Quel borghese che per primo sfrattò il crocifisso dalla aule: Don Milani

Superbia, vanagloria, ingenuità, illusioni, vizi e ideologia borghesi nel Priore di Barbiana, marxista immaginario…

di Tea Lancellotti & Antonio Margheriti Mastino, da Papale Papale (17/06/2012)

Ancora non è scoppiato il post-concilio. Ancora non c’è neppure il concilio, non è finito almeno. Eppure sembra esplodere, ancora vivente, il mito di don Milani, sino a diventare un’icona del movimento studentesco del 68, benché fosse già morto. Questo è il prete che vuole “formare coscienze” alfabetizzando i fedeli, proponendo le letture e i commenti collettivi dei giornali. Sembra il primo a dichiarare l’insufficienza del vangelo. I suoi peccati sembrano ancora solo peccati contro la comunità, peccati politici, non ancora dottrinali. Sembra tutto buona volontà. Uomo di buona volontà. Sembra. Eppure Milani anticipa, in piccolo e in modo edulcorato, l’impazzimento clericale, la contestazione intraecclesiale che seguì il ’68. Egli sembra davvero l’antesignato di tutto ciò. Senza che si togliesse di dosso una sola volta la talare. Dopo, se fosse sopravvissuto, probabilmente l’avrebbe gettata alle ortiche pure lui e si sarebbe dato forse al comunismo, forse al socialismo, magari al radicalismo, pensiamo. Quel che è certo è che don Milani diventa subito un prete popolarissimo, celebratissimo da tutta l’intellighenzia radical, di sinistra, anticlericale, anticattolica. Persino la sorella della Fallaci, Neerea, gli dedica un enorme libro encomiastico, dove, in 800 pagine, non c’è più nulla di cattolico e c’è, invece, molto di “chiesa nuova”, di superamento della “chiesa”; e, da un certo punto in poi, di “superamento” dello stesso cristianesimo. Ma chi è don Milani?

ALLE ORIGINI DEL FENOMENO “DON MILANI”. LA MITOLOGIA DEI “PROFETI INASCOLTATI”

Per capirlo, è utile partire da un punto ben preciso. Prendere coscienza, cioè, del fatto che, sia prima che dopo il Concilio, assistiamo ad una serie di esternazioni di sacerdoti che hanno poi fomentato e fornito gli slogan del dissenso all’insegnamento della Chiesa. Nel momento in cui san Pio X condannò apertamente il modernismo, non fece altro che portarlo allo scoperto e far emergere, in tal senso, coloro che erano animati da questo spirito falso e bugiardo. E’ da quel momento che cominciano ad affermarsi e a formarsi taluni sacerdoti che, a partire dal pontificato di Pio XII, si metteranno in una situazione ambigua. Cavalcando l’onda del rinnovamento e dei “tempi nuovi” – l’aria di un Concilio imminente – seppero tenersi in un gran gioco di equilibrio che permetteva loro di farsi sopportare dalla Chiesa, senza essere scomunicati come eretici, anche se venivano emarginati per le loro idee moderniste: da questa postazione apparentemente precaria diedero origine al mito dei “profeti inascoltati”. Si parla di Nouvelle Theologie, di modernismo, di cambiamenti, di rinnovamento dottrinale, di marxismo, ecc… In poche parole, parliamo del tarlo dell’eresia (che letteralmente significa “pensare diversamente”), tanto antico quanto nuovo, che ha sempre messo a dura prova la pazienza della Chiesa, ma anche richiamato la sua materna attenzione a non gettare via tutto, trattenendo ciò che è buono (cfr 1Tess.5,21); i nomi pure sono oramai noti, così come è nota la patetica difesa dei loro discepoli: preti incompresi, profeti inascoltati, sacerdoti umiliati (dalla Chiesa), e via dicendo! Come abbiamo specificato nell’articolo dedicato a Padre Turoldo, è importante che anche questo scritto non si focalizzi esclusivamente sui difetti, sulle idee errate di questi sacerdoti e magari sul giudizio relativo alle loro persone. E’ importante, invece, che, salvaguardando la loro fede personale e la loro vita sacerdotale, ci dedichiamo esclusivamente alla Dottrina della Chiesa e, in base a questa, valutiamo ciò che venne di buono dal loro operato e ciò che, invece, bene non fu e che venne dalle loro predicazioni infarcite di modernismo e marxismo. Il lettore attento non mancherà di notare questo nostro modo di procedere.

UNA VECCHIA STORIA: LA CHIESA MATRIGNA E I SACERDOTI “PROFETI” GLI UNICI “BUONI E ALTRUISTI”

Per comprendere meglio le origini della popolarità e del mito di questi sacerdoti, sarebbe interessante andarsi a leggere la prima enciclica della Chiesa sulla questione sociale, la Rerum Novarum di Leone XIII del 1891, e di lì a seguire tutto l’iter dottrinale e pastorale proclamato e abbracciato dalla Chiesa fino ad oggi. Qui non abbiamo lo spazio necessario, ma vi consigliamo di studiare a fondo la dottrina sociale della Chiesa. E’ importante per capire la sostanziale differenza tra il reale insegnamento magisteriale e le deformazioni che subisce in certe pretese clericali, che diventano “critiche”. Che mai sono avanzate contro le mode sociali del momento, vere responsabili dei danni che l’uomo e le famiglie subiscono, ma sempre “contro” la Chiesa. Come se davvero la colpa di determinate situazioni mondane fosse sua, a prescindere solo “sua”. Tanto è vero che tutta questa schiera di sacerdoti – chi più, chi meno, chi in buona fede e chi meno – simpatizzeranno sempre con il socialismo, con il comunismo. Fino al radicalismo di una pretesa di “rinnovamento della Chiesa” che nelle loro intenzioni doveva essere un “demolire” anche la dottrina, l’etica e la morale cattoliche: in una parola, a interpretare in modo “nuovo e moderno” i Dieci Comandamenti. Che poi, come la storia contestataria ha dimostrato, qui pure, si riduce a una “demolizione” degli stessi Comandamenti. Nasce così il prete operaio, il prete popolare, come se, fino a quel momento, la Chiesa non fosse mai stata operaia e popolare, ma piuttosto una matrigna con la puzza sotto il naso, snob e indelicata verso i poveri, verso gli operai, verso gli oppressi.

DA UNA FAMIGLIA AGIATA E INTELLETTUALE. UN PRETE CHE NESSUNO VUOLE

Il primo parroco di don Milani, don Pugi, dopo ripetute pressioni al suo vescovo per avere un aiuto, si sente rispondere in questo modo dal vicario generale: “Abbiamo tra gli altri sacerdoti novelli anche un tipo che nessuno vuole: una vocazione adulta. Un ragazzo (..) ricuperato da don Bensi, e che già in seminario ha fatto un po’ confondere. Se tu te la senti di prenderlo e di provare!…“. Don Pugi replica: “A me va bene in tutti i modi: purché dica Messa e confessi. Per il resto, ci arrangeremo”. Senza dubbio, alcune circostanze della sua vita pongono don Milani già lontano dalla tradizione dottrinale della Chiesa. E’ pronipote del filologo Domenico Comparetti e di sua moglie Elena Raffalovich, sostenitrice e creatrice di giardini d’infanzia froebeliani; è nato in una famiglia agiata, intellettuale, non cattolica praticante e con tendenze anticlericali; è stato battezzato solo per timore delle ripercussioni fasciste, visto che la madre è ebrea, anche se lontana dalla pratica religiosa. Tutte queste circostanze devono aver giocato un ruolo formativo nella coscienza di Milani. Riguardo alla sua stessa conversione, non ha mai parlato di un evento particolare, di un fatto specifico: si sa solo che il lungo dialogo con don Raffaele Bensi, suo direttore spirituale, lo portò a diventare cattolico praticante e, nello stesso anno, il 1943, ricevette la cresima ed entrò in seminario. Nel 1947 divenne sacerdote a Firenze: una conclusione alquanto anomala che sottolinea la responsabilità dei formatori nei seminari dal momento che Milani espresse, fin dal primo anno, insofferenza ed inquietudine per l’obbedienza; malcelata indisposizione verso la gerarchia; critiche al cerimoniale ecclesiastico, molti elementi del quale erano per lui inutili, falsi, e ben lontani dal messaggio del vangelo. Altro non si sa, ma appare evidente che un sant’Alfonso M. de Liguori non avrebbe mai approvato un simile candidato senza aver tentato, con ogni mezzo, di fargli comprendere le ragioni di un certo cerimoniale ecclesiastico e l’importanza della liturgia e dell’obbedienza, prime virtù del cattolico, del sacerdote soprattutto. Obbedienza che, per altro, don Milani pretenderà poi dai suoi ragazzi (anche se cercò di non usare mai il termine con loro), senza ricordare che questa sarebbe arrivata spontaneamente se egli per primo ne avesse dato testimonianza. Suo, del resto, il nuovo motto – l’obbedienza non è più una virtù – che analizzeremo più avanti. Tra questa sfiducia dei superiori e la fiducia del povero parroco bisognoso di aiuto “per dire Messa e confessare” comincia la missione di Don Milani. Come ripeteva Madre Teresa di Calcutta e come ripete Benedetto XVI oggi, si sa che il Signore sa scrivere dritto su “righe storte” e sa portare avanti il Suo progetto anche con strumenti poveri. Don Milani avrebbe dovuto cominciare così, semplicemente confessando e dicendo Messa, ma non gli basterà. Del resto, è anche vero che nel cristianesimo si deve osare, si deve azzardare, si deve progredire ma anche lasciarsi correggere, avanzare con mansuetudine, affidarsi alla Chiesa che è maestra: solitamente, però, si prende per buona solo la prima parte e si omette la seconda.

MANSUETO. MA CRITICA LA CHIESA E TRASCURA O FA RESISTENZA PASSIVA ALLA LITURGIA

Don Milani era mansueto, buono, come la gran parte di questi sacerdoti i quali erano davvero mossi da uno spirito umanitario che potesse soccorrere i più bisognosi, gli emarginati. Ciò che questi sacerdoti non comprendevano, però, è che il nemico non era la dottrina della Chiesa ma il cambiamento della società che andava sempre più secolarizzandosi e, in quegli anni, comunistizzandosi. Una società in cui la “questione sociale” prendeva il posto dell’autentico messaggio del Vangelo sull’essere operatori di pace. Messaggio che travisarono: trasformando il tutto in un pacifismo ideologico e a tratti, paradossalmente, violento. Un pacifismo in cui la nemica della pace nel mondo e della risoluzione dei problemi dei deboli diventava – in una incredibile rilettura della realtà – la Chiesa con il suo insegnamento. Secondo questi nuovi “profeti”, sarebbe stato sufficiente che la Chiesa modificasse le sue dottrine e i poveri non sarebbero stati più poveri. Bella utopia. In un libro assai interessante, Incontri e scontri con Don Lorenzo Milani (che citeremo spesso in questo articolo), che ha tanto di imprimatur sia dell’Ordine Domenicano quanto ecclesiastico, edito nel 1977 e scritto dal domenicano fr. Tito Centi, che lo conobbe personalmente, si comprende l’origine del problema riguardo a questo sacerdote cappellano che lo condurrà poi ad agire per conto proprio: “Don Milani aveva un gran cuore, una disponibilità quasi illimitata, quando si trattava di aiutare il prossimo. Si occupava volentieri dei ragazzi e dei giovani, per i quali aveva organizzato una specie di scuola serale. S’interessava dei malati, ed era molto sensibile alla benevolenza e all’amicizia. “Scarso era, invece, il suo impegno per la vita liturgica della parrocchia, la quale avrebbe avuto bisogno di un buon cappellano per risorgere dal suo stato di languore intollerabile. Per questo aspetto, però, il prevosto, nonostante la sordità galoppante, doveva arrangiarsi da solo: il cappellano non se la sentiva di aggiungere una sola nota agli stonatissimi vespri domenicali, ai canti delle benedizioni o delle processioni. Il prete giovane non aveva né voce né voglia di cantare. “Don Pugi ne tollerava paternamente la resistenza passiva, ben sapendo di non avere i mezzi per vincerla. Apprezzava l’intelligenza e la cultura del suo giovane aiuto, ma non se la sentiva di sposarne le tesi azzardate e pericolose”.

