I deliri del vescovo Olivero: “Il matrimonio non è infrangibile”

Le dichiarazioni eretiche del vescovo di Pinerolo sull’Amoris Laetitia rende urgente la risposta ai dubia: “Ai sacramenti può accedere chi vive una nuova unione in tutti gli aspetti, seguendo la coscienza e non il prete”.

Continua a leggere “I deliri del vescovo Olivero: “Il matrimonio non è infrangibile””

Ecco la via polacca all’Amoris Laetitia

Grande attenzione alla preparazione al matrimonio e formazione dei sacerdoti che devono seguire le diverse situazioni irregolari. E per i divorziati risposati massima accoglienza, accompagnamento spirituale, inclusione ma non l’accesso all’Eucarestia. Queste le indicazioni nelle linee guida dei vescovi polacchi.

Continua a leggere “Ecco la via polacca all’Amoris Laetitia”

Per chi ha poco tempo, in mezza pagina vi spieghiamo la questione dell’Amoris Laetitia

Forse il miglior sunto mai scritto sulla questione Amoris Laetitia.

Continua a leggere “Per chi ha poco tempo, in mezza pagina vi spieghiamo la questione dell’Amoris Laetitia”

L’Eucarestia ai conviventi? La Chiesa ha aperto una porticina. Ma il papa non converte i zelanti.

Ci sono buone famiglie cristiane anche al di fuori del matrimonio. E “l’Eucaristia non è un premio destinato a chi è perfetto”. L’abbraccio evangelizzante di Francesco e le paure di una capitolazione sulle nozze gay.

MATTEO MATZUZZI

Continua a leggere “L’Eucarestia ai conviventi? La Chiesa ha aperto una porticina. Ma il papa non converte i zelanti.”

Grandi cambiamenti ma anche no. Francesco e i suoi fratelli incerti.

Tra pochi giorni si apre l’Assemblea sinodale sulla famiglia e il resto. Breve rapporto sullo stato delle cose.

di Matteo Matzuzzi

Tutti premettono che al Sinodo prossimo venturo nessuno ha intenzione di toccare la dottrina. Perfino Walter Kasper, il latore della proposta misericordiosa per salvare dal naufragio chi è andato incontro a un fallimento matrimoniale, ha detto e ridetto che non si può fare. Ci si scontrerebbe con Gesù Cristo, il suo insegnamento, la sua parola. Al limite, si può studiare qualche ritocco all’approccio pastorale per venire incontro alle esigenze dei tempi, a quelle situazioni inedite fino a qualche decennio fa che ora rappresentano, in molti contesti, la normalità, come dimostra l’aumento esponenziale delle famiglie cosiddette patchwork. Subito, però, s’è alzato anche qui il muro di chi ricorda che pastorale e dottrina sono inscindibili, che non si può fare il maquillage alla prassi senza andare a scalfire il portato dottrinale. Non solo il prefetto della congregazione per la Dottrina della fede, il cardinale Gerhard Ludwig Müller, in interventi pubblici, libri e articoli pubblicati sull’organo ufficiale della Santa Sede, l’Osservatore Romano, ha ammonito sui rischi nei quali s’incorre a separare la giustizia dalla misericordia. Perfino il capofila del cambiamento totale che superi Humanae Vitae e Familiaris Consortio, il vescovo fiammingo d’Anversa Johan Bonny, ha messo nero su bianco in un corposo documento tradotto in varie lingue, che è assurdo sentir dire che al Sinodo in gioco sarà solo la pastorale: affermazione senza alcun senso, visto che “la pastorale ha tutto a che fare con la dottrina, e la dottrina con la pastorale”.

Walter Kasper e Karl Lehmann, discepoli di Karl Rahner.
Walter Kasper e Karl Lehmann, discepoli di Karl Rahner.

Un tale quadro lascia perplesso il cardinale Raymond Leo Burke, prefetto della Segnatura apostolica, che facendo un bilancio del dibattito di questi mesi sui temi oggetto dell’Assemblea straordinaria che aprirà i lavori il 5 ottobre, vede solo “una grande confusione e anche qualche errore” contenuto in dichiarazioni che hanno a che fare con la dottrina cattolica. Parola un po’ troppo abusata, questa, a giudizio del vescovo Vincenzo Paglia, che presiede il Pontificio consiglio per la Famiglia: “Il Sinodo non deve essere imbrigliato sulla dottrina”, anche perché “l’azione misericordiosa deve agire concretamente, la prassi deve trovare ispirazione nella parabola del buon samaritano che agisce senza porsi eccessive domande, come la chiesa da campo evocata da Papa Francesco che prima cura le ferite gravi e solo dopo si preoccupa di affrontare le altre questioni burocratiche”. E poi, insomma, basta parlare solo di ostia ai divorziati risposati: “L’attenzione su questo tema mi appare per lo più artificiosa”, dice all’agenzia Adnkronos, notando “un certo prurito nel voler contrapporre posizioni che certamente sono diverse ma sicuramente non incompatibili e incomponibili. In ogni caso – ha aggiunto – non si tratta dell’aspetto più rilevante fra quelli che esaminerà il Sinodo”.

