Gli appunti di Benedetto “correggono” l’Amoris laetitia di Francesco

Riproponendo l’enciclica di S. Giovanni Paolo II Veritatis Splendor come argine al “collasso” della morale cattolica, Benedetto XVI in realtà entra in contrasto con quanto descritto dall’esortazione apostolica Amoris Laetitia di Francesco.

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Roberto de Mattei spiega cosa è andato “storto” a Verona…

Essendo la politica l’arte del compromesso, non può che rovinare tutto ciò che tocca, com’è per esempio successo al documento finale dell’importante Congresso di Verona sulla Famiglia. Un’attenta analisi del prof. Roberto de Mattei per “Corrispondenza Romana” con alcune considerazioni dei siti amici “Le cronache di Papa Francesco” e Cooperatores-Veritatis.org per la serie “A Reti Unificate”.

Le cronache di Papa Francesco

Si è fatto a gara per un fiume di parole sul recente Congresso di Verona per la 13° edizione dell’Incontro per le Famiglie. Anche noi, nel nostro piccolo e a “Reti unificate“, quando vogliamo condividere materiale recepito altrove, abbiamo condiviso questa prima analisi – vedi qui – cercando di ben analizzare gli eventi accaduti e di sbrogliare certe matasse generate e create, spesso, dall’odio, dalle vendette, dalle ideologie.

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Se pure i vescovi ignorano la legge morale naturale

Urge chiarimento da coloro che dovrebbero essere i difensori della Verità.

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Fare la morale a Wojtyla

cristianesimocattolico:

Presto sugli altari, ma la sua etica è sotto attacco nella chiesa. E Ratzinger (oggi) ribadisce: si erano persi i fondamenti metafisici, Giovanni Paolo li ha ristabiliti.

di Matteo Matzuzzi (19/03/2014)

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Nella Roma che si prepara a proclamare solennemente santo Giovanni Paolo II il prossimo 27 aprile, dopo la beatificazione a tempo di record avvenuta nel 2011 grazie alla dispensa pontificia firmata da Benedetto XVI, il suo magistero in fatto di visione antropologica e morale viene messo, per la prima volta, pubblicamente in discussione all’interno della chiesa. Un magistero, quello depositato dal lungo pontificato wojtyliano, che è sempre più “disatteso, come se non esistesse”, diceva al Foglio il cardinale Carlo Caffarra qualche giorno fa.

In discussione non c’è (più) da tempo la dimensione politica del pontificato, l’ecclesia militans impegnata con forza nella battaglia per abbattere il Muro di Berlino e radere al suolo la Cortina di ferro, e per realizzare un’unica Europa cristiana “dall’Atlantico agli Urali”, bensì quella dottrina che regola famiglia e matrimonio, vincolo dell’indissolubilità, sacramento cui Giovanni Paolo II, teologo morale, ha dedicato molto del suo lavoro sul trono di Pietro. È su questo che la chiesa cattolica è chiamata a dibattere da qui al Sinodo ordinario del 2015, cui seguirà la decisiva esortazione di Francesco che tirerà le somme del confronto aperto lo scorso autunno. In questione – e la relazione “di taglio teologico” presentata ai confratelli cardinali da Walter Kasper l’ha chiarito – non c’è solo la questione della comunione ai divorziati risposati, bensì il ben più ampio insegnamento giovanpaolino circa la dottrina e la pastorale familiare. Non a caso, il primo oggetto del confronto è la Familiaris Consortio, l’esortazione apostolica scritta al termine del Sinodo sulla famiglia del 1980, preceduto e seguito negli anni successivi da ben centotrentaquattro catechesi sull’amore umano. Il cardinale Oscar Rodriguez Maradiaga, ascoltatissimo coordinatore della consulta istituita dal Pontefice argentino per riorganizzare la curia romana, aveva definito quel testo bellissimo, facendo però capire che su molte questioni – dal gender alle unioni civili, ad esempio – è superato. Sosteneva, il porporato honduregno, la necessità di adeguare l’insegnamento cattolico ai contesti attuali, sì da venire incontro alla sofferenza di chi si trova dinnanzi al fallimento del proprio progetto di vita. E sul magistero di Karol Wojtyla in tema di teologia morale è intervenuto recentemente anche il Papa emerito Benedetto XVI. Lo ha fatto nel libro “Accanto a Giovanni Paolo II. Gli amici e i collaboratori raccontano”, curato dal vaticanista Wlodzimierz Redzioch ed edito da Ares. Tanti i contributi presenti nel corposo volume, da quello di Camillo Ruini a quello di Stanislaw Dziwisz, da Tarcisio Bertone al professor Stanislaw Grygiel. Benedetto XVI – che ha voluto personalmente curare la traduzione del suo intervento dal tedesco all’italiano – spende parole importanti proprio sull’enciclica Veritatis splendor del 1993, che è una sorta di summa del pensiero morale della chiesa, e che “ha avuto bisogno di lunghi anni di maturazione e rimane di immutata attualità”. Joseph Ratzinger va oltre nel segnalarne la centralità e ricorda che “la Costituzione del Vaticano II sulla chiesa nel mondo contemporaneo, di contro all’orientamento all’epoca prevalentemente giusnaturalistico della Teologia morale, voleva che la dottrina morale cattolica sulla figura di Gesù e il suo messaggio avesse un fondamento biblico”.

