’inclinazione a conoscere il reale segnala un altro fine umano e cioè la conoscenza del vero. Quindi, l’inclinazione a vivere in società e ad amare segnala altri fini come l’amore fraterno e l’amore sponsale. Ora la natura umana come sopra definita e i fini segnalati dalle inclinazioni strutturali dell’essere umano sono elementi universali che possiamo riconoscere nelle civiltà umane che si sono succedute nei secoli. E quindi costituiscono l’ossatura del carattere universale e immutabile della legge morale naturale.

Il secondo equivoco è relativo al presunto carattere non precettivo della legge morale naturale. Stupisce che questi molteplici testi dedicati al tema citino sì Tommaso d’Aquino, ma non citino mai questi suoi laconici insegnamenti: «lex non est aliud, nisi dictamen rationis, la legge non è altro che un dettato della ragion pratica» (Somma teologica I-II, 91, 1 e 2); «lex est ordinatio rationis, la legge è un ordinamento della ragione» (Somma teologica I-II, 90, 2 e 4); «lex naturalis est aliquid per rationem constitutum, la legge morale naturale è qualcosa prodotto dalla ragione» (Somma teologica I-II, 94, 1). Le citazioni potrebbero facilmente moltiplicarsi. Ma vogliono dire sempre la stessa cosa: la legge morale, e in particolare la legge morale naturale è un prodotto della ragion pratica, cioè è un enunciato, un giudizio (soggetto, copula e predicato) nel quale il soggetto è un atto umano e il predicato è espresso in termini gerundivi, cioè «da farsi» o «da evitarsi». Quindi, la legge morale naturale si pone come un progetto che precede e orienta un’attività libera e responsabile, sollecita la libertà umana, non la soffoca, ma la conduce al bene integralmente umano.

La legge morale naturale è un insieme di enunciati universali espressi sempre alla forma gerundiva e non va confusa – come sembra facciano i testi di Chiavacci – con il giudizio di prudenza e con il giudizio di scelta. Questi ultimi due giudizi riguardano un atto singolare e concreto: in particolare la virtù cardinale della prudenza dà all’intelletto pratico l’abilità nel formulare il giudizio direttivo dell’atto singolare. Tale giudizio (di prudenza e di scelta) non è semplice deduzione logica, ma è applicazione della legge morale alle circostanze concrete e singolari. È una conclusione che presenta aspetti nuovi e originali, perché alla formulazione di tale giudizio concorrono gli habitus morali personali, le passioni, la volontà di applicare la scienza etica, chiarezza conoscitiva circa la situazione particolare.

Al di là di queste chiarificazioni, un paragrafo (il n. 53) della lettera enciclica del beato Giovanni Paolo II, Veritatis splendor, sembra proprio rispondere al nostro tema: «La grande sensibilità che l’uomo contemporaneo testimonia per la storicità e per la cultura conduce taluni a dubitare dell’immutabilità della stessa legge naturale, e quindi dell’esistenza di “norme oggettive di moralità” valide per tutti gli uomini del presente e del futuro, come già per quelli del passato: è mai possibile affermare come valide universalmente per tutti e sempre permanenti certe determinazioni razionali stabilite nel passato, quando si ignorava il progresso che l’umanità avrebbe fatto successivamente? Non si può negare che l’uomo si dà sempre in una cultura particolare, ma pure non si può negare che l’uomo non si esaurisce in questa stessa cultura. Del resto, il progresso stesso delle culture dimostra che nell’uomo esiste qualcosa che trascende le culture. Questo “qualcosa” è precisamente la natura dell’uomo: proprio questa natura è la misura della cultura ed è la condizione perché l’uomo non sia prigioniero di nessuna delle sue culture, ma affermi la sua dignità personale nel vivere conformemente alla verità profonda del suo essere. Mettere in discussione gli elementi strutturali permanenti dell’uomo, connessi anche con la stessa dimensione corporea, non solo sarebbe in conflitto con l’esperienza comune, ma renderebbe incomprensibile il riferimento che Gesù ha fatto al «principio», proprio là dove il contesto sociale e culturale del tempo aveva deformato il senso originario e il ruolo di alcune norme morali (cf. Mt 19,1-9). In tal senso “la Chiesa afferma che al di sotto di tutti i mutamenti ci sono molte cose che non cambiano; esse trovano il loro ultimo fondamento in Cristo, che è sempre lo stesso: ieri, oggi e nei secoli”. È lui il “Principio” che, avendo assunto la natura umana, la illumina definitivamente nei suoi elementi costitutivi e nel suo dinamismo di carità verso Dio e il prossimo. Certamente occorre cercare e trovare delle norme morali universali e permanenti la formulazione più adeguata ai diversi contesti culturali, più capace di esprimerne incessantemente l’attualità storica, di farne comprendere e interpretare autenticamente la verità. Questa verità della legge morale – come quella del “deposito della fede” – si dispiega attraverso i secoli: le norme che la esprimono restano valide nella loro sostanza, ma devono essere precisate e determinate “eodem sensu eademque sententia” secondo le circostanze storiche dal Magistero della Chiesa, la cui decisione è preceduta e accompagnata dallo sforzo di lettura e di formulazione proprio della ragione dei credenti e della riflessione teologica».