Non è dello stesso avviso il vescovo spagnolo di Cordoba, mons. Demetrio Fernández, che alla questione ci tiene al punto da aver chiesto direttamente al Papa cosa pensasse di fare, durante un’udienza che si è tenuta a Roma nei mesi scorsi: “Mi ha detto che una persona sposata dalla chiesa, poi divorziata e risposata civilmente, non può accedere ai sacramenti”. Francesco “mi ha detto che questo è stato istituito da Gesù Cristo e il Papa non lo può cambiare. Dico questo perché a volte la gente sostiene che tutto cambierà”, mentre “ci sono cose che non possono cambiare”. Tanto è bastato perché i media cattolici di Spagna titolassero quasi all’unisono che “il Papa non cambierà la dottrina sui divorziati risposati”. Senza che Francesco, sul tema, mai si sia espresso ufficialmente. Vuole che il confronto sia aperto – come dimostra la composizione della rosa di padri sinodali da lui designati, dove trovano eguale spazio i favorevoli alla svolta e i contrari – e che parta dalla lunga relazione dal taglio teologico affidata a Walter Kasper, colui che insieme a Karl Lehmann e Oskar Saier già vent’anni fa aveva proposto cambiamenti circa i divorziati risposati, scontrandosi prima con Joseph Ratzinger e poi direttamente con Giovanni Paolo II, che rispedirono la proposta al mittente.

Tutto sommato, ha detto ancora il cardinale Burke, il Sinodo sulla famiglia “è una buona cosa, nella misura in cui si baserà solidamente sulla dottrina e la disciplina della chiesa sul matrimonio”. Questo, per il porporato americano capo della Cassazione vaticana, è il recinto dal quale non si può uscire, nonostante ormai “si sia creata una situazione in cui la gente si attende grandi cambiamenti, che però non potranno esserci”.

© FOGLIO QUOTIDIANO (27 settembre 2014)

Perché un sinodo sulla famiglia?

A leggere l’esortazione apostolica Evangelii Gaudium in combinato disposto con il famoso discorso programmatico tenuto dal cardinale Kasper sulle prospettive del sinodo, che tanto ha fatto discutere, e poi l’Instrumentum Laboris, si potrebbe pensare che la famiglia si prepara a ricevere forse un colpo mortale, o meglio, data la situazione attuale, il colpo di grazia.

di Patrizia Fermani (25/07/2014)

Si risponderà che la famiglia è sotto un attacco tanto potente, sferrato da tempo su più fronti, da fare temere per la sua stessa sopravvivenza. E dunque è ovvio che la Chiesa concentri la propria attenzione su questo pilastro insostituibile per il singolo e per la società. E’ anche vero che tutte le questioni più scottanti riguardanti la famiglia sono già state affrontate e approfondite in atti del Magistero ben prima che entrassero nella discussione corrente. Ma di tutto ciò ben poco, se non nulla, pare sia arrivato ai fedeli attraverso l’insegnamento e la predicazione dei sacerdoti, evidentemente impegnati su altri fronti e interessati ad altre questioni. E ben poco sia entrato nelle direttive diocesane.

Per questo il Sinodo si è posto un obiettivo pastorale, e in vista di esso è stato diffuso per l’orbe terracqueo cattolico un questionario volto a misurare la effettiva diffusa conoscenza dei nuovi problemi che investono la famiglia, le eventuali opinioni che su di essi si siano formate nei diversi contesti geografici, le soluzioni proposte, nonché le aspettative nei confronti della Chiesa. Su questa base è stato elaborato l’Instrumentum Laboris, che servirà da base di discussione per l’assemblea dei vescovi. Il tutto per rendere più efficace l’insegnamento dei pastori laddove esso risulti inadeguato e deficitario. Fermo restando che i contenuti di tale insegnamento non possono non essere quelli immutabili della dottrina cattolica.

Il proposito, dunque, sembra più che apprezzabile.

Sennonché molti fattori hanno concorso, nell’ultimo anno e negli ultimi tempi in particolare, ad insinuare dei dubbi sulla effettiva determinazione della Chiesa di mantenere fermo il proprio deposito dottrinale. In primo luogo è infatti innegabile come lo stesso Bergoglio, attraverso una miriade di interventi estemporanei, abbia incoraggiato l’idea che proprio il principio della stabilità dottrinale possa essere messo in discussione. In particolare, la Istruzione apostolica Evangelii Gaudium potrebbe costituire una seria ipoteca posta sul prossimo sinodo sulla famiglia, e così pure lo stesso Instrumentum Laboris.