Eppure, “questo fu tentato attraverso degli accenni solo per un breve periodo, poi andò affermandosi l’opinione che la Bibbia non avesse alcuna morale propria da annunciare, ma che rimandasse ai modelli morali di volta in volta validi. La morale è questione di ragione, si diceva, non di fede”, scrive ancora il Pontefice emerito. La conseguenza di ciò, è che “scomparve da una parte la morale intesa in senso giusnaturalistico, ma al suo posto non venne affermata alcuna concezione cristiana. E siccome non si poteva riconoscere né un fondamento metafisico né uno cristologico della morale, si ricorse a soluzioni pragmatiche: a una morale fondata sul principio del bilanciamento di beni, nella quale non esiste più quel che è veramente male e quel che è veramente bene, ma solo quello che, dal punto di vista dell’efficacia, è meglio o peggio”.
Il “grande compito” che Giovanni Paolo II si diede in questo testo – sono ancora parole di colui che fu il prefetto custode della fede del Pontefice polacco per più d’un ventennio – “fu di rintracciare nuovamente un fondamento metafisico nell’antropologia, come anche una concretizzazione cristiana nella nuova immagine di uomo della Sacra scrittura”. Da ciò deriva l’invito quasi perentorio di Benedetto XVI: “Studiare e assimilare questa enciclica rimane un grande e importante dovere”. E se il contenuto di quel documento poteva ingenerare qualche incomprensione, pazienza: “Giovanni Paolo II non si è mai preoccupato di come le sue decisioni sarebbero state accolte. Egli ha agito a partire dalla sua fede e dalle sue convinzioni ed era pronto anche a subire dei colpi”, ha sottolineato il Papa emerito.

Un esempio in tal senso è relativo al “turbine che si era sviluppato intorno alla dichiarazione Dominus Jesus” del 2000, sull’ecumenismo. Dopo aver precisato, a distanza di quattordici anni, che quel documento “riassume gli elementi irrinunciabili della fede cattolica”, Ratzinger rivela che il Pontefice polacco gli disse “che all’Angelus intendeva difendere inequivocabilmente il documento. Mi invitò – sono parole di Benedetto XVI – a scrivere un testo per l’Angelus che fosse a tenuta stagna e non consentisse alcuna interpretazione diversa. Doveva emergere in modo del tutto inequivocabile che egli approvava il documento incondizionatamente”. Allora, racconta Ratzinger, “preparai un breve discorso; non intendevo però essere troppo brusco e così cercai di esprimermi con chiarezza ma senza durezza. Dopo averlo letto, il Papa mi chiese ancora una volta: ‘È veramente chiaro a sufficienza?’. Io risposi di sì”.

© – FOGLIO QUOTIDIANO

La “genitorialità”, Platone e la nuova morale

di Massimo Viglione (31/12/2013)

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«Mentre l’opinione pubblica è concentrata sulle contrastanti notizie provenienti dalla politica e dall’antipolitica, si stanno realizzando, per quanto riguarda i rapporti privati, riforme di forte incisività. Si tratta di portare a compimento il Nuovo diritto di famiglia, varato nel 1975, che un legislatore definì allora: “Una legge di oggi che diventerà la morale di domani”».