Le premesse vaghe e ambigue da cui siamo partiti conducono, senza però dirlo esplicitamente, verso soluzioni altrettanto vaghe circa questioni di morale sessuale.

Noto solo un particolare stridente. Mentre il nostro Autore parla di una «nuova rigidità» del magistero della Chiesa, cioè «un magistero morale con rigorose normative su specifici comportamenti», primo esempio sarebbe a suo dire la Casti connubi di Pio XI (così in La legge naturale: strumento necessario e urgente ma difficile da maneggiare, in Rivista di teologia morale, 2008, p. 335). Lo stesso Autore accetta come «certezza scientifica» il fatto che «la condizione omosessuale è stata ufficialmente tolta dall’elenco delle psicopatologie» (in Omosessualità, un tema da ristudiare, in Rivista di teologia morale 2010, p. 473). Quando invece è risaputo che nel 1993 l’American Psychiatric Association con una votazione a stretta maggioranza, e senza alcuna evidenza di carattere scientifico, tolse l’omosessualità dalla successiva edizione del Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM): e la questione è ancora dibattuta.

Inoltre, il nostro Autore definisce il fenomeno della transessualità come «realtà incontrovertibile e praticamente immutabile» (in Omosessualità, un tema da ristudiare, in Rivista di teologia morale 2010, p. 475). Quando invece sono noti nella letteratura specialistica casi di persone affette da transessualismo che grazie a percorsi terapeutici sono riuscite ad accettare il proprio corpo, e quindi la disforia di genere è cessata.

Quindi, molti affermazioni gratuite e – per esser buoni – discutibili.

Sesso, quando la suora ne è malata

«Non sono d’accordo con la Chiesa su questo argomento». È sufficiente questa brevissima frase, inserita da suor Marie-Paul Ross a pagina 34 del suo Parliamo di sesso – Perché la Chiesa non deve temere l’eros (Piemme, 2013) per inquadrare questo volume nella giusta prospettiva. Un libro scritto da una suora non fedele al Magistero («Conformarmi alle regole per me è un incubo!», afferma lei stessa, p. 13), che tranne alcuni (rari) barlumi di assennatezza si pronuncia in maniera totalmente difforme alla Chiesa su temi quali la contraccezione, l’aborto, il divorzio, il matrimonio dei sacerdoti… e l’elenco potrebbe continuare. Un testo, insomma, che genera confusione tra i fedeli e che, attraverso le parole di una suora, presenta come accettate da parte della Chiesa opinioni in netto contrasto con l’insegnamento dei Vangeli. Suor Marie-Paul Ross è una suora della congregazione delle “Missionarie dell’Immacolata Concezione”, ma soprattutto è una sessuologa convinta che le persone «non hanno soltanto bisogno di evangelizzazione» (p. 9), bensì hanno bisogno di qualcuno che le aiuti ad avere «una sessualità sana e responsabile» (p. 9), in quanto «l’educazione sessuale è essenziale per mantenere un popolo in buona salute» (p. 39).