Infatti, a leggere l’esortazione apostolica in combinato disposto con il famoso discorso programmatico tenuto dal cardinale Kasper sulle prospettive del sinodo, che tanto ha fatto discutere, e poi l’Instrumentum Laboris, si potrebbe pensare che la famiglia si prepara a ricevere forse un colpo mortale, o meglio, data la situazione attuale, il colpo di grazia.

Vale la pena di percorrere anche superficialmente questo itinerario per verificare se tali preoccupazioni possano dirsi fondate, a cominciare dall’Evangelii Gaudium e da quei punti salienti del documento che non lasciano molto spazio all’interpretazione.

Dopo l’enfasi gioiosa dei paragrafi introduttivi, si capisce ben presto che il gaudio travolgente non ci verrà tanto dalla forza dell’Evangelo in sé, quanto da una sua interpretazione profondamente innovativa, ritenuta ormai imprescindibile. E siamo subito avvertiti, a scanso di equivoci, che “qualunque enunciato della Chiesa, in quanto totalità del popolo che evangelizza, deve essere riconosciuto come di iniziativa divina”. Abbiamo dunque due proposizioni: da un lato si dice che la Chiesa è la totalità del popolo che evangelizza e, dall’altro, che l’iniziativa è comunque di Dio. Anche se il “popolo di Dio” e la sua diffusa vocazione sacerdotale è il noto e accreditato stereotipo conciliare, sfugge il senso di un popolo che è allo stesso tempo autore e destinatario della evangelizzazione. Il mandato di Cristo di annunciare il Vangelo era dato agli Apostoli quale minoranza che aveva avuto il privilegio e il munus di essere depositaria dell’annuncio vero ricevuto direttamente dal Suo Autore. Destinatari erano tutti quelli che avrebbero dovuto convertirsi e credere al Vangelo. Una distinzione di ruoli è nella logica delle cose.

Inoltre ci si deve chiedere se bisognerà riconoscere come di iniziativa divina anche le strade storte che il popolo possa imboccare, a meno di ritenere che, per il principio di immanenza, qualunque strada scelta dal popolo di Dio sia buona, compresa quella del vitello d’oro. Non per nulla Ratzinger, spiegando il significato veterotestamentario del “popolo di Dio”, lo identificava in Israele che esce per cercare Dio e lungo il cammino costruisce quel vitello d’oro che sarà poi distrutto da Mosè.

Intanto, sempre secondo l’esortazione, per rendere effettivo tale impellente rinnovamento occorre una “conversione” del papato, da realizzarsi anzitutto con un decentramento ai vescovi di questioni anche dottrinali. A sua volta, l’episcopato deve seguire il gregge che con l’olfatto sa imboccare le strade giuste perché è aiutato dallo Spirito Santo a riconoscere i “segni dei tempi”. Insomma, per la proprietà transitiva, anche le questioni dottrinali sono affidate al gregge dietro al quale si metteranno in buon ordine vescovi e pontefice. Il gregge audace e creatore (meglio dire creativo) deve rompere gli schemi (33). Infatti “Cristo può anche rompere gli schemi noiosi nei quali pretendiamo di imprigionarlo e ci sorprende con la sua costante creatività divina” (11).

Ora, la creatività di Dio Padre Onnipotente è fuori discussione. Un po’ meno immediata quella del Figlio, che non fa la Propria ma la Sua Volontà. Anzi, come scriveva ancora J. R. in “Dio e il mondo”, “i comandamenti acquistano una forma definitiva con Cristo che vi svela il volto del Padre”. Ma il cattolicesimo di Bergoglio è quello protestantizzato dal Concilio che ha sostituito al Padre creatore l’uomo creativo, appunto, di cui Gesù rappresenta il modello supremo. Così Egli, per certa cultura del progressismo nostalgico ancora duro a morire, è potuto diventare persino il primo rivoluzionario marxista della storia, precursore del Che, e prima di Emiliano Zapata e di Pancho Villa, forse anche modello per la Ibarruri, o magari per Ulrike Meinoff, sempre capace di indicare a tutti trionfalmente il sendero luminoso di una salvezza tutta terrena.

In questa prospettiva dovremmo dunque trovare le strade nuove (31) dove ci conduce il mito della libertà fine a se stessa, che ha soppiantato come valore assoluto la verità.