Questo è l’incipit di un breve ma denso e importantissimo articolo di Silvia Vegetti Finzi (CdS, 15/12/2013, p. 37) intitolato “Addio per legge al padre padrone. I figli sono di chi li cresce e li educa”.

L’articolo è passato in realtà abbastanza inosservato. E invece merita la massima attenzione, veramente una sorta di attenta esegesi che va ben al di là della semplice questione dei figli nati fuori dal matrimonio o anche di quella del cosiddetto “padre padrone”.

L’autrice ci palesa in poche righe una delle più grandi, devastanti e profonde rivoluzioni in atto sotto i nostri occhi, destinata a sovvertire per sempre l’ordine naturale del creato, creando a sua volta “la morale di domani”, per l’appunto. Come vedremo ora, non è neanche più questione di educarci al “sesso libero” in sé, o al gusto del rapporto con lo stesso sesso, con i bambini o magari con le bestie.

Qui si va oltre, è in gioco qualcosa che va al di là della morale per incidere direttamente sul DNA del creato stesso, se così si può dire: è in gioco il concetto di genitore e figlio, la “genitorialità”, per usare un termine rivoluzionario.

Anzitutto è da sottolineare proprio la prima riga dell’articolo. La Vegetti Finzi ci palesa la prima grande verità preliminare: mentre tutti pensano alle pur importanti e in certi casi imprescindibili questioni economiche (o magari alla legge elettorale), “altri” stanno pensando a “transustanziare” la famiglia stessa e il mondo in cui dovranno vivere i nostri figli. E in che maniera? Procedendo «attraverso mutamenti lessicali destinati a provocare mutamenti reali su nostro modo di vivere insieme e sulla costruzione dell’identità personale». Ecco perché niente più figli “legittimi”, “naturali”, “adottivi”: queste parole saranno cancellate perché deve essere cancellato il significato stesso che sottintendono, il mondo che sottintendono, la morale che le presuppone, in quanto ora la “genitorialità” si fonderà «sulla responsabilità piuttosto che sul potere». E sul sangue, aggiungiamo noi. I figli non appartengono più a chi li mette al mondo, ma «a chi li riconosce, li cresce e li educa adeguatamente».

Da anni, decenni, chi scrive aveva sempre pensato che dietro i sempre più numerosi casi di esproprio da parte dello Stato dei figli a genitori violenti o disumani (o presentati tali) si celasse la volontà di distruzione della famiglia. Oggi ci siamo arrivati e la maschera sta per essere gettata: «tutti hanno diritto ai medesimi rapporti di parentela» e «poiché la famiglia è un sistema, nulla sarà come prima» e si arriverà infine appunto «a un nuovo quadro antropologico e, di conseguenza, a una nuova morale».

L’autrice conclude ricordando peraltro che se non vi sarà più ovviamente il padre autoritario della società premoderna, non vi dovrà più essere nemmeno il “genitore-amico” della modernità (e questo appare l’unico lato positivo, interessante e indiretta ammissione dell’idiozia pedagogica odierna), ma si richiederà «a entrambi i genitori una autorevolezza fondata sul riconoscimento reciproco, confermato dalla comunità».

Mi soffermo – fra tutti gli innumerevoli possibili spunti di approfondimento – solo su quest’ultima asserzione. Che vuol dire “confermato dalla comunità”? Forse che si è padre o madre solo perché e nella misura in cui e fino a quando la “comunità” me lo riconosce e concede? E chi è la “comunità”? Lo Stato? La magistratura? I “comizi popolari”? E se un genitore non dovesse essere riconosciuto come padre di chi ha generato, o se un giorno perdesse tale riconoscimento, chi sarebbe il padre del “generato”?

A questa ultima terrificante domanda, risponde la Vegetti Finzi nella conclusione del suo articolo: «Ogni adulto in quanto tale» sarà «responsabile del benessere e della crescita delle nuove generazioni».

Ecco la nuova morale, l’ultimo passo della rivoluzione antropologica. Tutti saremo figli di tutti e tutti saranno genitori di tutti. Pertanto, non esisteranno più la figura del padre e della madre (e pertanto qui si va oltre anche all’affidamento di bambini a coppie omosessuali), perché, come insegnano in Spagna, quando si è “todos caballeros” nessuno è più cavaliere. E non saremo quindi neanche più figli, perché non avremo più genitori.