Sesso, quando la suora ne è malata

Un magistero parallelo ha impedito di amare i Papi

L’articolo di Rino Cammilleri (“L’effetto Bergoglio dice del nostro tempo”) pubblicato domenica 23 giugno ha provocato diverse reazioni. Pubblichiamo la lettera di don Gabriele Mangiarotti perché esprime bene la radice di un disagio davanti a certe riduzioni che vengono operate nei confronti del Papa, di ogni Papa.

Carissimo Rino,

ho letto con attenzione il tuo articolo. Non so come dire: lo condivido, da un lato, e ne sono in disaccordo totale dall’altro.

È vera la tua descrizione della situazione, fino ai mala tempora di un popolo che non sa più riconoscere la verità di un Pontefice, e ha bisogno di una immagine familiare per riavvicinarsi alla fede.

Ma non condivido le motivazioni. Per me tutta la colpa sta dentro una cristianità ed ecclesiasticità che non ha voluto accogliere e educare il popolo ad amare i Papi che lo Spirito ci ha donato. Quanti seminari sono stati riempiti da un magistero parallelo che niente aveva a che fare con l’insegnamento di Giovanni Paolo II, quanti vescovi hanno infarcito le loro noiose lettere con insegnamenti mondani, dei teologi cosiddetti progressisti… Abbiamo tutti visto il doloroso spettacolo di un funerale celebrato dal Presidente dei vescovi italiani per un sacerdote che si vantava di avere portato personalmente alcune prostitute ad abortire; dove un concelebrante (leggi anche qui) ha affermato pubblicamente di avere come scopo la distruzione dell’insegnamento di Benedetto XVI; dove un «fedele» ha ricevuto dalle mani del Cardinale l’Eucaristia (lui che pubblicamente aveva abiurato la fede cattolica, proclamandosi buddista).

Ho partecipato a Convegni per responsabili dell’Insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche d’Italia (ove si raggiunge più del 90% dei giovani) in cui l’insegnamento ufficiale era quanto meno problematico rispetto al magistero pontificio (leggi qui e qui).

Da anni non vendo più in parrocchia Famiglia Cristiana dopo che ha ospitato la lettera di 63 cosiddetti teologi, che mettevano in discussione l’autorità del magistero in campo morale. E tale lettera non è stata mai smentita dai firmatari.

È il magistero parallelo che ha remato contro il papato (Giovanni Paolo II e Benedetto XVI) responsabile di questa débâcle. Lo stesso magistero che cancella l’insegnamento di Papa Francesco per ridurlo a macchietta folcloristica, e che non sa comunicare quanto è in continuità col magistero di sempre.
Vescovi e teologi che sposano la tesi della «ermeneutica della discontinuità» anche nei confronti di questo Papa, sperando così di mantenere l’accesso ai posti di potere e la visibilità sui mass-media.

C’è però un popolo che sa riconoscere la verità, che ama ancora il Papa e la Chiesa Cattolica, e ha solo bisogno di uomini che sappiano andare «controcorrente», come ha gridato domenica 23 giugno il Papa all’Angelus. C’è un popolo che ha bisogno di mass-media non asserviti al potere, che abbiano il coraggio di essere strumenti e voce della fedeltà alla Chiesa, che la smettano di concepirsi come prime donne orgogliose e vanitose, suscettibili nei confronti di ogni spirito critico, che non escludano collaborazioni perché non ne hanno l’esclusiva (salvo poi dare spazio a chi scrive impunemente su Avvenire, Famiglia Cristiana, la Stampa, Repubblica con una ortodossia assai discutibile).

Credo che bisogna dare voce e strumenti a questo progetto di aggregazione di autentici cattolici, al servizio della Chiesa, con una unità non uniforme e non gelosa. E credo che questo avrà anche ascoltatori, perché delle interpretazioni mondane siamo tutti un po’ stufi. Ad eccezione di coloro che  da questa situazione pensano di ricavarne lustro e prebende (che il mondo rilascia con generosità ai traditori, finché rimangono come «utili idioti»).