NON È MARXISTA, MA PROPONE DOTTRINE CATTO-COMUNISTE

Don Milani cominciò così a camminare controcorrente (ma sembre in direzione di colà dove lo spirito del mondo soffiava). Una domenica in cui si teneva la Giornata della stampa cattolica, durante l’omelia aveva osato paragonare l’Avvenire d’Italia (giornale all’epoca cattolico) all’Unità. A quel punto Don Pugi non poté tacere e finita la predica disse ai fedeli: “Non date retta a quel che ha detto il cappellano!”. Milani, che era di buona indole, non reagì, sapendo di dover essere riconoscente all’anziano parroco che lo aveva accolto nella sua parrocchia quando nessuno lo voleva. Milani non era neppure comunista. Il punto è che era come padre Turoldo, don Bello, ed altri. Essi non si schieravano affatto nelle file comuniste o socialiste, ma ne sposavano le idee, facendo un bel sincretismo con la dottrina cristiana e dando origine ad una formazione nuova che si ponesse nel mezzo fra la “rigida” – secondo loro – dottrina sociale della Chiesa e le estremizzazioni politiche della sinistra. Pensando, dunque, ad una sorta di centro che potesse andare bene a tutti, il loro desiderio era cambiare la Chiesa e naturalmente cambiare il mondo! Non bastava la DC (e qui non possiamo dare loro torto anche se le motivazioni sono ben diverse): per loro la Democrazia Cristiana era insufficiente ed incapace di dissociarsi dalla guida della Chiesa la quale, secondo un pensiero diffuso tra questi sacerdoti, patteggiava per un proprio tornaconto e non per il bene dei più deboli. Erano necessari, inoltre, preti capaci di uscire dalle sagrestie, capaci di togliersi la casula delle liturgie e scendere in piazza accanto ai “deboli”. Don Milani contestava alla Chiesa l’irrigidimento contro i comunisti, egli voleva una pastorale ecclesiale più “comprensiva” nei loro confronti. Che, per conto loro, in Italia e soprattutto nei paesi dell’Est non lo erano affatto con i cattolici (e per la verità neppure con tutti gli altri: ormai è storia).

A SENTIRE LUI, LA CHIESA SAREBBE DOVUTA ANDARE MANO NELLA MANO COL COMUNISMO

Qui va aperta una brevissima parentesi di carattere storico: la Chiesa – come ricorda Pio XI (1857-1939) nell’enciclica Divini Redemptoris del 1937 (n. 4) – ha condannato il comunismo già prima che fosse pubblicato, nel 1848, il Manifesto del Partito Comunista. Precisamente lo ha fatto nel 1846 con l’enciclica Qui pluribus del beato Pio IX (1792-1878). La stessa Divini Redemptoris – pubblicata cinque giorni dopo l’enciclica sul nazional-socialismo Mit brennender Sorge per evitare l’uso propagandistico della condanna dell’avversario da parte di entrambi i regimi – costituisce la più articolata analisi del fenomeno comunista. La Chiesa, però, non si è certo fermata a questa enciclica: i documenti sono letteralmente centinaia e, fra i più recenti, spiccano l’istruzione della Congregazione per la Dottrina della Fede (allora presieduta dal cardinale Joseph Ratzinger) Libertatis nuntius, del 1984, su alcuni aspetti della “teologia della liberazione”, e i riferimenti al fallimento marxista nelle encicliche Deus Caritas est (2005) e Spe salvi (2007), scritte da Benedetto XVI. Tornando a don Milani, egli, fondamentalmente, non contestava la condanna alle idee marxiste ma la chiusura della Chiesa al dialogo con i comunisti. E’ vero che la differenza è enorme ed oggi siamo tutti d’accordo sull’efficacia di un certo dialogo; ma è altrettanto vero che Milani condannava “l’apertura prudente” della Chiesa – alla fine del pontificato di Pio XII e poi con Giovanni XXIII, in difesa della dottrina cattolica – per pretendere una “collaborazione” più marcata, nella quale le idee comuniste potessero essere in qualche modo cattolicizzate, approvate, e, per farlo, è ovvio, era la Chiesa a dover cambiare. Milani giustificava la tolleranza che bisognava avere con chi non la pensasse come i cattolici. Così, secondo lui, se la Chiesa avesse modificato le sue dottrine, se le avesse almeno ammorbidite, si sarebbero accorciate le distanze e sarebbe venuta meno la reciproca incomprensione. Storia vecchia, inganno vecchissimo: sappiamo tutti come è andata a finire, ovunque, questa “tolleranza” cattolica, questi “ammorbidimenti” dottrinali, verso i comunisti, che don Milani propugnava. E che più che “tolleranza” erano e si dimostrarono, ove praticati, vera connivenza e collusione. E i cattolici “tolleranti”, ossia collusi col comunismo, finirono molto più a sinistra dei comunisti stessi. E riuscì ciò che ai comunisti non era riuscito: distruggere la chiesa che ricadeva sotto la loro responsabilità; demolendo la fede dei credenti. Furono quei cattolici “tolleranti” e cioè conniventi, che persino quando il PCI, caduto il Muro, dichiarò il suo fallimento e ammise il suo “errore storico” – ossia il comunismo internazionale che avevano professato fin lì con tutti i suoi crimini – sciogliendosi per la vergogna e trasmutando in PDS; ebbene, anche allora, furono quei “cattolici tolleranti” e collusi come li voleva Milani, che entrati nel PCI si erano fatti più comunisti ortodossi degli stessi comunisti storici, sostituendo una religione (la dogmatica comunista) all’altra (la dogmatica cattolica); quei “cattolici tolleranti” lì, divenuti nel frattempo marxisti intolleranti, furono proprio loro i soli a opporsi allo scioglimento del PCI. E furono molti di questi a proporre, con un anacronismo tutto clericale, una “rifondazione del comunismo”. È storia!

DI MALE IN PEGGIO: L’ANTICLERICALISMO TARGATO “CLERO”. LUI PRENDE LE DISTANZE… FORSE

Tuttavia, non era solo questo il punto più caldo. In quegli anni si generò un crescente e preoccupante anticlericalismo che nasceva spesso per opera degli stessi predicatori, sacerdoti, parroci, i quali, dai loro pulpiti lo fomentavano, attaccando le “ricchezze della Chiesa”, sposando le accuse degli anticlericali (che, successivamente, saranno riprese anche dai contestatori peace&love), i quali denunciavano come tale “sperpero” fosse causato dall’ attenzione per la liturgia, considerata elemento “accessorio e inutile”. Soprattutto perché tale sperpero – secondo loro – avveniva a danno del povero, a cui queste ricchezze avrebbero potuto essere devolute. Tuttavia anche in questo caso don Milani prende le distanze: per lui, “spogliare la Chiesa” non rappresentava la soluzione dei problemi e, quando udiva qualche predicatore parlare così, ai suoi ragazzi, che lo guardavano con fare interrogativo, rispondeva “non dategli retta!”. Questo non significa che egli non condividesse del tutto questo modo di pensare. Qui sta forse uno dei nodi della questione: questi sacerdoti inquieti fanno intuire pensieri talmente confusi, al fondo, che spesso risultano contraddittori. Peggio: ambivalenti. Così, a volte, questi “profeti secondo il mondo” danno l’impressione di riuscire incomprensibili persino a se stessi.

I SACERDOTI CONTESTATORI: SE C’È UN PROBLEMA, È COLPA DI ROMA. MA PAOLO VI SCOPRE GLI ALTARINI

Milani era convinto che le obiezioni della piazza fossero valide, ma riteneva che non ci si dovesse scagliare contro il clero: piuttosto – tanto per cambiare – occorreva rivolgersi verso Roma, incapace di saper cogliere nel modo giusto quelle rivendicazioni, di non saperle affrontare, di non essere in grado di metterle a tacere opportunamente con iniziative caritatevoli adeguate. Per lui non era sufficiente condannare e basta: bisognava aprirsi al “dialogo” per far comprendere come vivesse la Chiesa e, naturalmente, apportare dei “cambiamenti”. Il problema con questi sacerdoti e con il clima di quel tempo, che sembrò infinito, consiste nel fatto che la Chiesa si trovò di fronte davvero a “nuove problematiche”. Se è vero che la condanna all’ideologia comunista era ben chiara ed inamovibile, era anche evidente che il protrarsi di una persistente voglia di comunicare “col nemico” non poteva considerarsi una nuova eresia: non potevano essere scomunicati centinaia di sacerdoti, fra i quali don Milani, solo perché volevano tentare con altri metodi ed altre strade di comunicare il Cristo Risorto! In fondo, è questo genere di apertura al dialogo che il Concilio Vaticano II farà propria. Diciamocelo, però, con franchezza: era davvero il Cristo Risorto che si voleva comunicare oppure ciò che si pretendeva era diventare protagonisti dei nuovi cambiamenti, usando come scudo il povero e il bisognoso? Fu questione di cuore o di testa? Di moto della coscienza o di prurigini ideologiche? Eppure bastava ricordare che in Italia quasi sempre solo la cattolica si era occupata dei bisognosi: la prima e la sola a lungo che fonda ospedali, orfanotrofi, mense, scuole, che permette a figli di contadini di diventare principi della chiesa e papi anche, la sola, a Roma, che durante i rastrellamenti nazisti si premura di nascondere gli ebrei persino in casa del papa. E questo solo per fare un esempio. Ma allora di cosa si sta parlando? Siamo al solito schema ideologico che ignora la realtà pur di avere “ragione”, la quale per essere tale deve per forza prescindere dagli elementi di fatto che altrimenti la smentiscono? Sta di fatto che per questi qui, ad un certo punto, per un incantesimo degli arcana imperia, la Chiesa oltre che la Grande Prostitura, la Gran Cieca e Sorda, la Gran Ignava, la Gran Aristocratica, la Gran Sazia e Indifferente, è diventata pure non solo la Grande Egoista, ma pure, forse, quasi, si direbbe: la causa di tutti i mali, di tutte le menzogne, di tutti i silenzi, e i peccati in omissioni, opere e parole. Cosa significa tutto questo? Che senso ha? Perchè all’improvviso sono proprio dei preti a sostenere tutto questo, ossia le più viete calunnie del peggiore anticlericalismo da manuale volterriano? C’è un aneddoto significativo su Paolo VI, raccontato dal suo segretario personale: stanco delle ripetute richieste di riduzione allo stato laicale da parte di membri del clero, volle incontrare uno di questi e in privato cercare di capire le motivazioni reali dietro a tante dolorose richieste. Inizialmente, il prete comincia la sua tiritera in difesa dei poveri, del prete operaio, di una maggiore comprensione verso gli atei, della rinuncia alla talare, rea di non consentire certe azioni libere, ecc…. Mentre parla, cita più volte don Milani come maestro, ma Paolo VI avverte che qualcosa non va e insiste con le sue domande. Alla fine, il prete, come si fosse sentito scoperto, cede: “Rivoglio la mia libertà, ho conosciuto una donna…”. Paolo VI s’irrigidisce, è avvilito e si sente tradito. Così gli dice: “Tu sei stato sempre libero! Non puoi accusare ora la Chiesa di schiavitù. L’hai sposata liberamente, ed ora sei tu a tradirla. Sii almeno coerente e non dare la colpa alla Chiesa. Don Milani non avrebbe mai approvato un simile tradimento (..) ti concederò lo stato laicale, quanto alla libertà l’avevi, la Chiesa non te l’ha mai tolta, sei tu che l’hai tradita…”.