La libertà richiede che si eliminino i divieti (33) secondo il dogma sessantottino del “vietato vietare” che tanti frutti culturali e morali ha portato alla civiltà occidentale. Quindi bisogna previamente liberarsi dalle norme, quantomeno da quelle che limitano appunto la libertà, e dai lacci della dottrina (39), l’attaccamento alla quale dà luogo nientemeno che ad un elitarismo narcisista (93). In secondo luogo dai superati precetti ecclesiali (42) “che possono essere stati molto efficaci in altre epoche ma che non hanno più la stessa forza educativa come canali di vita”, e dal correlativo linguaggio tradizionale (41). Bisogna guardare al progresso del mondo attuale che si dipana in ogni campo, compreso quello della educazione (sic!), altrimenti si finisce per andare contro i bisogni concreti della storia (95).

L’idea portante ossessivamente ripetuta è dunque quella della necessità di liberarsi dalla legge (45), perché il cuore del Vangelo è l’amore salvifico di Dio e non la sua verità (36). Infatti anche il Vaticano II “ ha posto una gerarchia delle verità nella dottrina cattolica e questa gerarchia vale per i dogmi come per l’insegnamento morale”.

Dunque bisogna liberarsi dalla idea obsoleta che ci sia una verità da imporre a tutti, perché la verità non va imposta (165), “ma semplicemente proposta”, di certo in omaggio al principio del pluralismo democratico. Ne emerge la confusione insanabile tra la questione di metodo e quella di contenuto, mentre si sostituisce il principio liberale della libertà del consenso, che prescinde dal fondamento etico oggettivo della verità proposta e rinuncia preventivamente a farla valere anche qualora essa sia la condizione per la salvezza. Eppure ad un bambino non chiedo se è d’accordo sulla necessità di assumere l’antibiotico per curare la polmonite. Glielo do e basta.

Apprendiamo poco dopo che anche le verità (come ha insegnato il marxismo e il Corano) possono essere diverse, che di volta in volta bisogna utilizzare quella funzionale alle contingenze del caso, e che comunque esiste anche una gerarchia delle verità (36) secondo la quale bisogna dare spazio a quelle ritenute più importanti, per la metafisica bergogliana. Sul punto viene chiamato in causa persino S. Tommaso. Solo che il malcapitato dottore angelico, lungi dall’avere sostenuto la gerarchia delle verità, che avrebbe contraddetto la sua intera filosofia, ha osservato che c’è una gerarchia delle virtù, cosa che è evidentemente, tutt’altra storia.

Data la molteplicità delle verità, non bisogna “rinchiudersi nelle norme che ci trasformano in giudici implacabili”. Ed ecco espresso in modo lapidario un altro asse portante del pensiero di Bergoglio, secondo il quale con la norma va abolito, ovviamente, anche il giudizio. La conclusione è inevitabile, perché se viene meno la norma sulla quale va modellato il comportamento viene meno anche il criterio per poter giudicare. Ma non in virtù del presunto dettato evangelico. Infatti è evidente come la domanda retorica che servirà al vescovo di Roma per passare alla storia si fonda su una lettura rovesciata del passo di Giovanni 17,24 che raccomanda di giudicare non secondo il punto di vista personale, ma secondo ciò che è giusto (katà ten dikaian krisin).

Giovanni non interdice affatto la possibilità di giudicare, che sarebbe come interdire la possibilità di distinguere tra il bene e il male, ma riafferma come il solo criterio vero di giudizio sia quello fornito da ciò che è giusto. E l’unico criterio di giustizia oggettivamente valido è ovviamente la legge divina, proprio quella della quale invece siamo invitatati ora a disfarci con tanta insistenza. La norma pone l’esigenza dell’osservanza e la trasgressione quella del giudizio. Tertium non datur. E abolita la norma e il giudizio sulla trasgressione viene abolito anche il peccato, che per il Vangelo della famiglia altro non è se non la violazione delle norme della creazione. E di tale abolizione avremo conferma programmatica, come vedremo, proprio attraverso l’Instrumentum Laboris.

Intanto è confortante andare a rileggere le belle pagine con cui l’arcivescovo di Monaco che diventerà Benedetto XVI affrontava con fede intatta e bellezza di pensiero il tema de quo.

Sempre dall’Evangelii Gaudium apprendiamo che, se bisogna liberarsi dal miraggio di una verità assoluta, altrettanto pericolose sono le “verità soggettive” dei “neopelagiani”, che “si sentono superiori agli altri perché osservano determinate norme e sono fedeli ad un certo stile cattolico proprio del passato” con la relativa “presunta sicurezza dottrinale e disciplinare” (94).

A questo punto l’orizzonte ermeneutico si fa sempre più chiaro: non rimane che affidarsi allo spirito del tempo.