* Responsabile di CulturaCattolica.it

I TEOLOGI DISSIDENTI

Se uno pseudo teologo afferma che gli angeli non esistono, oppure che il demonio e l’inferno non esistono, oppure che Gesù non è risorto fisicamente, oppure che il peccato originale è solo un errore dei progenitori, oppure che la S. Messa non è il sacrificio della Croce, ma soltanto un banchetto; oppure che bisogna riconsiderare la presenza reale e la conversione eucaristica perché sarebbero posizioni sbagliate; oppure che la Chiesa e i preti non erano nel pensiero di Gesù storico, ma sono entrambi un’invenzione della comunità cristiana dopo la risurrezione o più tardi; che all’inizio della Chiesa non esistevano i preti che furono inventati nel terzo secolo oppure che la Chiesa è scomparsa nel 3° scolo ed è riapparsa solo col Concilio Vaticano II; oppure che la differenza tra sacerdozio ministeriale e comune sarebbe solo di grado e non di essenza; oppure che il magistero della Chiesa e l’insegnamento del Papa sono un optional; oppure che l’infallibilità del Papa o del Magistero non sono da considerare come punti fissi; oppure che la Tradizione della Chiesa è un elemento ingombrante, perché ciò che conta è solo la moderna esegesi biblica; oppure che il Concilio Vaticano II è stata una rottura rispetto a tuta la Tradizione della Chiesa; oppure che gli insegnamenti morali del Magistero della Chiesa sono solo orientativi, e vanno rivisti, soprattutto in merito ad omosessualità, anticoncezionali, rapporti prematrimoniali, fecondazione artificiale, ecc., oppure che l’ascetica era adatta per gli uomini del Medioevo, ma oggi sarebbe insignificante; e poi, addirittura – al colmo del ridicolo – si afferma pure che chi si attiene all’insegnamento ufficiale della Chiesa avrebbe una fede infantile. Ebbene in questi ed atri casi, siete autorizzati a contestare pubblicamente questi pseudo-teologi e anche ad andarvene (costoro non solo sono dei falsi teologi, ma sono anche dei falsi cristiani), ma soprattutto dovete denunciare, in qualche modo, questi abusi prima all’autorità competente e poi, senza escludere nessuna altra ipotesi, anche alla Santa sede. Il principio enunciato nel Documento della Congregazione per il culto divino Redemptionis Sacramentum, al n. 183, non vale solo per la liturgia, ma anche per la catechesi. 

L’Istruzione sulla vocazione ecclesiale del teologo, emanata il 24 maggio 1990 dalla Congregazione per la Dottrina della Fede con l’approvazione del Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, vide la luce in un contesto che non è giusto dimenticare: venne infatti pubblicata negli anni di massima contestazione e dissenso verso il Magistero. Il contesto storico, senza nulla togliere o aggiungere all’autorevolezza della dottrina insegnata, lo riveste anche della luce della Provvidenza divina.