SE L’OBBEDIENZA SMETTE DI ESSERE UNA VIRTÙ. IL “PECCATO” SMETTE DI ESSERE E BASTA

Lo stile di Milani era quello caratteristico del dissenso, crescente contro l’apparato ecclesiale e i reggenti della politica: in sostanza, contro chi non gli dava ragione. Non parlava mai – soprattutto nelle lezioni morali e di etica – di quella responsabilità e di quel disagio di cui soffriamo e che hanno una sola origine, che egli pareva volesse dimenticare: il peccato originale, col corteo dei vizi capitali, e la cattiva volontà personale. A proposito del dissenso, una delle frasi più famose di don Milani è “L’obbedienza non è più una virtù”. Questa frase, usata indebitamente come slogan, deve essere spiegata. Nel 1965, a seguito del comunicato di congedo di un gruppo di cappellani militari, nel quale ci si dissociava dall’obiezione di coscienza e si difendeva il militarismo in difesa dello Stato e della patria, don Milani scrive una lunga lettera in risposta. Egli anticipa i tempi nei quali – e lo vediamo oggi – l’obbligo al servizio di leva non c’è più e si batte per un’ obiezione di coscienza che, per la verità, è sempre stata difesa nella Chiesa, fin dai primi secoli. La stessa conversione al cristianesimo di non pochi legionari romani interpellava la Chiesa e gli stessi cristiani sul comportamento da tenere laddove la difesa di uno Stato prevedesse la soppressione di innocenti, specialmente in tempi in cui i perseguitati erano proprio i cristiani. Tuttavia, don Milani sbaglia quando in questa lettera dice: “È troppo facile dimostrare che Gesù era contrario alla violenza e che per sé non accettò nemmeno la legittima difesa”. È vero che Gesù non accettò per sé la legittima difesa (del resto è Lui stesso che dice che era venuto proprio per questo, per essere crocefisso), ma non ha mai detto ai suoi di non difendersi, soprattutto non ha mai detto che è lecito lasciare morire un popolo inerme in balia di dittature, sopraffazioni e quant’altro. Egli, il Signore non Milani, dice: “Rimetti la spada nel fodero, perché tutti quelli che mettono mano alla spada periranno di spada. Pensi forse che io non possa pregare il Padre mio, che mi darebbe subito più di dodici legioni di angeli? Ma come allora si adempirebbero le Scritture, secondo le quali così deve avvenire?” (cf. Mt 26,25). Gesù non vuole la difesa per se stesso, ma non la impedisce nei riguardi della Chiesa, delle comunità, delle città, visto che l’autorità di Cesare proviene da Dio e lo Stato ha il diritto di difendersi. Lo stesso Catechismo della Chiesa Cattolica afferma il legittimo ricorso alla difesa, naturalmente dopo aver specificato che si deve tentare ogni strada per il dialogo. Come ultima istanza, però, si può ricorrere alla legittima difesa per tutelare i propri cari, i più deboli, e, nel caso di uno Stato, coloro che ne fanno parte: “La legittima difesa, oltre che un diritto, può essere anche un grave dovere, per chi è responsabile della vita di altri. La difesa del bene comune esige che si ponga l’ingiusto aggressore in stato di non nuocere. A questo titolo, i legittimi detentori dell’autorità hanno il diritto di usare anche le armi per respingere gli aggressori della comunità civile affidata alla loro responsabilità.” (CCC 2265)

ANALOGIE CON PADRE TUROLDO. UNA COSCIENZA NON SI FORMA DA SOLA

Come abbiamo spiegato nell’articolo su Padre Turoldo – che andrebbe riletto dopo questo per comprendere fin a dove può condurre il dissenso – l’errore madornale di simili sacerdoti non stava nel farsi araldi del valore della carità, per altro già vissuto dalla Chiesa nel precetto dell’amore per il prossimo, ma nell’imporlo come nuova dottrina. Tentando di scalzare, sostituire, modificare la dottrina stessa della Chiesa, in nome di una nuova visione dell’uomo, di un umanesimo poco cattolico e molto laico, dove la fede diventava un fatto quasi esclusivamente personale. E molto presto accessorio, sino all’irrilevanza finale (che sbocca naturaliter nel sincretismo e nell’indifferentismo). Turoldo fa lo stesso errore. Del resto, è stato un grande estimatore di Milani, il quale, con le sue idee, ha proposto un’obiezione di coscienza tale da condurre alla disobbedienza contro l’insegnamento della Chiesa. Alla contrapposizione persino. In fondo, è proprio questa una delle condanne del Modernismo fatte da san Pio X: rifiuto dell’immanentismo secondo il quale “ogni conoscenza avviene attraverso la coscienza”. Non a caso abbiamo visto come questo errore sia comune anche a mons. Tonino Bello, a padre Turoldo e a molti altri. Nessun uomo è in grado di formare la propria coscienza da se stesso: se così fosse stato, Gesù non avrebbe istituito la Chiesa, né avrebbe detto di dare a Cesare ciò che è di Cesare (il potere civile che purtroppo non lo si difende con le belle parole, le prediche e i sermoni, perché l’uomo ha bisogno di leggi e purtroppo anche di difendersi con le armi quando è necessario). Né, infine, avrebbe consegnato a Pietro ben tre poteri: confermare gli altri nella fede; il potere delle chiavi nel legare e sciogliere; la Successione Apostolica che conferisce il mandato e l’autorità di insegnare, quando Lui stesso ha detto “andate e ammaestrate tutte le genti.. chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato”. Senza dubbio il Signore lavora anche per vie straordinarie, ma questa è la via ordinaria, è la via scelta dal Signore ed affidata a Pietro e ai suoi legittimi successori. La via straordinaria, per la quale il Signore in certi casi opera, non può mai essere contraria alla via ordinaria, né contraddire l’insegnamento della Chiesa. Lo sforzo che la Chiesa fa in ogni tempo – e noi con Lei – è quello di individuare i semi della condivisione (“trattenere ciò che è buono”) e condannare senza se e senza ma ciò che è contrario a questo insegnamento. Soprattutto quello sull’umanesimo, tipico del nostro tempo, che pretenderebbe un’umanità nella quale Dio viene messo da parte e trattato come fatto privato; o persino giudicabile e magari “condannabile”, cassabile o corretto dalla stessa umanità che reputando di avere in se medesima ogni legittimazione, autorità, verità e fine ultimo, si costituisce a tribunale del divino. Che condanna o assolve a secondo dei venti di dottrina e delle mode ideologiche che in un determinato periodo la percorrono.

E MILANI SE LA PRESE CON LE VACANZE ESTIVE. MA ALLA CHIESA E AI CATTOLICI PIACCIONO…

Ed è incredibile come, portando avanti la disobbedienza alla Chiesa, certi sacerdoti impongano poi proprio ai giovani, con i quali spesso si fanno schermo, le loro visioni distorte. A pag. 67 del libro citato (Incontri e scontri con don Milani), Padre Centi O.P., parla di un incontro serale dall’esito quasi devastante con il priore di Barbiana, e aggiunge: “Poi, non ricordo perché, se la prese con le vacanze, che servono soltanto a sfruttare la gente che va a divagarsi o a curarsi al mare o in montagna. Per i suoi ragazzi, lui aveva abolito le vacanze: la scuola del prete a Barbiana funzionava anche d’estate, e persino la domenica. Come si faceva a stare zitti?”. Un’imposizione ben strana e certamente mai chiesta dalla Chiesa, la quale, piuttosto, ha da subito accolto questa nuova moda delle vacanze, dandole un senso meno legato allo svago e più all’arricchimento interiore, organizzando ritiri spirituali, incontri vocazionali, pellegrinaggi nei Santuari… colonie estive. E persino seminari estivi: tutt’oggi molti seminari hanno una sede estiva vicino al mare o in montagna laddove mare non c’è. Concludendo questa parentesi, possiamo dire con certezza che don Milani ha ragione quando afferma che l’obbedienza non è più virtù. Non lo è quando, per servire delle dittature, si fanno massacrare migliaia di innocenti o anche solo cinque persone; del resto, lo stesso sant’Agostino parla della liceità, pur fra mille premesse, persino del tirannicidio. Ha torto, invece, quando allarga il discorso della disobbedienza civile a quegli stati che si fondano sulle costituzioni con indirizzo democratico, sull’autorità costituita e legittima, per la quale lo stesso Vangelo a chiarissime lettere si esprime a favore del “rispetto”; o quando applica il suo “slogan” a certe guerre del nostro tempo che sono state ingaggiate contro il terrorismo internazionale e ritenute legittime dai recenti pontefici e per le quali si utilizza il termine missioni di pace. Comprendo che potremmo dibattere a lungo, senza giungere ad alcuna conclusione, perché certe guerre sono ancora in atto e perché ognuno può pensarla come vuole, ma ci fermiamo qui perché questo è materiale per altri argomenti non dottrinali, non dogmatici. A noi preme sottolineare che l’obbedienza alla Chiesa, quale Maestra, è fondamentale anche nel discernimento delle trattative fra popoli e stati, pure quando non comprendiamo scelte che magari non ci piacciono o non condividiamo. Questo non significa cedere sulle proprie idee ed ignorare i problemi sociali, ma piuttosto affrontarli seguendo le indicazioni della Chiesa, grazie alla quale, se fosse più ascoltata e se venisse applicata la sua dottrina sociale, avremmo probabilmente già risolto anche la crisi che stiamo vivendo. Anzi: non ci sarebbe stata crisi alcuna.

IL PRIMO CHE SFRATTÒ IL CROCEFISSO DALLE AULE: DON MILANI. BASTAVA LUI, IL “CONTORNO” (IL CROCIFISSO) ERA SUPERFLUO

Ritornando al profilo di don Milani, Enzo Biagi, che tutto era (o non era: nemmeno laureato era, anche se mai lo ammise: uno “specialista in nulla”, questo invece ebbe il coraggio di dirlo) meno che teologo, ma socialista lo era senz’altro e “nenniano” per giunta; ebbene, questo Biagi qui, fan di tutti i preti purchè “contestatori” e di sinistra, e quindi fan di don Milani, ebbe a dire che “prima o poi lo faranno santo”. Ignorante di religione era, ignorante rimase pure in punto di morte: tuttavia volle fare la confessione generale il Biagi. Ancora una volta con un cattivo maestro, che – aridaje – a Biagi “piace tanto”: Gianfranco Ravasi, ossia l’agnosticismo coperto di porpora. Per rispondere a Biagi, è necessario porci alcune domande: don Milani era un cattivo prete? Quanto era in buona o cattiva fede? In lui è proprio vero che tutto si risolve in ambito umano, politico, sociale e che i suoi scritti introducono ad una “marxistizzazione” del cattolicesimo e ad un buonismo ideologizzato? Che il tutto, per Milani, si risolva in ambito umano è dimostrato da quanto segue: nel Pro-memoria – 1953, a pag.102, così scrive: “Mi si accusa di non avere, in classe, il Crocifisso e che, in classe, non parlo mai, ex-professo, di religione. Prima di trovarci a che ridire, bisognava esaminare con serenità gli scopi e i risultati. Il numero dei giovani che frequentavano i Sacramenti e il loro venirci da sé, senza organizzazione né invito né occasione festiva o periodica, prova che l’influenza della scuola è stata profondamente religiosa, anche senza quel contorno esteriore”. Apriamo una parentesi. La prima cosa che ti salta alla memoria, a conoscere bene le storia del cristianesimo è una: appena c’è stato nella Chiesa qualche contestatore, qualche progressista o addirittura qualche scismatico eretico (prendi il protestantesimo, Lutero e specie i vari calvinismi), la prima cosa che ha fatto è cedere all’inococlastia, aggredire i simboli e le immagini sacre; vedi anche che la prima cosa che fecero gli invasati, i tantissimi “spiritati” dal Concilio, fu proprio accanirsi sulle chiese, tirando giù e devastando, dando alle fiamme o svendendo le immagini più sante e venerabili del Sacro Edificio, altari maggiori e reliquie comprese. Chiusa parentesi. Torniamo al Milani. Don Milani è così fra i primi difensori dello sfratto del Crocefisso dalle aule scolastiche e dagli ambienti di lavoro. Padre Tito Centi scrive saggiamente: “Non ho motivo per negare questi fatti, tuttavia non mi pare che se ne possa accettare la spiegazione del Cappellano, che, per difendere la propria causa, era portato ad attribuire alla propria azione pastorale tutto ciò che di positivo si riscontrava nella parrocchia. Ma è doveroso ricordare, qui, che molti giovani di S. Donato, attratti in canonica dalla presenza della scuola, avvicinavano volentieri anche il vecchio Prevosto, il quale, a suo modo, colmava le lacune del Cappellano”. Don Milani oggi non c’è più, ma noi possiamo dimostrare quanto errata fosse la sua idea contro la presenza fisica del Crocefisso e contro l’ora di catechesi, di religione… e possiamo dimostrare che era una presunzione attribuire ai propri metodi pastorali eventuali successi nell’evangelizzazione. Non utilizziamo però a caso il termine “eventuali”: perché questi successi sono tutti da provare. Se dobbiamo guardare ai fatti, il suo stile pastorale non ha fatto altro che dare origine a dei veri “comuni divisori” fra la gente e il Cristo vivo ed operante nella Chiesa. Sono state create migliaia di immagini di Cristo dissociato dalla Chiesa, un Dio creato ad immagine nostra, ad immagine del gruppo, ad immagine delle proprie coscienze, del proprio immanentismo. Siamo sicuri che si possa parlare di successo?