Non manca un qualche riferimento specifico al tema della famiglia laddove al numero 66 vengono citati i vescovi francesi secondo i quali il matrimonio “nasce dalla profondità dell’impegno assunto dagli sposi che accettano di entrare in una comunione di vita totale”. Un po’ poco per il matrimonio cattolico che quell’impegno lo intende perpetuo, ma quanto basta per fare entrare nello schema anche altre forme di comunione di vita.

Colpisce infine come a proposito dell’omicidio, quale contravvenzione ad una norma fondamentale della convivenza umana, vengano menzionate le vittime della povertà, ma non quelle dell’aborto.

L’Evangelii Gaudium contiene molte cose succose anche nella parte successiva, ma fin qui ce n’è già a sufficienza per indirizzare il Sinodo sulla famiglia verso la liberazione dai principi regolatori di matrimonio, filiazione e doveri relativi, cioè ci sono tutti i presupposti per arrivare al Sinodo senza il fardello della legge posta dalla Creazione, e dal peccato che segna la sua violazione.

In seguito è venuta la sconcertante relazione del cardinale Kasper al Concistoro straordinario sulla famiglia del 20 febbraio 2014. Una sortita non casuale e non irrilevante da parte di chi tiene entrambe le chiavi del cuore di Federigo come Federigo stesso ha tenuto a far sapere urbi et orbi quando nel primo angelus lo ha eletto a proprio alter ego teologico. E Kasper, dopo una vita passata in seconda fila a cercare di contrastare il pensiero cattolico ratzingeriano, ora recupera con malcelata euforia il tempo perduto. (Per una esposizione esauriente della teologia Kasperiana, quale è espressa nella Relazione basta leggere quanto scrive Danilo Castellano nel numero di aprile di “Instaurare Omnia in Christo”). Le premesse di quel discorso erano già tutte in una sua opera del 1975 intitolata “Fede e storia” in cui si legge fra l’altro: “la realtà di un mondo senza Dio, di fronte alla quale ci troviamo, è in parte solo la reazione ad un Dio senza mondo”. La tesi è che il male del mondo dipende dalla inveterata pretesa della Chiesa di imporre Comandamenti e Vangelo secondo una interpretazione estranea alla vita della comunità cristiana e che essa sola può essere maestra a se stessa. È la stessa idea che troviamo nell’Evangelii Gaudium: del gregge che può lasciarsi alle spalle la guida, per affidarsi al fai da te. Dunque, i mali della secolarizzazione sarebbero venuti anche dalla sfiducia della Chiesa verso il mondo, una sfiducia che le ha impedito di coglierne i “valori” e la capacità di autoregolarsi. Una cecità imperdonabile che Bruno Forte, anche lui in grande ascesa nel firmamento bergogliano, attribuiva persino – guarda un po’ – alla esasperata accentuazione del sacro della Chiesa preconciliare ( La Chiesa della Trinità).

Su quelle premesse Kasper ha portato l’attacco a tutti quei principi e a quelle regole ritenute prive di una base scritturale e comunque inadeguate allo spirito del tempo. Quello che si avvia ad essere identificato con lo Spirito Santo.

In definitiva, questa teologia “cattolica” non ha trovato di meglio che addossare il misterium iniquitatis, che è esploso con inaudita violenza nel novecento e prosegue ora in altre forme più subdole, alla inadeguatezza dei precetti piuttosto che alla loro violazione.

Ora, tale teologia, dopo avere riabilitato il mondo, decide che il male non esiste perché il mondo è hegelianamente anche buono e non va corretto, ma accarezzato in un dialogo permanente di condivisione semi amorosa. Perché il mondo, come diceva ancora Bruno Forte, “riconosciuto come il luogo del Vangelo nella storia è diventato partner del dialogo della salvezza”. Insomma la realtà è capace di governare se stessa attraverso una fede fatta su misura.

Messe da parte le norme perché nocive, e riabilitato il mondo, manca soltanto la formalizzazione di un nuovo codice che sancisca la pace ufficiale tra Chiesa e mondo e un patto di non belligeranza.

Proprio a questo potrebbe provvedere il Sinodo sulla base di quanto ha predisposto l’Instrumentum Laboris, preceduto come abbiamo visto dal famoso questionario che, come efficace strumento di marketing, può servire le eventuali finalità di adeguamento alle leggi di mercato.

Il documento può sembrare innocuo a chi, aprendolo a caso, vi legga i numerosi riferimenti alla consolidata dottrina della Chiesa sulla famiglia e sui temi limitrofi.