Come dicevo, qui si va ben al di là delle follie omosessualiste, pedofiliste o bestialiste. Si sta distruggendo “materialmente” la cellula su cui si fonda la società umana. È come se ad Aristotele si volesse sostituire Platone. Ma non il Platone sessantenne del Politico o quello ottantenne de Le Leggi, uomo anziano e poi vecchio che è stato e sarà fondamento della civiltà occidentale, ma il Platone quarantenne de La Repubblica, quello che si studia banalmente sui banchi di scuola.

Ce lo ricordiamo? Atene ha perso la guerra con Sparta a causa delle lacerazioni sociali interiori, a loro volta causate dall’invidia dei demagoghi verso ricchi e potenti. Quale può essere allora lo Stato ideale fondato sull’armonia? Uno Stato in cui gli uomini con l’anima d’oro (i reggenti-filosofi che fondano la loro vita sul Logos dell’anima razionale) e con l’anima d’argento (i guardiani-militari, che fondano la loro vita sulla parte irascibile dell’anima) non devono più possedere alcuna forma di proprietà privata allo scopo di raggiungere l’uguaglianza assoluta e perpetua, al punto tale che dovranno vivere in comune, in caserme comuni, con donne comuni, e, conclude Platone, con figli comuni, in quanto un figlio costituirebbe “proprietà privata” e quindi disuguaglianza. A tal fine, occorrerà strappare i figli appena nati dalle madri, così che queste mai potranno riconoscerli e tutti si sentiranno genitori di tutti e figli al contempo di tutti.

È il comunismo platonico, il cui scopo dichiarato era la scomparsa dell’invidia sociale, almeno fra le classi con responsabilità politica e militare (tutto il resto del popolo, per Platone quarantenne, aveva l’anima di bronzo, e viveva servo dell’anima concupiscibile, e, in quanto tale, non poteva rinunciare alla famiglia e una limitata proprietà privata).

La Rivoluzione è un mostro che si rigenera di continuo cambiando progressivamente uomini, strumenti, progetti e anche idee, in parte. Ma c’è una cosa che non può cambiare: ed è il suo motore inesauribile, la struttura della sua stessa esistenza: l’invidia. L’invidia che odia ogni forma possibile e immaginabile di disuguaglianza e ha come progetto immutabile la realizzazione dell’uguaglianza perfetta, mediante la distruzione di ogni diversità, fino a quelle più strutturali, come i generi naturali (ecologismo), come la famiglia, e come i sessi, o come l’intelligenza, o la salute stessa. E odiando ogni diversità, odia il mondo stesso, che è stato strutturalmente creato da Dio gerarchicamente. E lo odia perché odia Dio, fonte di ogni gerarchica differenza e al contempo Padre comune di tutto ciò che esiste.

L’inferno in terra ci si sta preparando, proprio mentre noi, affamati da governi e banche complici, ci dibattiamo preoccupati della legge elettorale, di Renzi, delle donne o del cane di Berlusconi e dell’IMU. O, magari, ci sentiamo dire che il più grande male del mondo di oggi sono gli anziani abbandonati e i giovani disoccupati.

Un giorno, se non spezziamo la secolare catena dell’autodistruzione, non ci saranno più neanche i giovani e gli anziani, come non ci saranno più i figli e i genitori, né tanto meno case private su cui pagare l’IMU né lavoro personale. Ma ci sarà il mondo del film “Metropolis”.

Il tempo vola sotto i nostri piedi, la Rivoluzione gnostica e ugualitaria sta andando verso le sue più estreme conseguenze: è tempo che ce ne rendiamo conto, tutti insieme, aprendo gli occhi della mente e del cuore alla realtà come essa è, e, al contempo, spalancando le porte della nostra Fede alla Speranza incrollabile e certissima che il “capo” della Rivoluzione, fonte di ogni odio, sarà schiacciato inesorabilmente da Colei che tutto può in Dio ed è Madre della Carità, con il servizio di coloro fra gli uomini che avranno compiuto la loro scelta di campo, in obbedienza gerarchica e in carità di intenti e azioni, in questi giorni in cui chi non sceglie ha già scelto.

© Giudizio Cattolico