ANDAVANO ALLA SCUOLA DI BARBIANA PER UNA RACCOMANDAZIONE NON PER “FAME DI CULTURA”. E LA SANTITÀ È ALTRO

La famosa scuola di don Milani non è poi così lucente come appare! Se è vero che la scuola di Milani si riempiva di giovani studenti, è anche vero che la sua era spesso una illusione. Molti giovani non vi andavano perché affamati di cultura, come egli soleva affermare: alcuni, per esempio, vi andavano perché Milani aveva trovato loro un posto in fabbrica e perciò una discreta sicurezza economica (una raccomandazione possibile per quei tempi ma che se provate a farla oggi vi ritrovate con una accusa di reato e di sfruttamento). Del resto, lo sapeva bene il buon prevosto Pugi, che raccoglieva le confidenze di questi giovani, dai quali veniva a sapere che andavano alla scuola di don Milani per convenienza, “per una individualistica e immediata promozione sociale“. Occorre, tuttavia, sottolineare in tutta onestà il bene fatto da questa scuola, attraverso la quale i ragazzi meno abbienti avevano l’occasione di riscattarsi, opportunità che la scuola pubblica e lo Stato non davano loro. Va anche detto, però, che questo modo di agire è tipico anche di molti santi. Basta leggere le loro vite per comprendere quanto siano stati difficili e penosi i loro inizi, quanto venissero spesso osteggiati sia dall’autorità ecclesiastica che da quella civile e politica. Tuttavia, la differenza tra don Milani (e altri come lui) e i santi consiste nel fatto che questi ultimi non si opposero mai all’obbedienza alla Chiesa ed ai propri superiori. Così, mentre le loro opere sono cresciute e si sono moltiplicate portando frutti, l’opera di questi sacerdoti è stagnante, non produce frutti ecclesiali ma, al contrario, continua ad alimentare divisioni e contese, continua a creare gruppi di discepoli che parlano dei loro maestri come di “vittime” (della Chiesa, è chiaro!), di “profeti incompresi” (dalla Chiesa, è chiaro!), di “perseguitati” non dall’uomo o dal Cesare di turno, ma dalla Chiesa… gran farabutta, è chiaro! Non corpo mistico di Cristo ma “sovrastruttura” tutta romana, e va da sé tiranna, sadica, burocratica, arbitraria, prevaricatrice e reazionaria. Magari anche “fascista”, che ci stava sempre bene quando uno non si “sdraiava sulla linea” del PCI.

IL METRO DI MILANI NON ERA IL VANGELO. MA L’IDEOLOGIA BORGHESE. E DELLA BORGHESIA AVEVA TUTTI I TIC E VIZI

I santi usavano il metro ecclesiale e del Vangelo per misurare i problemi sociali e culturali del proprio tempo e per affrontarli (come si può leggere dalle vite, per esempio, di santa Caterina da Siena o di santa Giovanna d’Arco); don Milani invece usava il metro dell’ideologia borghese, quel metro a lui così famigliare perché dalla classe borghese proveniva… Spiega così padre Tito Centi: “Il metro col quale egli misurava i valori della vita era quello della borghesia: la cultura, il successo personale, la fiducia in se stessi, la capacità di reggere il confronto con le opinioni e la dialettica altrui, la perfetta autonomia e autosufficienza. Questi, i beni supremi…”. Questo ci riporta a quell’umanesimo da Novelle Theologie, che non trattiamo qui per problemi di spazio, rimandando ai due articoli – presenti in questo sito – dedicati proprio ai nuovi teologi e al Concilio. L’operare di don Milani era paternalistico. In questo modo, infatti, questi maestri vedono i propri discepoli, non andando oltre il loro insegnamento, ma stagnandosi in un paternalismo dottrinale chiuso in se stesso: per questo non riescono ad espandersi, riescono solo a sostituire se stessi in vecchiaia con altri più giovani che li seguono, ma senza mai andare oltre. La personalità di Milani, a quanto abbiamo detto, va associata ad un certo senso di colpa che egli aveva nei confronti della “classe operaia”: la “colpa”, di essere nato e cresciuto in una famiglia borghese, benestante, istruita, che non gli permetteva di accettare l’idea che potessero esistere classi “inferiori” alla sua… In sostanza egli si addossò sulle spalle le colpe della “marcia borghesia“, come soleva additarla, facendo la sua scelta di classe. Un atteggiamento tipico di quell’epoca che vedeva i figli della borghesia abbandonare la politica democratica (ma non gli agi dovuti al loro stato) per abbracciare la lotta di classe ed iscriversi numerosi nelle file del P.C.I. Aprendo una parentesi. Non serve neppure a questo punto, per sottolineare la loro ributtante ipocrisia, ripetere la famosa poesia di Pasolini che parteggiava per i “veri proletari”, i poliziotti, “figli di contadini”, che a Valle Giulia le prendevano dai figli della borghesia sazia e viziosa che, per vezzo, si erano costituiti a rivoluzionari e paladini di un “proletariato” che avevano sentito parlare solo al cinema e in testi dozzinali di sociologia schierata, non conoscevano (come non conoscevano il mondo del lavoro) e del quale, intimamente, ne provano segreto ribrezzo intellettuale. Da quella mandria di marxisti immaginari che erano, col vizio di scherzare col fuoco… chè tanto a bruciarsi le chiappe sarebbero stati sempre gli altri: ossia chi borghese non era: le loro chiappe borghesi, invece, comunque, a prescindere, erano belle riparate da quel denaro paterno sul quale sputavano sopra, prima di intascarlo per giocare a fare la rivoluzione. E giocando giocando, cominciarono a sparare sul serio… sui funzionari dello stato, sui poliziotti, sui semplici militanti, infine sugli stessi operai. Sui “proletari” che volevano “salvare”, senza che nessuno glielo avesse chiesto. Chiusa parentesi. Assai inquietante è la lettera che don Milani scrive alla madre negli anni ’50: “Il film a lieto fine è il mio lavoro a S. Donato. Mi sono tolte tutte le soddisfazioni; ho potuto lavorare come mi è parso e piaciuto; non sono mai stato costretto a compromessi; sto divertendomi un mondo a fare un finale di fuoco… Io ho la superba convinzione che le cariche di esplosivo che ci ho ammonticchiato in questi cinque anni, non smetteranno di scoppiettare, per almeno cinque anni, sotto il sedere dei miei vincitori” (Cfr. Lettere alla mamma, pp. 109, 111). Ogni commento è superfluo: possiamo solo dire che non è questo il parlare di un santo, né il modo d’agire! Pure lui era uno che si divertiva a giocare col fuoco e a giocare con lo stato sacerdotale: certo che non ne avrebbe risposto in prima persona. Proprio come ogni “bravo figliolo” della viziosa e sediziosa borghesia intellettuale italiana di quegli anni. Proprio come i “ragazzi borghesi” di Valle Giulia e i “poliziotti proletari”, del succitato Pasolini. I poliziotti presi a pietrate rimasero “proletari” a vita con lo stesso (basso) stipendio; i “contestatori del sistema”, quei ragazzi borghesi, come nulla fosse di strada ne fecero parecchia, e a stipendio crescente, passando illesi attraverso tutti i fuochi come salamandre. E proprio in quel “sistema” che contestavano e che i poliziotti, loro malgrado, difendevano facendo. Ma tant’è!

I POVERI, SE È NECESSARIO, POSSONO MENTIRE: MA QUESTO È CATTOLICO?

Nel giugno del 2007, in occasione dei 40 anni dalla morte di Milani, è stato fatto un appello al Papa per chiedere di eliminare la condanna del 1958 contro “Esperienze pastorali“, il testo-base della missione sacerdotale di don Lorenzo Milani, priore di Barbiana (Firenze). Sembra, tuttavia, che il Papa non abbia dato alcuna risposta. In questo testo è importante leggere, dall’esperienza diretta di padre Tito Centi, un fatto accaduto, non poco grave: “Un mio confratello, educato, come domenicano, al culto della verità, mi dichiarava tutta la sua indignazione per il libro Esperienze Pastorali, nel lontano 1958, puntando su un fatterello quasi insignificante, in esso raccontato, a p. 207. Secondo don Milani, il giovane studente di cui parla, trovato in corriera senza biglietto, avrebbe dovuto dire una bugia per difendere il pane del fattorino, di fronte all’inchiesta del controllore: così come avevano fatto certi operai che viaggiavano con loro. E per il fatto che quel ragazzo insisteva ad affermare, secondo verità, di non aver ricevuto il biglietto, don Lorenzo ci costruisce sopra delle considerazioni di una severità incredibile. E conclude: È troppo più sana, più equilibrata, più umana, e, in conclusione, più cristiana, l’atmosfera in cui respira il povero. “L’ottimo sacerdote, scomparso ormai da una ventina d’anni, mi domandava con stizza: Vorrei sapere che razza di morale è stata insegnata a questo prete, che mi esalta la menzogna quando fa gli interessi dei poveri. La verità non è, forse, un valore assoluto e irrinunziabile per tutti? (…) “La breve replica del predicatore non andava a genio al cappellano, priore di Barbiana, come non gli andava la mia maniera di affrontare pastoralmente il problema del comunismo. A me non occorrevano molte parole per difendere la logica della coerenza: bastava richiamarsi ai principi della morale cristiana. Don Milani, invece, vedendo l’enorme prezzo che codesta logica avrebbe richiesto nella pratica, nonché il probabile insuccesso di un richiamo pastorale di questo tipo, cercò di adeguarsi alla realtà. Continuò sulla via del compromesso, cercando le ragioni o i pretesti che parevano giustificarlo…”.

NON SI SALVANO NEMMENO LE QUARANTORE. ANCHE RONCALLI NON LO AMAVA

Per don Milani l’unica ancora di salvezza per la Chiesa e per l’Italia è la sua “scuola popolare” (così come per don Ciotti, oggi, è la sua associazione che promuove allarme sociale “Libera”). Senza toglierle merito a questa scuola e ad alcune ottime iniziative, è bene rammentare gli insuccessi, le difficoltà e l’improponibilità (e la presunzione) di renderle obbliganti. Riguardo alle sue “Esperienze Pastorali”, condannate appunto nel 1958 dal Sant’Uffizio ed ancora oggi non liberate da quella condanna, appaiono ancor più evidenti le motivazioni in questa risposta che mons. Vallainc scrisse a padre Tito Centi: “Il suo nome ben noto, la sua esperienza dei problemi religiosi in Toscana, la serenità del suo giudizio nel condannare alcuni punti e motivi insistenti del libro di don Milani, sono tutte ragioni più che sufficienti per presentare col dovuto rilievo su Settimana del Clero il suo articolo di critica meditata. Spero che, a sua volta, vorrà consentirmi alcune osservazioni dettate unicamente dalla mia coscienza di sacerdote, poiché so di avere non poche responsabilità nei confronti dei lettori miei confratelli. Ho accuratamente evitato di essere un critico sbrigativo, come dice Lei: perciò, con profonda convinzione – dopo aver attentamente letto il libro e confortato dalla mia modesta esperienza del mondo ecclesiastico – affermo che il libro di don Milani non solo non è un libro di edificazione ma è un libro che può fare molto più male che bene. Soprattutto ai sacerdoti giovani che sono, per natura, facilmente indotti da episodi marginali alla critica demolitrice e sono spesso sprovvisti di quelle informazioni esatte che assicurano una visione ampia e totale dei problemi. (..) “Non ho alcuna difficoltà ad ammettere che vi siano, nel libro di don Milani, molte e belle e grandi verità degne di meditazione. Ma, purtroppo, anche le verità sono presentate in una forma paradossale e a volte caricaturale, che le diminuisce e le ridicolizza. (..) “Ecco, a scanso di equivoci, le sue idee: le feste, le processioni, le quarantore et similia devono essere abolite, perché inutili e perché permeate di superstizione e di profano. (…) Tutti i poveri sono buoni o almeno giustificabili anche nei loro difetti, mentre tutti i ricchi sono usurai, sfruttatori, pezzi da galera. Un giovane, solo perché studente, appartiene già alla categoria dei ricchi e, quindi, il parroco può benissimo lasciarlo perdere. Le sembra poco tutto questo, caro padre? “(…), che dall’età apostolica ai nostri giorni, non vi sia mai stato alcuno che abbia fatto qualche po’ di bene nella Chiesa; né che il Papa, i vescovi, il clero e il laicato cattolico abbiano, oggi, un minimo di sensibilità circa i mali che angustiano il nostro tempo e tanto meno abbiano il desiderio di porvi rimedio… solo la scuola popolare di don Milani potrà essere questo rimedio. Ma, e gli adulti? e il settore femminile? e gli studenti? Sono domande che, nel libro Esperienze pastorali, non hanno risposta. E gli operai stessi che non frequentano la scuola popolare? Don Milani li ‘infama’ e li ‘fa verdi’ alla prima occasione… se la loro colpa fosse un rifiuto personale ad andare a questa scuola! Le Esperienze Pastorali sanno di troppa foga e di troppa ‘inesperienza’ giovanile per poter portare un positivo contributo alla soluzione della crisi della parrocchia. “(..) Il libro ha il merito di aver toccato alcuni problemi e di aver buttato all’aria alcuni cenci; ma è inquinato di troppa superbia ed è viziato di troppa sicurezza di sé e disprezzo degli altri per poter recare un messaggio validamente costruttivo ai sacerdoti che, con uguale generosità, anche se con maggiore silenzio e modestia, lavorano nelle ventiquattro mila parrocchie d’Italia… “(…)Per quanto mi riguarda, non ho mai messo in dubbio le buone intenzioni di don Milani: il suo libro, però, sta a dimostrare, con prova inoppugnabile, la sua errata impostazione di troppi problemi e la sua assoluta mancanza del sensus Ecclesiae…”. A proposito del suo sensus Ecclesiae, sono emblematiche le pubbliche arroganti, vanagloriose, superbissime, insolenti e tutto sommato volgari che rivolse per iscritto (nelle Lettere) al suo cardinale arcivescovo Ermenegildo Florit e dove il Milani vien fuori in tutta la sua boria: “Ho badato a accettare in silenzio perchè volevo pagare i miei debiti con Dio, quelli che voi non conoscete. E Dio invece mi ha indebitato ancora di più: mi ha fatto accogliere dai poveri, mi ha avvolto nel loro affetto: Mi ha dato una famiglia grande, misericordiosa, legata a me da tenerissimi e insieme elevatissimi legali. Qualcosa che temo lei non ha mai avuto. E per questo m’è preso pietà di lei e ho deciso di risponderle”. Parole che vennero accolte con un boato di applausi dai comunisti. Parole che tuttora i cattocomunisti sbandierano in faccia alla Gerarchia. A cominciare dagli “allievi” del Nostro, che le hanno piazzate a caretteri cubitali sul sito della Fondazione don Milani. Nell’ultimo incontro del clero veneziano, il patriarca Roncalli, pochi mesi prima di diventare pontefice, aveva parlato del libro di don Milani, sostenendo di averlo letto con attenzione, approvando e leggendo al suo clero la dura condanna del Sant’Uffizio e la severa asserzione, presentata sulla Settimana del Clero, dall’autorevole suo direttore, ossia parte del testo che abbiamo appena riportato.