Dunque nulla di nuovo sotto il sole? Purtroppo no. Perché, attraverso un percorso tortuoso quanto ambiguo, emerge l’intento di assecondare le ansie creative e innovative dell’Evangelii Gaudium e di superare proprio l’ostacolo di quella dottrina parte del depositum fidei che, se non può essere abrogata per decreto, deve essere relegata in una teca a lato, in funzione ornamentale come è avvenuto per il tabernacolo nella chiesa postconciliare.

Infatti, poiché il depositum fidei che riguarda l’etica della famiglia si radica nella legge naturale, è proprio questa che viene attaccata frontalmente.

L’operazione è disarmante nella sua quasi patetica evidenza: poiché il vangelo della famiglia si fonda sulla legge naturale, che nel pensiero cristiano coincide con la legge di Dio, e poiché è prematuro cambiare quest’ultima, si cambia il contenuto della legge naturale come se fosse cosa diversa dalla prima.

Si parte dal presupposto che essa sia divenuta ostica agli intervistati, come lo è probabilmente anche agli intervistatori. La sua “inattualità” sarebbe poi dimostrata dal fatto che viene contestata attraverso la pratica massiccia del divorzio e la diffusione delle famiglie allargate. Che non ne viene più compreso il significato anche da chi di fatto la osserva, mentre in altri casi è del tutto ignorata, come accade per le popolazioni aborigene che con le loro usanze la contraddicono.

Non vale la pena di soffermarsi sulla confusione tra natura, contenuto e applicazione della legge naturale che emerge da queste e da altre osservazioni sparse nel testo, e che potrebbe essere anche intenzionale. Quello che emerge in modo preoccupante è infatti il disegno dichiarato di sostituire la legge naturale con tutt’altra cosa, con la sua contraffazione laica e razionalistica.

La base programmatica di questa operazione la si trova ai n. 20 e 21 e al rinvio a quanto già enunciato dalla Commissione Teologica Internazionale nel 2009 (35) in un documento intitolato non a caso “Alla ricerca di un’etica universale: nuovo sguardo sulla legge naturale”. Qui dunque si afferma che “la relazione tra Vangelo della famiglia e legge naturale poggia sul necessario rapporto tra il Vangelo e l’umano in tutte le sue declinazioni storiche e culturali. La legge naturale risponde così all’esigenza di fondare sulla ragione i diritti dell’uomo e rende possibile un dialogo interculturale e interreligioso e di fondare la pace universale”. E poiché si dice che attualmente “la legge naturale non è più da considerarsi universale perché non esiste più un sistema di riferimento comune”, è evidente come suo elemento essenziale sia divenuto anche per il Magistero la universalità assicurata da un sistema di riferimento comune esterno, quello del fascio dei “diritti dell’uomo” fondati sulla ragione e codificati dalla nuova morale laica sovranazionale alla quale tutti devono guardare. Quella aggiornata alle svariate Dichiarazioni dei Diritti e dalle Costituzioni buone per ogni apertura alle pretese di tutti e ai doveri di nessuno.

Eppure, come diceva Benedetto XVI, per la Chiesa la legge naturale “è quella indicazione interiore che si riverbera in noi dalla creazione”. Ed è compito della evangelizzazione portare gli uomini a scoprirne il contenuto, laddove essi non l’abbiano riconosciuto. Essa è tale non perché osservata statisticamente dal maggior numero di persone possibile, ma perché ha il valore intrinseco datole dalla Provvidenza divina. E la legge giusta deve essere riconosciuta anche se non obbedita, perché preesiste alla obbedienza dell’uomo e rimane oltre la sua disobbedienza. Ci si dimentica che la legge naturale che si manifesta nel logos cristiano non ci dice ciò che facciamo, ma ciò che dobbiamo fare. Essa opera sul piano della obbligazione morale, è la traduzione di un imperativo che sussiste indipendentemente dalle statistiche sulla sua osservanza e che dovrebbe essere svelato anche a chi non è stato in grado di riconoscerne il valore proprio attraverso la missione evangelizzatrice. Perché, cosa significa mai portare la buona Novella se non indicare la via di salvezza? Quella che richiede di essere intrapresa per il bene del singolo e della collettività anche se non risparmia le difficoltà e non riceve una ricompensa esistenziale immediata?

La sofferenza stessa della vita, che l’uomo moderno cerca di allontanare e di eludere pateticamente, diventa sopportabile solo se sentita come parte di un disegno guidato comunque da una Provvidenza che sa e vede oltre quello che noi riusciamo a vedere e di cui ci possiamo dare ragione. Ma la Provvidenza è uscita ormai da tempo dal sentire e dal linguaggio comune e se ne è perduto il significato profondo per gli uomini che, non riconoscendone più il mistero, non trovano più neppure le risorse morali per portare il fardello della esistenza.