1. Prologo in Germania e prime manifestazioni del dissenso — Alla fine del 1988 viene diffuso dai mass media mondiali un testo di Bernhard Haring fortemente critico verso il pontificato di Giovanni Paolo II – in particolare per l’appoggio da lui dato alla benemerita opera di Mons. Carlo Caffarra in materia di etica sessuale -, seguito, il 25-1-1989, dalla cosiddetta Dichiarazione di Colonia, firmata da numerosi ed influenti teologi tedeschi, olandesi, svizzeri e austriaci. La prima presa di posizione italiana a favore della citata Dichiarazione, proviene – ovviamente – delle cosiddette Comunità di base (CdB), d’origine brasiliana e di impostazione marxista, che manifestano solidarietà verso il notissimo teologo Hans Kung – che verrà in seguito sospeso dall’insegnamento – e sperano in “un cambiamento di una chiesa autoritaria e centralistica […] consentendo così una reale autonomia delle chiese locali al cui interno si affermino libertà evangelica, democrazia, coscienza critica, uguaglianza, carismi, diritti umani”. La stampa italiana – con la sola eccezione di Inos Biffi su Avvenire  in genere manifesta consenso alla Dichiarazione, mentre dalle colonne del quotidiano comunista Paese Sera, il teologo progressista Giovanni Gennari parla del “momento più difficile” di tutto il pontificato di Giovanni Paolo II, evidenziando come l’azione “repressiva” del Papa non abbia fino a quel momento ottenuto l’effetto desiderato perché, nel mondo teologico, “la pentola, sotto, bolle, e i coperchi hanno cominciato a saltare” e porta ad esempio il fatto che l’autorevolissima rivista progressista Concilium dedichi un servizio speciale al tema delle nomine dei vescovi, uno dei punti centrali della Dichiarazione di Colonia. Dal canto suo, Francesco Margiotta Broglio, dalle colonne del Corriere della Sera, dà spazio all’opinione del teologo Karl Rahner, membro della Commissione Teologica Pontificia, secondo il quale è oggi “molto difficile tracciare con esattezza i confini dell’ortodossia”. Provoca sensazione, infine, la lettera dei giovani comunisti del Triveneto che esprime condivisione di scopi e obiettivi della manifestazione promossa dal movimento Beati i costruttori di pace, con il movimento Pax Christi, il suo presidente Mons. Tonino Bello e con il religioso poeta P. David Maria Turoldo. Alla Dichiarazione di Colonia, i cui sottoscrittori continuano ad aumentare, seguono “dichiarazioni” di intellettuali e teologi francesi, di sessantadue teologi spagnoli, mentre si diffondono costantemente nuovi appelli per il “dialogo nella chiesa” e segnali di dissenso da parte di esponenti di numerosissimi ordini religiosi. Il 15 maggio 1989, finalmente e  purtroppo, anche teologi italiani diffondono il cosiddetto Documento dei sessantatre.

2. Il Documento “dei sessantatre” teologi italiani — Se la presa di posizione delle Comunità di Base non trova molto seguito a causa delle sue tesi estremistiche, più adatte al mondo latino-americano che a quello italiano, con il Documento dei sessantatre, invece, emerge in tutta la sua drammaticità la condizione delle istituzioni teologiche italiane. Si tratta, infatti, del primo manifesto pubblico di dissenso verso il Papa sottoscritto da docenti ed esponenti della teologia e della cultura, la maggior parte dei quali esercita la sua professione in seminari ed istituzioni educative ecclesiastiche. La “Lettera ai cristiani” – diffusa attraverso la rivista Il Regno – Attualità e intitolata “Oggi nella chiesa…” -, nasce dal “disagio per determinati atteggiamenti dell’autorità centrale della chiesa nell’ambito dell’insegnamento, in quello della disciplina e in quello istituzionale”, nonché dalla “impressione che la chiesa cattolica sia percorsa da forti spinte regressive”. I punti su cui i contestatori fanno leva per ignorare o ridimensionare l’autorità del Pontefice sono così sintetizzabili:

  1. il Concilio Vaticano II costituirebbe una “svolta”, radicale e irreversibile, nella “comprensione della fede ecclesiale”;
  2. il Deposito della Fede custodito dalla Sede Apostolica non avrebbe valore in sé,  valore assoluto, ma piuttosto lo otterrebbe per la sua “connotazione pastorale”, la sola che renderebbe possibile “l’interpretazione fedele della verità dentro l’esistenza storica della comunità”;
  3. la Santa Sede si farebbe “condizionare dalla logica mondana”, da una “mentalità di privilegio”,  trascurando lo “stile di Cristo”;
  4. la natura gerarchica della Chiesa Visibile dovrebbe lasciare il posto a una “concezione della chiesa come comunione di chiese;
  5. la funzione magisteriale del primato petrino non escluderebbe la “varietà dei modi di intendere e di vivere la fede che lo Spirito suscita nelle diverse comunità”; 6. la funzione del Magistero Pontificio “nella chiesa delle origini” non era “riducibile alla funzione di guida della comunità” e, pertanto, occorre ripensare tale funzione;
  6. non si dovrebbe parlare di infallibilità del Magistero, anche di quello ordinario universale, ma della sua funzione “pastorale”;
  7. la liceità dei pronunciamenti del Magistero in materia di etica sarebbe “certamente necessario approfondire”;
  8. il compito dei teologi non si svolge solo “divulgando l’insegnamento del magistero e approfondendo le ragioni che ne giustificano le prese di posizione” ma, piuttosto, “quando raccolgono e propongono le domande nuove […] o quando percorrono […] sentieri inesplorati”. Nonostante l’ambiguità di alcune affermazioni, ritengo superfluo commentare queste tesi per la loro evidente pericolosità.