INGIUSTA CONDANNA? DAI FRUTTI RICONOSCERETE L’ALBERO…

Come possiamo concludere queste riflessioni? Intanto guardando alla poca sostanza che ha l’appello di Michele Gesualdi, uno dei primi 6 allievi di Barbiana, sindacalista Cisl, per 2 legislature presidente della provincia di Firenze, ora presidente della Fondazione “Don Lorenzo Milani”. Costui, con lo stesso metodo del “politicamente scorretto”, tenta di far annullare, sempre in quel giugno 2007, la condanna all’opera scritta da Milani e dice: “Dopo 40 anni, quella condanna suona come un evidente controsenso, va cancellata. Sarebbe bello che dal Vaticano, magari dal Papa o dal prefetto della Congregazione per la dottrina della Fede, venisse una parola definitiva per cancellare quella ingiustizia, anche perché è risaputo che don Milani non ha mai detto niente, nemmeno una sola parola, in contrasto con gli insegnamenti ecclesiali”. Ingiustizia? Controsenso? Possiamo parlare di una scelta fatta chiaramente da don Milani, ma non certo di una ingiustizia o persino controsenso da parte della Chiesa solo perché i suoi discepoli, fra cui sacerdoti e vescovi, continuano a disobbedire alle indicazioni date dalla Congregazione per la Dottrina della Fede. Ossia dal Magistero. Che don Milani non abbia detto “nulla in contrasto” con gli insegnamenti ecclesiali è tutto da dimostrare – come si dimostra da sé qui il livello, infimo, di comprensione di cos’è la Chiesa e la dottrina da parte di questo “allievo” del Nostro – mentre sono abbastanza chiare, leggendo il suo testo, le motivazioni della ripetuta condanna dell’ex Sant’Uffizio. Reiterata da ogni Prefetto e da ogni pontificato. Non a caso, lo stesso libro di Padre Tito Centi, che abbiamo già citato e il cui autore si era reso pure aperto e tollerante nei confronti delle idee pastorali di Milani, conclude a pag. 51 con queste parole durissime: “Il libro di don Milani si rivelò deleterio per molti cristiani e per non pochi sacerdoti, giovani e non più giovani. Fu il primo focolaio di un pericoloso contagio che, dal classismo, li avrebbe portati addirittura al marxismo. Non per nulla i marxisti furono pressoché unanimi nell’esaltare le idee del Priore di Barbiana. Si potrà, forse, denunziare l’appropriazione indebita, perché contraria alla volontà del legittimo proprietario; ma, in casi del genere, le intenzioni non contano. Idee e fatti hanno la loro logica inesorabile… “Dovetti anch’io convincermi assai presto che un libro come quello di don Milani non doveva essere stampato”. E’ davvero incredibile che ancora nel 2007 un cattolico che fa il sindacalista pretenda l’assoluzione di un tale testo (non è neppure un caso che lo stesso “allievo” del Nostro sia stato presidente della giunta rossa della provincia rossissima di Firenze). Abbiamo l’ennesima prova di questa assurdità, di questi paradossi, di questi contagi, con un articolo uscito il 12 aprile sulla Gazzetta del Mezzogiorno, nel quale tal don Francesco Caramia – banalissimo giovane parroco di “periferia” a Brindisi, con la tipica superficialità (e diremmo anche ignoranza) trombona della marea montante di preti che, stante la loro grave crisi di identità, alla loro irrilevanza morale e intellettuale sopperiscono con la vanità esibizionista ai limiti del circo equestre – tal don Caramia, dunque, cita don Milani. Per spingere i propri fedeli ad una presa di posizione, “coscienziosa e responsabile, nei confronti di una concreta politica democratica”. Fratello mio, la cultura tua, vabbè è quella che è, ma porcaeva!, sei giovane, vuoi fare il giovanilista, vuoi risultare “controcorrente” (ma contro quale corrente? Del mondo? Non si direbbe, visto che ne assecondi tutti luoghi comuni!), simpatico, persino aggiornato e magari “futurista”, “moderno” in ogni caso… e parli così verboso, cervellotico, con ‘ste frasi fatte che sanno di imparaticcio accademico, di fraseologia mandata a memoria su testi retrò di sociologia anni ’70… e infatti come un vecchio ideologo spostato di testa ma con la testa fermissima a quell’epoca ragioni e parli. A riprova dell’inesorabile, mortale, inguaribile anacronismo tutto clericale, di quando questo clero si sforza di fare il moderno, ossia di scopiazzare il mondo. Precipitando nel ridicolo. Nel macchiettistico. Nell’irrilevanza sociale. Che poi sia chiaro, le cose che dice sono banalissimi luoghi comuni triti e ritriti, un patetico conato di grillismo dei poveri, di cinguettante demagogia facilona fuori tempo massimo alla periferia dell’impero. Niente di che! Di per sé è anzi un appello politicamente corretto, schifosamente correttissimo. Ciò che stona è la citazione che dice testualmente: “Amare le creature ogni giorno, come fanno maestre e puttane”. Speriamo, anzitutto, come invece abbiamo timore, che questo non sia già un programma, un’esperienza, un’abitudine o un presentimento di questo prete, il cui futuro per tante ragioni ci pare incerto (per non dire: ci pare “certissimo”). Speriamo che dal senso figurato non si passi, prima o poi, a quello letterale. Speriamo! E chi di troppe “speranze” visse… non visse troppo… Siamo convinti anche che se il giovane sacerdote non avesse citato il prete di Barbiana e non avesse colorito il suo appello con una bella parolaccia, nessun giornale se lo sarebbe filato. Al di là di questo, è proprio la frase che ha risonanze inquietanti e non certo per la parolaccia, ma per il mestiere espresso con quel termine che contraddice l’Amore autentico, che non chiede soldi, non riceve compensi, e che dobbiamo applicare in ogni cosa che facciamo, compresa la politica… Come si può chiamare “amore” verso una creatura quello delle prostitute? Come si fa ad amare come ama chi si prostituisce? E’ una contraddizione in termini. E poi, amare, come continua, “con rabbia e passione” che significato ha? Sadomaso o che? È forse una nuova pagina del Vangelo che ci è sfuggita? È forse una indicazione delle preferenze di questo pretino? È forse una nuova dottrina scaturita dal Concilio? Gesù disse forse alla prostituta di continuare ad “amare” le creature come faceva lei? Le maestre, specialmente oggi, amano le creature come le ha amate Gesù Cristo? No, don Francesco, non ci siamo. Lascia perdere queste citazioni (e queste contraddizioni) e dai ai fedeli il Magistero autentico. Non seminare zizzania, non insegnare il falso. Parla di meno e prega di più. Possibilmente fai penitenza (della lingua specialmente): ne hai bisogno. Anche perchè la lingua è la parte del corpo che anticipa e rivela dove, più presto che tardi, tutte le altre membra, al seguito, saranno trascinate. Ma del resto era lo stesso Milani che scriveva nelle Lettere: “Per cui essere maestro, essere sacerdote, essere cristiano, essere artista e essere amante e essere amato sono in pratica la stessa cosa”. E me cojoni!, direbbe Alberto Sordi. Questo giovane prete banale, ne è soltanto l’ennesimo frutto insapore prima che bacato.

SEMBRA LUTERO…

Non ci rimproveri il discepolo di don Milani se al momento ci viene a mente questa associazione di idee: Lutero sosteneva giusta la sua battaglia, tanto da essere convinto che avrebbe spazzato via l’edificio della Chiesa romana. L’ex frate agostiniano diceva: “L’Altissimo mi manda a voi per additare alla vostra esecrazione il pontefice abominevole che vi spoglia e vi opprime. Popolo, giù il papato!”. Per carità: non diamo dell’eretico a don Milani – attenzione a non equivocare – e nessuno nega l’appropriazione indebita da parte di un’ideologia politica delle idee di questo sacerdote, come di altri, dall’animo forse (a Dio la sentenza!) buono. Tuttavia, è fuor di dubbio che questi sacerdoti hanno tutti preteso di saper insegnare alla Chiesa come doveva essere cambiato il mondo. Essendo caduti molti preti e molti fedeli nelle spire di queste idee, il dramma è stato che non solo il mondo non l’hanno cambiato, ma è stato reso (non solo per colpa loro, ovvio) anche peggiore sotto i punti di vista dell’etica e della morale che essi vollero disgiungere dalla Tradizione della Chiesa, dissociandole dalla sua dottrina sociale e imponendo una visione idilliaca, paradisiaca e tutta orizzontale della società, “modificabile” secondo i propri schemi mentali, secondo la propria parziale visione evangelica. Che poi è, se vai a vedere, nella prassi e nella logica, nei linguaggi e nei fini ultimi, la stessa “visione” degli ideologi tout-court rotti a tutte le mode, a tutti i venti di dottrina. E che hanno messo a ferro e fuoco per due secoli – ma il secolo di Milani specialmente – il mondo intero e l’umanità tutta. All’inizio neppure Lutero fu eretico. Egli cominciò lamentandosi del metodo poco cristiano della “vendita” delle indulgenze. Queste, però, non sono venute meno, Lutero sì. La “riabilitazione” dell’opera di un sacerdote (Milani non fu mai sospeso o scomunicato) è sempre auspicabile, ma per farlo occorre prima portare alla luce i difetti, condannarli, estirparli, correggere eventuali statuti e reindirizzare i discepoli. Allora sì sarà possibile, con carismi differenti, parlare ugualmente con un cuor solo e un’anima sola insieme alla Chiesa di Cristo, confermati dal Suo Vicario in terra. Del resto, se i suoi discepoli vanno dicendo su don Milani che “è evidente il fatto che si possa avere la liberazione senza tutto l’orpello della teologia a suo carico”, poiché la sua è “una sorta di teologia politica old style solo direttamente applicata alla struttura della conoscenza…”, ci permetterete di dubitare sull’ortodossia di questi pensieri anticattolici? E di dare ascolto, accoglienza, alla condanna della Chiesa di queste idee? Per il resto già condannate dalla storia non solo cattolica ma laica. E, si credeva, naufragate insieme a quel comunismo che molti cattolici illusi vollero “sposare” credendo alla sua “vittoria finale” e alla sua “eternità”, vittorie ed eternità che Cristo aveva promesso solo alla sua sposa mistica, la Chiesa. Preti e cattolici che sposarono il comunismo e ripudiarono lo Sposo mistico e legittimo: Cristo. Credendo di aver fatto, come Giuda, chissà quale grande affare. Mentre per l’ennesima volta avevano solo svenduto Cristo per 30 danari… Almeno, però, l’Iscariota subito dopo si pentì e si suicidò. Questi non solo non si pentono, non solo vogliono l’assoluzione, ma pretendono ancora di stare in cattedra. E insegnare alla Chiesa come si sta al mondo e la papa come si fa il papa. Proprio loro, comunisti, cattocomunisti e contestatori, che su quel mondo e su quella Chiesa – ieri, oggi, sempre – hanno sbagliato ogni previsione. Ormai è storia.