Eppure prendiamo atto di questa trovata surreale che ha già fatto la sua strada: dovendo disfarsi della Legge divina che le impedisce di abbracciare il mondo, la Chiesa si mette sotto il controllo di una legge e di un potere oscuri, che sono di per sé incontrollabili. Sposa la legge del mondo nella sua forma falsamente giuridica e falsamente morale dei Diritti Umani, che si legittimano per il fatto di chiamarsi umani e si impongono per l’aggettivo intimidatorio che li dice inviolabili. Come quello di uccidere il proprio figlio e di rinnegare in via anagrafica la propria maternità. Perché la loro “umanità” discende semplicemente dall’essere ciò che l’uomo via via immagina di poter pretendere. Eppure quell’aggettivo è suonato suggestivo e al suo fascino neppure un Wojtyla è riuscito a sottrarsi.

Quello delle dichiarazioni universali dei diritti umani è l’ultima spiaggia cui è approdata un’idea di legge naturale antitetica a quella cristiana di legge divina data all’uomo per la sua salvezza e iscritta, prima ancora che nel suo cuore, dove spesso fa fatica a d essere individuata, nel quadro della creazione, dove non può fare a meno di essere letta attraverso il racconto biblico e l’insegnamento di Cristo.

La legge naturale identificata con il plafond dei diritti umani è la negazione stessa dello orizzonte cattolico, sia sotto il profilo concettuale, sia per le conseguenze nefaste che l’allargarsi aberrante di essi produce ai danni della comunità umana, sia per il loro vizio di origine e per la trama di equivoci che si va aggravando col tempo attorno ad essi.

Il vizio di origine consiste nel fatto che sulla scia delle fluviali Dichiarazioni e Costituzioni che li hanno consacrati, i “diritti” sono andati a sostituire il “diritto”, oscurandone la funzione e stravolgendone il significato.

Diritto è ciò che l’uomo si dà per tutelare una esperienza e una sapienza acquisita a fatica, ma riconosciuta come un bene irrinunciabile da preservare e tramandare a vantaggio di tutti. E’ la sapienza acquistata da una collettività, non senza fatica, per regolare la propria vita comunitaria. Il diritto preserva un sistema di valori riconosciuti attraverso la composizione delle aspirazioni individuali, le pretese che vengono compensate dagli impegni assunti in cambio nei confronti degli altri, cioè attraverso la rete dei diritti e dei doveri. E a garantire la irrinunciabilità e sacralità di quei valori c’è la legge divina, scritta e sentita come garanzia superiore di giustizia.

Ma già i prototipi di tali Dichiarazioni, a cominciare da quella francese, hanno spostato tutto il peso sulle pretese quali realizzazioni della libertà eletta a bene e dono principale dell’uomo. Una libertà che non soffre limitazioni e restrizioni per non perdere il proprio significato di emancipazione da ogni finitezza e da ogni fatica. Per trovare una solida base di ancoraggio, i diritti, al pari di tutto il “diritto”, avrebbero dovuto guardare alla “natura umana” nello orizzonte di una società ricivilizzata dal Cristianesimo. Da una teologia che vede l’uomo come colui che riceve da Dio il proprio status e i doni di creatura eletta ma decaduta per l’atto di disobbedienza.

Ma una volta staccato il legame ideale con la paternità divina, l’uomo è figlio di se stesso e lo stato è la sua proiezione ipostatizzata: ora i diritti umani sono quelli che l’uomo si attribuisce attraverso le leggi dello Stato, attraverso le Costituzioni.

Quando poi anche lo Stato svapora in una entità sovranazionale, in un potere senza più volto e senza responsabilità, inafferrabile quanto invasivo, al quale non possiamo neppure ribellarci per l’impossibilità di identificare il bersaglio, diritto umano diventa un contenitore al quale questo potere senza volto concede l’accesso purché sia funzionale allo allargamento del proprio spazio di controllo universale. Ogni pretesa degli umani che il potere senza volto acconsente di inserire nella gora dei diritti diventa diritto umano, dove l’attributo non ha un contenuto di valore ma sta ad indicare soltanto il beneficiario umano immediato, anzi particolare.

Dalla aspirazione alla trascendenza ideale del diritto come qualificante i valori oggettivi riconosciuti dalla società umana, si è passati alla contabilizzazione di pretese contingenti funzionali agli egoismi particolari, ma anche a poteri sconosciuti.

Se la Chiesa si metterà al servizio di tutto questo, non avrà più nulla da dire e nessun motivo di esistere.

Dopo le proposizioni di fondo l’Instrumentum Laboris abbozza incidentalmente quelle indicazioni che sembrano più in sintonia con i risultati del questionario.