3. L’elenco dei firmatari L’elenco dei firmatari è il seguente: Attilio Agnoletto (Università Statale di Milano), Giuseppe Alberigo (Università di Bologna), Dario Antiseri (Università LUISS di Roma), Giuseppe Barbaccia (Università di Palermo), Giuseppe Barbaglio (Roma), Maria Cristina Bartolomei (Università di Milano), Giuseppe Battelli (Istituto per le Scienze Religiose Bologna), Fabio Bassi (Bruxelles), Edoardo Benvenuto (Università di Genova), Enzo Bianchi (Comunità di Bose), Bruna Bocchini (Università di Firenze), Giampiero Bof (Istituto Superiore di Scienze Religiose Urbino), Franco Bolgiani (Università di Torino), Gianantonio Borgonovo (Seminario arcivescovile di Venegono, Milano), Franco Giulio Brambilla (Seminario arcivescovile di Venegono, Milano), Remo Cacitti (Università di Milano), Pier Giorgio Camaiani (Università di Firenze), Giacomo Canobbio (Seminario di Cremona), Giovanni Cerei (Roma), Enrico Chiavacci (Studio teologico fiorentino), Settimio Cipriani (Facoltà teologica dell’Italia meridionale, Napoli), Tullio Citrino (Seminario arcivescovile di Venegono, Milano), Pasquale Colella (Università di Salerno), Franco Conigliano (Università di Palermo), Eugenio Costa (Centro Teologico di Torino), Carlo d’Adda (Università di Bologna), Mario Degli Innocenti (Istituto per le Scienze Religiose Bologna), Luigi Della Torre (Direttore di “Servizio della parola”, Roma), Roberto dell’Oro (Seminario arcivescovile di Venegono, Milano), Severino Dianich (Studio Teologico Fiorentino), Achille Erba (Comunità San Dalmazzo, Torino), Rinaldo Fabris (Seminario di Udine), Giovanni Ferretti (Università di Macerata), Roberto Filippini (Studio teologico interdiocesano, Pisa), Alberto Gallas (Università del Sacro Cuore, Milano), Paolo Giannoni (Studio Teologico fiorentino), Rosino Gibellini (Direttore Editoriale Queriniana, Brescia), Réginald Grégoire (Università di Pavia), Giorgio Guala (Alessandria), Maurilio Guasco (Università diTorino), Giorgio Jossa (Università di Napoli), Siro Lombardini (Università di Torino), Italo Mancini (Università di Urbino), Luciano Martini (Università di Firenze), Alberto Melloni (Istituto per le Scienze Religiose, Bologna), Andrea Milano (Università della Basilicata), Carlo Molari (Roma), Dalmazio Mongillo (Roma), Mauro Nicolosi (Istituto di scienze religiose di Monreale, Palermo), Flavio Pajer (Istituto di liturgia pastorale, Padova), Giannino Piana (Seminario di Novara), Paolo Prodi – fratello del politico Romano Prodi (Università di Bologna), Armido Rizzi (Centro S. Apollinare, Fiesole)Giuseppe Ruggieri (Studio teologico S. Paolo, Catania), Giuliano Sansonetti (Università di Ferrara), Luigi Sartori (Seminario maggiore, Padova), Cosimo Scordato (Facoltà teologica sicula, Palermo), Mario Serenthà (Seminario arcivescovile di Venegono, Milano), Massimo Toschi (Lucca), Davide Maria Turoldo (Priorato S. Egidio, Sotto il Monte), Maria Vingiani (Segretariato attività ecumeniche, Roma), Francesco Zanchini (Università abbruzzese, Teramo), Giuseppe Zarone (Università di Salerno).