David Maria Turoldo. Analisi pietosa del prete che spezzò il rosario

Prete, “cattolico adulto”, divorzista, abortista, liberale. Più poeta che… “profeta”. E per giunta, spezzò il rosario.

di Tea Lancellotti, da Papale Papale (12/05/2012)

NESSUN PROCESSO

Padre David Maria Turoldo è diventato un’”icona” della sofferenza che, ci teniamo a sottolineare, non intendiamo assolutamente scalfire. Era un uomo di fede – e anche questo è fuori discussione –, un sacerdote devoto e fedele alla propria vocazione (e neppure questo vogliamo discutere). Allora, che cosa vogliamo far emergere da questa “icona” del nostro tempo? Semplicemente desideriamo dare voce anche a non pochi tra i suoi confratelli che parlano di un lato “scomodo” di Turoldo, un lato un pò contraddittorio, non perfettamente dottrinale e dogmatico.

Certo, non è compito mio né del sito aprire o fare alcun processo – e questo infatti non lo è – ma abbiamo il dovere di chiarire quei lati oscuri che dagli anni ’50, a partire dai quali inizia una dura contestazione in campo cattolico, hanno purtroppo coinvolto anche sacerdoti le cui “icone” da “martiri”, incollate loro addosso da non pochi discepoli, non sono del tutto luminose come appaiono. Ci muoviamo senza contestare la persona, come è avvenuto per i ben quattro articoli che abbiamo dedicato alle idee di mons. Tonino Bello, senza metterne in discussione la bontà delle intenzioni.

Senza dubbio, nel ricostruire la vita di una persona, se si dovessero esclusivamente riportare i difetti, non saremmo corretti e commetteremmo un atto di ingiustizia. È per questo motivo – e ci preme ri-sottolinearlo – che in questo articolo non intendiamo avanzare alcun processo, né giudicare la fede di questo sacerdote. Del resto i suoi pregi sono abbondantemente conosciuti, mentre sono forse poco noti quei difetti che, se fossero rimasti solo “suoi”, non ci fornirebbero le motivazioni di questo articolo. Tuttavia, poiché certi difetti hanno coinvolto non pochi cattolici, facendoli deviare dalla retta dottrina della Chiesa, riteniamo un dovere ed un servizio riportare su “papalepapale” il resoconto di alcuni danni provocati dalle idee di Padre Turoldo. Non è del resto raro oggi trovare molte persone di fede che pretendono di portare avanti le proprie opinioni o una fede “personalizzata”, spesse volte imponendola proprio attraverso atteggiamenti da buon fedele.

Spetta al lettore prudente, cattolico e che riesce a vagliare con un sano discernimento, saper comprendere i fatti che seguono, fedele al monito di san Paolo: “esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono” (1Tess 5,21).

Noi ci apprestiamo a presentare quanto segue, riportando alcune idee liberali e in libertà di Padre Turoldo, che influirono su molti cattolici ingannandoli sulla corretta dottrina, per rigettarle.

UN PROFETA RICONOSCIUTO TROPPO TARDI? NON DICIAMO… ERESIE!

Di padre David Maria Turoldo – su cui la rete e il mondo editoriale offrono materiale in abbondanza – non poche librerie presentano i libri di poesie, ma anche quelli di esegesi poetica sui salmi. Tra questi ultimi, alcuni sono davvero belli (ho scoperto di averne letto uno, rendendomi conto solo dopo di chi fosse l’autore): si dice che lo stesso cardinale Joseph Ratzinger tenesse sul comodino uno di questi testi poetici sui salmi, almeno secondo quello che ha rivelato il cardinale Ravasi, naturalmente grande amico e probabilmente discepolo del Turoldo.

Anche il cardinale Carlo M. Martini fu catturato dalla vena poetica di questo sacerdote tanto che, ai suoi funerali, ebbe a dire una frase, a mio parere infelice perché detta da un Principe della Chiesa: “La Chiesa riconosce la profezia troppo tardi“. Con una frase del genere si millanta l’incapacità della Chiesa nell’interpretazione delle Scritture stesse e nel discernimento degli spiriti buoni e santi, compromettendo quella infallibilità che invece riguarda proprio tale discernimento, tale riconoscimento. Fare queste affermazioni – come accade anche nel caso di san Pio da da Pietralcina, per il quale molti dicono “la Chiesa lo ha riconosciuto tardi…” – è un fatto grave perché non si tiene conto dei “tempi di Dio”. E’ Dio che stabilisce quando e come un suo servo debba o non debba essere riconosciuto santo dal momento che è Lui ad elargire, tenendo conto anche delle preghiere e delle suppliche che vengono elevate al Cielo dai fedeli, quel miracolo necessario per far chiudere positivamente un processo di beatificazione o di canonizzazione. Senza dubbio spetta alla Chiesa sollecitare la Divina Misericordia ed essere vigile verso le profezie; allo stesso modo, però, spetta sempre e solo alla Chiesa riconoscerle come vere o come false. Proprio per questo motivo, non si può dire che le riconosce “troppo tardi”: piuttosto Essa è prudente e saggiamente paziente. Si sa, però: oggi la pazienza è una virtù diventata assai rara.

Padre Turoldo fu “osservato” a lungo dalla Congregazione per la Dottrina della Fede che prima del Concilio si chiamava Sant’Uffizio. La più nota tra le Congregazioni, pur non contestandogli nulla di particolare, tuttavia guardava con sospetto le sue idee liberali. Dobbiamo dire, però, che fu proprio la Congregazione dei Serviti – che aveva accolto il sacerdote – a rimuoverlo da diversi incarichi, spostandolo da una Casa all’altra, fino a che, dopo il Concilio e dopo che furono modificate le stesse azioni disciplinari della Chiesa diventate nel frattempo assai più concilianti, Padre Turoldo poté fermarsi grazie anche all’interessamento di Giorgio La Pira, suo amico, discepolo e collaboratore. Padre David Maria fu un sacerdote dal cuore sensibile, senza dubbio: fu sostenitore del progetto Nomadelfia, il villaggio nato per accogliere gli orfani di guerra “con la fraternità come unica legge”, fondato da don Zeno Saltini (un progetto sofferto e riconosciuto dalla Chiesa nel 1962, come parrocchia, e dopo la modifica della costituzione normativa); fu anche amico di Pier Paolo Pasolini, ma di lui non gli interesserà la “sua conversione personale”, quanto piuttosto la collaborazione per realizzare il suo unico film: Gli Ultimi, nel 1962.

A LUI NON INTERESSA LA CONVERSIONE MA IL “DIALOGO”. PER QUESTO SCEGLIE IL DIVORZIO. E ANCHE L’ABORTO

Qui intravediamo già un primo spunto di riflessione: a padre Turoldo non interessava la conversione del singolo, quanto piuttosto il “dialogo” con il singolo attraverso il quale maturare un rapporto esclusivamente umano, dove il trascendente rimaneva un fatto privato e personale.

A molti cattolici, oggi, questo aspetto potrebbe sembrare superficiale. Operando però un sano discernimento, comprendiamo come questa idea abbia influito negativamente su uno dei referendum che portò il mondo cattolico ad una prima chiara apostasia dalla dottrina di Cristo e della Chiesa, quello sul divorzio.

Il 12 maggio 1974, con il referendum abrogativo sul divorzio, gli italiani furono chiamati a decidere se abolire la legge Fortuna-Baslini che istituiva in Italia il divorzio: partecipò al voto l’87,7% degli aventi diritto; votò “no” il 59,3%, mentre i “sì” furono il 40,7%: la legge a favore del divorzio rimase così in vigore.

David Maria Turoldo si schierò per il “no” e non risparmiò critiche e attacchi contro i cattolici che erano a favore dell’abrogazione.

Naturalmente, per restare fedele alla sua idea liberal-radicale, il suo sì al divorzio diventerà poi il “sì” all’aborto!

Erano gli anni della contestazione, è vero. Per esempio, fratel Carlo Carretto, della comunità fondata dal beato Foucauld, a pochi giorni dal voto referendario fa una esternazione allucinante su La Stampa del 7 maggio 1974: “Voto no! E tu, Signore, per chi voti? Mi par di saperlo dalla pace che sento dentro di me…”. Naturalmente fratel Carretto ritratterà questa affermazione la notte di Pasqua del 3 aprile 1975, nella gremita cattedrale di Foligno, davanti a tutti i fedeli, riconciliandosi con il vescovo Siro Silvestri, ma intanto il danno era fatto. Almeno, però, lui fece abiura dell’errore, pentendosi, mentre padre Turoldo non sembra essersi mai pentito del danno recato alle menti ed alle coscienze di tanti cattolici. E alla sua stessa, schierandosi, lui prete, a favore del riconoscimento legale di due peccati mortali: contro il sacramento del matrimonio e a favore dell’infanticidio con l’aborto.

L’errore di Padre Turoldo fu nel definire la battaglia contro il divorzio e l’aborto un “problema politico”. Di conseguenza, secondo la sua opinione, la Chiesa non avrebbe dovuto schierarsi né pro né contro. Dal momento che la Catholica, però, aveva preso la decisione di schierarsi contro, Turoldo decise di battersi a favore del divorzio, definendo la questione non un problema ecclesiale o religioso, ma di coscienza, una “battaglia sbagliata” che andava perduta “in difesa della libertà di coscienza – per una laica libertà della persona“. Parole davvero incomprensibili, inaccettabili diremmo, se pronunciate da un sacerdote che non dovrebbe occuparsi di laicità, ma di Sacramenti! In sostanza, egli era convinto che la scelta della Chiesa di schierarsi contro queste “legittime” scelte dei cattolici, era un’imposizione, e poiché non si può imporre la religione né ai battezzati e men che meno a chi non crede, si schierò in favore di questa presunta “libertà” – quella di divorziare – andando contro il Papa e contro la Chiesa in campo etico e morale. La quale, a differenza di come la pensava Turoldo, aveva ed ha tutto il dovere e il diritto di guidare i fedeli riguardo ad una sana e corretta interpretazione dell’etica e della morale. Invece ecco la bella pretesa turoldiana: la Chiesa, con a capo il Papa, aveva “sbagliato battaglia”, mentre lui, sacerdote, conduceva la battaglia giusta contro la Chiesa e il Papa, contro l’indissolubilità del matrimonio, che è un Sacramento, e a favore dell’aborto.

PER TUROLDO, FEDE E MORALE CATTOLICA SONO UN “FATTO PRIVATO”. COME PURE DIVORZIO E ABORTO

Tuttavia il vero e proprio snodo della questione stava e sta nel fatto che Turoldo non era né a favore del divorzio né a favore dell’aborto: in verità, egli aborriva entrambi e sosteneva che “erano e sono un male ma che deve essere vissuto solo a livello della fede e della coscienza, nel rispetto di chi non crede che aborto e divorzio siano un male”.

In sostanza siamo davanti ad uno degli errori madornali di questa società e che ha prodotto una delle più gravi apostasie del nostro tempo: definire la fede Cattolica e la morale, con tutto quello che ne deriva, un “fatto privato”. Esattamente il contrario di ciò che insegna la Chiesa, di ciò che predicò Giovanni Paolo II e di quanto lo stesso Benedetto XVI oggi denuncia ripetutamente: la fede della Chiesa, la sua etica e la sua morale non sono un fatto privato. La morale cattolica non è un monopolio del singolo fedele, ma appartiene alla Legge di Dio, a ciò che nel mondo laico è la Legge naturale. Non esiste la Legge di Dio e la legge naturale in contrapposizione o in contraddizione: questa Legge è unica e vale in tutto il mondo e in tutto l’Universo. Non a caso al termine dell’Anno Liturgico proclamiamo la vittoria di Cristo Re dell’Universo: un sacerdote non dovrebbe mai dimenticarlo, ed essere coerente con tale dottrina.

Padre Turoldo era cosciente di mettersi contro l’insegnamento della Chiesa. Affermò limpidamente che, con grande sofferenza, decise di sostenere “il suo pensiero” cercando di “sbagliare il meno possibile“.

Per Turoldo ha più valore la legge della coscienza che non la legge politica. Senza dubbio, ciò è vero. Tuttavia questo è possibile solo se la coscienza è retta ed è ordinata verso il vero Bene, verso la Legge di Dio con la quale non si può entrare in conflitto o che non deve essere usata per votare o vivere contro di essa.

Il voto di Turoldo (che non è stato certamente l’unico voto cattolico contrario alla fede) ha contribuito a spezzare milioni di vite innocenti, uccise nei ventri delle madri, e contribuisce ancora oggi a questo olocausto che sembra non finire mai. La coscienza di un sacerdote non dovrebbe mai sostenere una simile carneficina che, nel caso in questione, prosegue anche dopo la sua morte.

Che valore ha l’aver sostenuto il progetto Nomadelfia, la casa per i bambini orfani, se poi quella stessa coscienza decide, con il suo voto, di far massacrare per legge milioni di vite umane? Forse è anche il caso di citare il noto proverbio, senza estremizzare: “La via dell’inferno è lastricata di buone intenzioni”.

IL SOLITO PAPPONE DEL “CATTOLICO ADULTO”. OSSIA… ADULTERATO

Se fosse stato anche vero (ma Giovanni Paolo II lo smentisce) che la Chiesa non avrebbe dovuto sostenere quei referendum, resta contraddittorio il fatto che Turoldo, per dire alla Chiesa che sbagliava nell’essersi schierata, di fatto si schierò contro la vita nascente… Fu questo il suo “sbagliare il meno possibile”?

Turoldo che poneva “l’Uomo avanti a tutto” finì per contraddirsi votando e sostenendo questi due referendum; ingannò se stesso e chi lo ascoltava e ancora oggi, purtroppo, molti cattolici ritengono che ciò sia giusto, legittimo, lecito.

I suoi “difensori”, sulla vicenda, dicono: “Turoldo non era a favore del divorzio e dell’aborto, ma si sentiva cattolico adulto e voleva matrimoni cristiani convinti, voleva che si facessero i figli con amore…”. Ebbene, ci perdonerete se non riteniamo “cattoliche” certe difese. Al contrario, le possiamo ritenere a ragione “perniciose” – come direbbe anche oggi l’Apostolo delle genti – e dalle quali stare alla larga. Avranno imparato oggi i cattolici, dall’insegnamento di Benedetto XVI, che il termine cattolico adulto è proprio l’essenza dell’apostasia, dell’abbandono della corretta dottrina e dell’innamoramento nei confronti di varie ideologie alla moda?

Come può un cattolico, e per giunta sacerdote, battersi contro gli insegnamenti evangelici e votare a favore della libertà di coscienza? Libertà dalle Leggi di Dio? Suvvia!

RIFIUTANO L’INSEGNAMENTO INFALLIBILE DELLA CHIESA. POI PRETENDONO L’INFALLIBILITÀ DELLE LORO OPINIONI

E’ vero che nella sua biografia si conservano atti gloriosi. Il beato cardinale Schuster lo volle come predicatore in Duomo per la messa domenicale delle 12,30. A Turoldo si deve l’iniziativa di una raccolta fondi, durante quelle messe, per le famiglie disagiate o colpite dalla guerra: un modo nuovo, per quel tempo (siamo ancora nel periodo della messa nella forma antica) di vivere la messa ed essere coinvolti attivamente con il Mistero che viene celebrato. È anche vero, però, che se il Card. Schuster avesse ascoltato le sue esternazioni durante gli anni di quei due referendum (non accadde perché il beato morì nel ’54), non lo avrebbe mai chiamato a predicare in Duomo. Si dice, infatti, che il cardinale Colombo (arcivescovo di Milano dal ’63 al ’79) lo volle allontanare proprio a causa delle sue idee politiche referendarie.

C’è da dire con assoluta franchezza, onestà ed anche serenità che padre Turoldo aveva ricevuto due grandi doni da Dio: la fede e la poesia. Era un poeta e seppe armonizzare esteticamente la sua fede e la passione per la Sacra Scrittura, ma tuttavia non seppe fare discernimento tra ciò che era il vero contenuto della fede e ciò che non lo era e difenderlo poi come tale; non seppe, inoltre, andare in profondità nel “servire l’uomo”, che non può essere lasciato a se stesso, ma deve essere condotto a Cristo. In sostanza, l’uomo ha bisogno di essere guidato, la sua coscienza ha bisogno dell’istruzione, non può essere abbandonato senza alcun punto di riferimento. Del resto egli stesso, Turoldo, “insegnava”, pretendeva di farlo almeno. Non si comprende allora perché certi insegnanti, quando devono apprendere dalla Chiesa, Magistra per antonomasia, la criticano, ne cambiando e modificano gli insegnamenti, e la ritengono fallibile e persino capace di errori anche gravi; mentre invece, quando sono loro a parlare da un pulpito, pretendono di essere ascoltati, di essere considerati infallibili o, se non lo fanno loro, pretendono l’infallibilità per tali “maestri” i loro discepoli.

CONVERTIRSI A CRISTO? “ROBA SUPERATA”

Il cuore del pensiero di Turoldo era che l’uomo non dovesse fare altro che “convertirsi alla sua stessa umanità”: il fatto di “convertirsi a Cristo”, seguendo la dottrina cattolica, era per lui un discorso superato, finito, obsoleto. Semmai la conversione a Cristo si sarebbe raggiunta convertendosi semplicemente alla propria umanità.

Se il discorso vi appare confuso o poco chiaro, non siete i soli. La stessa Chiesa non si è mai inoltrata nel pensiero di Turoldo: alcuni sostengono che sia troppo cavilloso, preferendo fermarsi semplicemente sulla superficie delle sue poesie.

Del resto va detto che, nel post Concilio, ci sono stati anni in cui la Chiesa, per evitare di dover scomunicare gran parte del clero, vescovi compresi, finì per tacere e sopportare pazientemente il ritorno di alcuni suoi figli “controversi” alla ragione della fede, quella dottrinale e della Tradizione, non per nulla cuore stesso di questo pontificato benedettiano.

In uno dei suoi famosi Racconti, Padre Turoldo scrive:

“Anche in fatto di sentimenti, è difficile dire una parola precisa. C’è sempre qualcuno che la vuole calda… Ad ogni modo mi son detto: o creduto o non creduto, io la vendo com’è. E chi vuol leggermi mi legge; chi non vuole, mi metta pure da parte. La predica non la faccio più a nessuno“. C’è da chiedersi, però, fino a qual punto egli sapeva che, come dice oggi Papa Benedetto XVI:

“… il sacerdote non insegna idee proprie. il sacerdote non parla ‘da sé’, non parla ‘per sé’, per crearsi forse ammiratori o un proprio partito. Non parla di cose proprie. Il sacerdote insegna in nome di Cristo presente, propone la Verità che è Cristo stesso, la Sua Parola, il Suo modo di vivere” (Udienza del 14.4.2010).

Le battaglie di padre Turoldo, fuori e dentro la Chiesa, e soprattutto quelle contro l’insegnamento morale della Chiesa, furono tante e diverse. Egli stesso riconobbe “molte sconfitte”. A riguardo viene spontanea una domanda: la Chiesa ha fatto proprie le battaglie di Turoldo? No! Già questo dovrebbe farci comprendere molte cose…

L’ “ORA DEI PIPISTRELLI”

Tra il 1972 e il 1976, il grande Tito Casini, autore anche de La Tunica stracciata scrisse una specie di diario, in tempo reale, su ciò che stava avvenendo nella Chiesa di quegli anni rinchiudendo il tutto sotto il titolo: Nel fumo di satana verso l’ultimo scontro. In questo diario, fece anche la bellissima profezia (è davvero curioso che all’annuncio di Paolo VI del cambiamento della liturgia avveniva un’eclissi di sole) avveratasi in quel luglio 2007 a firma del Motu Proprio Summorum Pontificum di Papa Benedetto XVI: “Risorgerà, vi dicevo… la Santa Messa Tridentina risorgerà, come rispondo ai tanti che vengono da me a sfogarsi (e lo fanno, a volte, piangendo), e a chi mi chiede com’è che io ne sono certo, rispondo (da poeta, se volete) conducendolo sulla mia terrazza e indicandogli il sole… (…) Così, aggiungevo, è e sarà della Messa – la Messa “nostra”, cattolica, di sempre e di tutti: il nostro sole spirituale, così bello e santo e santificante – contro l’illusione dei pipistrelli, stanati dalla Riforma, che la loro ora, l’ora delle tenebre, non debba finire; e ricordo: su questa mia ampia terrazza eravamo in molti, l’altr’anno, a guardar l’eclisse totale del sole; ricordo, e quasi mi par di risentire, il senso di freddo, di tristezza e quasi di sgomento, a vedere, a sentir l’aria incaliginarsi e addiacciarsi via via, ricordo il silenzio che si fece sulla città, mentre le rondini, mentre gli uccelli scomparivano, impauriti, e ricomparivano svolazzando nel cielo i ripugnanti chirotteri. A uno che disse, quando il sole fu interamente coperto: – E se non si rivedesse più? – rammento che nessuno rispose, quasi non si addicesse, in questo, lo scherzo… Il sole si rivide, infatti, il sole risorse, dopo la breve diurna notte, bello come prima e, come ci parve, più di prima, mentre l’aria si ripopolava di uccelli e i pipistrelli tornavano a rintanarsi“.

FOSSE STATO VIVO, PAPA GIOVANNI GLI AVREBBE RIFILATO UNA PEDATA: LA CORONA DEL ROSARIO SPEZZATA

In mezzo a tanto dolore per le questioni prettamente ecclesiali come la liturgia, Tito Casini non si risparmia nel denunciare cardinali, vescovi, sacerdoti e religiosi che, nell’euforia degli anni della contestazione, sposarono la morale del mondo. Fra questi, egli rivolse un’aspra ma anche caritatevole critica proprio a padre David Maria Turoldo, nel capitolo “la conta”, nel quale è riportato l’atto vandalico e sacrilego di Turoldo che spezza la sua Corona del Rosario in segno di sfida contro la posizione della Chiesa sui Referendum. E’ un commento lungo ma vale la pena di leggerlo:

“Lasciando anche lui il suo Sahara a Sotto il Monte (dove pare che abbia messo le tende per sentirsi più vicino a papa Giovanni… che lo allontanerebbe volentieri con una pedata) e affiancandosi nella corsa al carrettiere principale, il nostro Turoldo (nostro, ce lo consenta, perché lo abbiamo avuto concittadino quando serviva ancora Maria al suo convento della Santissima Annunziata), il compagno padre Turoldo, ‘il frate scomodo che si batte per il divorzio’, come lo chiama elogiosamente con un titolo a cinque colonne in prima pagina quel giornale dei poveri come la Stampa, ch’è il Corriere della Sera, ha detto infatti (con esemplare divorzio dalla grammatica, e palese accordo con Pellegrino): Qualunque che sia il risultato del referendum, esso non costituirà affatto la conta dei cattolici, e perché il risultato fosse quello ch’è stato egli s’è battuto in tal modo, con un tal dispendio di forze, da farci pena e confondere col suo il nostro cervello nell’insolubile problema di saper con qual mai visto animale, di quale mai vista specie, egli intenda identificarsi dicendo, sullo stesso giornale dei poverelli, quanto abbia fatto e, qualunque che sia il bisogno, qualunque che sia in esso la forza, non gli sia possibile far di più: Non ho tempo, non ho più tempo. Sono come un cavallo da tiro al quale ieri staccano i finimenti neppure di notte. Io ho due gambe e una sola testa…”.

“Un cavallo bipede monocefalo…? No, io non conosco una simil bestia da tiro o da zoo, e nel dubbio s’egli vorrebbe aver più piedi, rinunziando ad aver più teste, così da diventar del tutto un quadrupede ovvero un quadrumane, gli auguriamo di ridiventare un cristiano (sinonimo, una volta, d’uomo), di tornare il religioso e poeta padre Davide Maria, con la sua divisa, la sua cintola, la sua corona (i suoi finimenti di servita), come noi lo abbiamo conosciuto e ascoltato e letto, con nostra edificazione e piacere, quando era dei nostri”.

“Che la Madonna lo aiuti, in questo, perdonandogli la sua aberrazione, perdonandogli quella rottura che più di tutto ci ha fatto male nel leggere, su quel giornale di Como, questa spiegazione della sconfitta: ‘Abbiamo perduto perché non si prega più. Se si pensa che Padre Turoldo, a Tirano, sulla piazza del santuario, per indicare che col Concilio tutto si rinnova, ha rotto la corona del Rosario come una sfida, si possono capire tante cose, ossia come la Misericordia di Dio ci possa abbandonare, perché nella Chiesa sono in voga gli pseudocristi e i falsi profeti’”.