4. L’istruzione “Donum veritatis” e la reazione dei dissidenti — Circa un anno dopo la presa di posizione dei teologi italiani – ossia dopo un tempo brevissimo per le consuetudini della Sede Apostolica -, la Congregazione per la Dottrina della Fede emette il chiaroveggente documento citato all’inizio di questo articolo, cioè l’istruzione Donum veritatis,sulla vocazione ecclesiale del teologo. Anche questo documento viene purtroppo accolto con viva ostilità da teologi contestatori vecchi e nuovi. Il quotidiano cattolico ufficiale di Francia La Croix l’accusa di porre “la libertà del teologo dello spazio ristretto di una obbedienza molto spirituale al magistero”, mentre il segretario dell’Associazione teologica spagnola, Juan José Tamayo sostiene che l’Istruzione “lascia ai teologi un unico compito, quello di essere la claque del magistero”. Seguono pure un “manifesto” di protesta della Società Teologica Cattolica d’America e la “Dichiarazione di Tubinga”, del 12 luglio 1990, firmata da ventidue professori di teologia tedeschi, olandesi e svizzeri, in cui si chiede che il Papa rinunci all’infallibilità in materia morale. In Italia, la ribellione è meno organizzata dell’anno precedente, ma comunque significativa. Se da testate giornalistiche come Il Manifesto, La Repubblica, Il Corriere della Sera, vengono i consueti tentativi di inasprire i problemi ecclesiali, giunge invece inaspettato un editoriale del diffusissimo periodico Il Regno-Attualità intitolato Richiesta di speranza, secondo il quale la figura di teologo prospettata dalla Santa Sede sarebbe in opposizione al Concilio Vaticano II. Sul quotidiano Il Secolo XIX, il noto progressista padre Ernesto Balducci si rammarica per la mancata nascita di una chiesa popolare, che tragga la sua autorità dal basso. Gravissima è pure l’ospitalità data dal più diffuso settimanale cattolico d’Italia a Severino Dianich, già firmatario della Lettera ai cristiani del 1989, il quale sostiene che “c’è oggi nella Chiesa una tendenza ad allargare gli spazi dell’autorità rispetto a quelli della libertà della ricerca”. Non mancano le Comunità di Base (CdB), che per bocca di don Franco Barbero chiedono all’allora cardinale Ratzinger di occuparsi non già dei teologi ribelli ma piuttosto di quelli “eccessivamente obbedienti”.  

A più di vent’anni dai fatti qui narrati, viene da chiedersi: il movimento di dissenso è sparito o soltanto entrato “in sonno”? I teologi firmatari delle varie dichiarazioni hanno modificato le loro posizioni oppure hanno continuato ad insegnarle? Con quale danno per gli studenti? Siccome siamo sicuri che nessuno di loro è stato rimosso dal suo  incarico, ma che tutti lo hanno conservato, ci chiediamo: se lo hanno conservato, hanno ritrattato le teorie che avevano sottoscritto? Ricordiamo a tutti che i teologi, di per sé, non sono magistero, non sono da obbedire come il Papa, i vescovi, ecc. Quindi un teologo che pretenda di porsi come un “magistero parallelo” non solo è abusivo, ma è anche ridicolo. Ogni cosa che ci viene proposta deve essere confrontata col Catechismo della Chiesa Cattolica e i documenti ufficiali della Chiesa. Ricordiamo le illuminate parole dell’ex Card. Ratzinger, oggi Papa Benedetto XVI, a proposito della fede della Chiesa: “Ogni cattolico deve avere il coraggio di credere che la sua fede (in comunione con quella della Chiesa) supera ogni “nuovo magistero” (ogni “magistero parallelo”), degli esperti, degli intellettuali” (Rapporto sulla Fede, Edizioni Paoline, 1985, p. 76).