“Non lo abbandoni, no, per questo, la divina Misericordia, e se non lo spronerà a meditare quel buon papa di Sotto il Monte, che del Rosario faceva la sua quotidiana gioia, sproni, lui artista, la visione di quel tremendo Giudizio del pio Michelangelo, dove, per non cadere nell’abisso, quelle anime stanno attaccate alla corona con cui l’angelo le tira al cielo, ansiose ch’essa non si rompa”.

ABBASSO LA TALARE. SE SERVE PER MOTIVI POLITICI, PERÒ, LA RIPRENDE

Prosegue Tito Casini descrivendo l’abbandono dell’abito talare e le manifestazioni politiche con la partecipazione di Padre Turoldo ed altri frati e preti:

“Glielo auguriamo e ce lo auguriamo, anche per cancellar dalla nostra mente quell’altra immagine di lui, il già nostro padre Turoldo, con la sua tonaca, sì, con la sua cintola e la sua corona di servita, ma al servizio di un’altra causa che non quella di Maria, e diciamo pur della poesia, come indicava il cartello che i comunisti gli avevano appeso al collo e fatto portare, in corteo, con altri frati e preti, tali alla veste, per le strade di Roma: corteo e cartello di protesta contro il Papa che avendo ricevuto il Xuan Thi, il degno capo-delegazione dell’inumana banda nord-vietnamita, s’era creduto lecito di ricevere anche il cattolico Van Thieu che all’avanzar della banda tentava di resistere anche a nome della sua fede, della civiltà cristiana. Così, e così avevano precisamente disposto, perché più redditizio fosse per il servizio al Comunismo, i capi-compagni, nella convinzione che l’abito facesse nel caso il monaco: che li credessero autentici sacerdoti quelli che sotto tale abito, in tale veste di agnelli, li vedevano pecorilmente sfilare, tristo branco di rinnegati, ignari, come i loro padroni, di quale onore rendessero, così adoprandolo per ingannare gli onesti, all’abito sacerdotale. Tali gli ordini, ed essi, quei preti e quei frati, avevano obbedito riprendendo volenterosamente, ai fini dei senza-Dio, ciò che con tanto disprezzo avevan buttato disobbedendo a chi chiedeva che almeno in chiesa, almeno all’altare, fossero anche esteriormente, agli occhi degli uomini, ciò ch’erano realmente e indelebilmente agli occhi e ai fini di Dio”.

“L’appello a indossare l’abito talare e religioso, da parte di chi spesso e ostentatamente non se ne serve più nemmeno durante i riti sacri, appare come un controsenso, dal quale potrebbero nascere anche abusi di travestimento e di usurpazione di indebita qualifica”.

“Così, a commento del fatto, il giornale del Vaticano, ed è per questo che ‘la conta’ s’impone: affinchè non inganni il travestimento: perché il manto dell’agnello non mimetizzi il lupo, ai danni del gregge: perché la qualifica di cattolici, usurpata da chi lo fu, non induca a crederli ancora, a confonder coi discepoli i Giuda, per differenti che questi siano da quello d’Iscariot”.

SE UN SACERDOTE NON SA PORTARE DIO AGLI ATEI È UN AMEBA

Di recente il cardinale Ravasi ha citato una delle tante poesie di Turoldo, che dice: “Fratello Ateo, nobilmente pensoso, alla ricerca di un Dio che io non so darti, attraversiamo insieme il deserto. Di deserto in deserto andiamo oltre la foresta delle fedi, liberi e nudi verso il Nudo Essere e là dove anche la Parola muore abbia fine il nostro cammino”.

Come fa un sacerdote a parlare de “la ricerca di un Dio che non so darti“?

Senza dubbio “attraversiamo insieme questo deserto”, ma il sacerdote è l’Alter Christus. Come nell’incontro con i discepoli di Emmaus, Cristo è in mezzo a due persone che cercano risposte. Un sacerdote deve perfettamente sapere cosa dare: è il “fratello ateo” che deve essere spronato e convinto che ciò che il sacerdote gli sta offrendo è il Dio che cerca. L’ateo non può essere semplicemente lasciato alla sua idea del divino. Un sacerdote può incontrare delle difficoltà nell’essere convincente riguardo a quello che predica, ma il Dio che porta si fa riconoscere, come ci insegnano molti santi. Il “fratello ateo” deve essere sospinto verso la certezza che ciò che il sacerdote gli offre non è una idea di Dio, ma è Dio che già sta operando attraverso lui che è Suo ministro, che non per nulla viene detto “santificatore”.

E poi: “andiamo oltre la foresta delle fedi? liberi e nudi verso quel Nudo” che certamente è Cristo ma, a questo punto, è un Cristo al di fuori della fede cattolica vista, per altro, come una fra le tante fedi. Un luogo dell’anima dove “anche la Parola muore”: ma ciò non avviene, incruentemente, sull’Altare, dentro la Chiesa? Certo avviene anche in mezzo ai moribondi disperati, ma lui è il sacerdote che deve portare la certezza di questo Dio, non il fratello ateo che spesso lo rifiuta, rigettando l’Istituzione del Corpo di Cristo.

Non si può fare esegesi biblica-dottrinale, come pretende Ravasi, partendo da una poesia… O, per lo meno, occorrerebbe spiegarla dottrinalmente nell’ortodossia, perché è ovvio che una poesia può essere interpretata in diversi modi e il suo linguaggio, volutamente sfuggente, può creare confusione.

LA CRITICA DI MONS. LIVI AL “PROFETA” TUROLDO

Vale la pena di citare come ultima parola, perché ultima non sia mai la “mia”, l’altrettanta interessante, e recentissima, riflessione di mons. Antonio Livi: [il testo integrale lo trovate qui: Turoldo e il mito del profeta inascoltato, del 25.2.2012, in occasione dei vent’anni dalla morte del prete-poeta].

Mons. Livi non ci sta a ricordare Turoldo con le solite frasi trite e ritrite usate come slogan e che abbiamo ricordato in apertura dell’articolo, come quella frase del cardinale Martini, che mons. Livi chiarisce correggendo l’errore (e l’orrore). Scrive infatti:

“Dal punto di vista teologico, si tratta di assurdità, perché pretendono di costruire un’ecclesiologia arbitraria, dove l’opinione (più o meno plausibile, e quindi sempre criticabile) viene spacciata per dogma, mentre il dogma è considerato come se fosse una mera opinione (da criticare perché recepita come espressione di un’ideologia avversa)”.

“È una dialettica che ho illustrato nel mio trattato su Vera e falsa teologia, ma qualunque fedele cristiano adeguatamente formato è in grado di smascherare coloro pretendono di imporre le proprie posizioni ideologiche come se fossero una rivelazione diretta di Dio alla quale dovrebbero adeguarsi anche i Pastori della Chiesa. La commemorazione di padre David Maria Turoldo è stata l’occasione per ripresentarlo come un’icona del profetismo progressista, ossia di quella ‘Chiesa del dissenso’ che si rivolge all’opinione pubblica cattolica con false ragioni teologiche malamente mascherate dai clichés retorici”.

“La retorica è l’arma principale delle ideologie. È per questo che, a partire dagli anni del Concilio Vaticano II, certa religiosità cattolica ‘di sinistra’ si è costruita i suoi idoli, i suoi oggetti di culto e i suoi riti. Ai riti cattolici ‘di sinistra’ è essenziale presentare i propri esponenti non solo come ‘profeti’, cioè come autentici araldi del vangelo, ma anche come ‘martiri’, come ‘preti scomodi’ che sono stati vittime della repressione da parte del potere ecclesiastico. Come già padre Balducci e don Milani e oggi don Gallo (ma l’elenco è lungo, e comprende anche l’ex abate di San Paolo, dom Franzoni), anche la figura e l’opera (soprattutto poetica) di padre Turoldo sono stati utilizzati dalla propaganda ideologica. Le sue iniziative pastorali e culturali sono state presentate come se questo buon religioso fosse davvero soltanto la ‘voce degli oppressi’, un paladino della lotta di classe all’interno della società civile e della comunità ecclesiale”.

“Antonio Borrelli, in Santi, beati e testimoni, ha scritto di lui: Uomo di grande sensibilità, combatté con sdegno le ingiustizie, rifiutando ogni compromesso con il potere; gli aggettivi che meglio lo qualificarono furono, ‘ribelle’ (nel senso nobile del termine), ‘impetuoso’ (nelle sue reazioni ed atteggiamenti), ‘drammatico’ (per le sue vicissitudini), ‘fedele’ (a Dio, alla sua vocazione, alla sua origine)”.

“Già il fatto di distinguere tra fedeltà a Dio e fedeltà alla propria vocazione e alle proprie origini è nonsenso teologico. Ma per la retorica tutto fa brodo.

La sua fu, insomma, la vita di un religioso stimato, di uomo di cultura politicamente impegnato, di un poeta più volte premiato. Solo strumentalizzandola può presentarsi come la vita di un profeta inascoltato. Turoldo non poteva essere ed effettivamente non fu un ‘profeta’: fu semplicemente un uomo di fede, con iniziative pastorali e proposte teologiche che qualcuno potrà giudicare positivamente (ma senza canonizzarle), mentre altri possono legittimamente criticarle”.

“Io, ad esempio, nei discorsi di Turoldo vedo i limiti teologici di quel ‘biblicismo’ che è stato esplicitamente stigmatizzato da Giovanni Paolo II nell’enciclica Fides et ratio. Come molti teologi del tempo egli riduceva la ‘Parola di Dio’ non alla Rivelazione proposta infallibilmente dalla Chiesa ma alla sola Scrittura recepita con il ‘libero esame’, e quindi filtrata attraverso le precomprensioni suggerite dalle categorie ideologiche delle filosofie di moda”.

La più insidiosa di queste categorie filosofiche è quella hegeliana della negatività in Dio, assurdità logica che si ritrova spesso nel linguaggio dei pretesi ‘mistici’ e anche in questi versi di Turoldo: Dio e il Nulla – se pur l’uno dall’altro si dissocia… / Tu non puoi non essere / Tu devi essere, / pure se il Nulla è il tuo oceano“.

CHE LA MADONNA GLI ABBIA TESO UN CAPO DI QUELLA CORONA SPEZZATA. MA RIFIUTIAMO LE IDEE DI TUROLDO

Padre Turoldo, nella sua fede come vediamo, esce illeso da questo breve articolo, ma non si può tacere sulle sue idee, non si poteva tacere sulla grave tentazione per cui, da parte dei suoi discepoli, ancora una volta, si torni a sventolare un mito di cartapesta. Abbiamo parlato “papale papale” senza giudicare l’anima del defunto, per la quale preghiamo e che, con grande fiducia, affidiamo alla Vergine Maria, certa che avrà sostenuto un capo di quella Corona spezzata in un momento di euforia modaiola.

Non è da sottovalutare, però, che sia nella Lettera Apostolica Salvifici Doloris di Giovanni Paolo II, sulla sofferenza dell’uomo, che è del 1984, sia nella enciclica di Benedetto XVI Spe Salvi del 2007, sulla speranza cristiana dell’uomo, i due pontefici non citino mai padre Davide Maria Turoldo che della sofferenza umana, quanto della speranza ricercata, è stato “cantore”.

Questo non significa una condanna – dobbiamo stare attenti a non equivocare – ma è chiaro che il silenzio non può diventare neppure un’approvazione o, peggio, una canonizzazione, come pretenderebbero i suoi discepoli. Questo tacere significa semplicemente che ben due pontefici, di cui uno beatificato, non hanno ritenuto opportuno citarlo in opere magisteriali, neppure ricorrendo ad una sua poesia. Certo, i papi, nei documenti ufficiali, citano la Scrittura, i Padri e i Dottori della Chiesa, i santi, per dare al documento stesso il carattere ufficiale del Magistero, della sua infallibilità dottrinale, perché essi non scrivono le proprie opinioni. Proprio questo atteggiamento, però, dovrebbe essere osservato ed imitato da tutti i sacerdoti, specialmente quanti si dicono e sono teologi. Un Papa è anzitutto un sacerdote e, in quanto tale, è allo stesso pari dell’ultimo prete di campagna: sono i ruoli che sono differenti. Padre Davide Maria Turoldo, avrebbe dovuto attenersi semplicemente molto di più di come ha fatto all’ortodossia dottrinale e mai separare la dottrina liturgica dalla dottrina sociale della Chiesa, la teologia morale da quella fondamentale, etc. Esse sono inscindibili: chi la pensa diversamente dalla Chiesa Cattolica nell’una, finisce con il falsificare anche l’altra. Chi dissente inizialmente anche in una sola materia dalla Chiesa, finisce per assumere una visione non prettamente cattolica e per insegnare il falso.