Si va dalla critica implicita alle comunità parrocchiali in cui si coglie il rifiuto per i divorziati e genitori single (omosex?), a quella per la Chiesa che esclude e non accompagna, mentre al n. 80 arriva la citazione diretta dell’E.G . in cui viene raccomandato di tenere aperta la casa del Padre “…con il rifiuto di una visione legalistica superata dalla misericordia che deve curare le ferite”. E dopo una rassegna dettagliata delle tante situazioni aberranti venutesi a creare, e delle loro conseguenze, si fa notare come molte Conferenze sottolineino la “necessità che la Chiesa eserciti una più ampia misericordia, compassione, clemenza ed indulgenza, più attenzione e separati e divorziati” (92) mentre gli omosessuali debbono essere accolti con rispetto, compassione delicatezza, mentre, non a caso, al n. 111 viene riferita la approvazione crescente per le leggi che regolarizzano le unioni omosessuali. Segue al n.118 l’auspicio di un giusto “equilibrio tra accoglienza misericordiosa e accompagnamento graduale verso una autentica maturità cristiana e umana”.

Che significato sia da attribuire alla raccomandazione di usare “delicatezza” verso gli omosessuali è difficile dire. Si tratta forse di una nuova virtù teologale ad hoc? Di certo non si accorda con la pretesa normalità, e connessa libertà, della propria condizione, che gli omosessuali brandiscono per estorcere a proprio favore da una società moralmente disarmata surreali benefici giuridici. E si accorda ancora meno con i tentativi ormai quasi riusciti delle loro potentissime lobby internazionali di impossessarsi della innocenza e della libertà e della vita di intere generazioni da sottrarre alle famiglie per avviarle al panomosessismo.

Infatti fra tanta misericordia non si dice nulla sulla minaccia che questi movimenti, organizzati capillarmente su scala internazionale, stanno traducendo nella imposizione dei devastanti programmi di educazione sessuale e di tutte le aberrazioni che la nuova cultura della libertà senza luce di ragione ha imposto inalberando proprio la bandiera dei “diritti umani”.

Al n. 138 arriva poi la quadratura del cerchio: di fronte a quelle realtà familiari che possono essere definite come irregolari (l’eufemismo è d’obbligo se viene meno il criterio per definirle come peccaminose), si raccomanda di non generare nei bambini e ragazzi coinvolti l’idea di una discriminazione dei loro genitori, nella consapevolezza che “irregolari sono le situazioni, non le persone”.. La spiegazione finale riassume un po’ tutte le distorsioni logiche e purtroppo anche teologiche che hanno eroso il pensiero cristiano, e che in questi atti magisteriali sfiorano il grottesco. La famosa invenzione roncalliana della separazione ontologica tra peccato e peccatore, escogitata come sappiamo per i brutali motivi di una avventata politica ecclesiastica, hanno fatto fortuna al punto di sedurre anche tanti ignari di strategie politiche. Le azioni si distinguono dai fatti, in quanto sono il frutto della coscienza e della volontà dell’uomo, che ne acquista così la paternità e anche la responsabilità. Tanto che sia l’inferno sia le patrie galere hanno sempre ospitato peccatori e rei, e non peccati e reati. Ora, se non si vuol più avere a che fare con i peccatori, bisogna abolire il peccato e prima ancora la legge. Ma se la legge viene abolita, nessun peccato può sopravvivere, neppure la corruzione, l’evasione fiscale, l’ingiustizia sociale o il tradizionalismo liturgico dei neopelagiani..

L’evangelizzazione di cui si parla con una frequenza inversamente proporzionale alla comprensione del suo significato reale non può consistere nell’adeguare l’annuncio alla realtà come si vorrebbe, come se la realtà avesse inglobata anche la propria sapienza, cosa che lo renderebbe del tutto inutile, ma deve porsi come ciò che guida le esistenze e le aiuta a tenere una direzione. È l’indicazione della via vera da percorrere, non il monitoraggio a scopo statistico di quella che viene percorsa.

Ecco invece che l’instrumentum laboris, mentre compie questo monitoraggio rilevando proprio quale sia la perdita dello orientamento nella comunità cristiana e mentre riconosce che sia venuta meno la solida mano della Chiesa, si propone quale rimedio un adeguamento del linguaggio “in modo da comunicare i valori del Vangelo in modo comprensibile all’uomo di oggi”. Ma va da sé che, se di un nuovo Vangelo della famiglia si deve trattare in virtù dell’afflato creativo dell’Evangelii Gaudium e della teologia Kasperiana, il nuovo linguaggio posto a “migliorare il quadro concettuale di riferimento” (sic!) altro non è se non un adeguamento della dottrina alla prassi, anzi una dimenticanza della dottrina tout court.

Non ci si propone di riavvicinare la prassi alla dottrina attraverso la pastorale, ma con una operazione inversa, creare una nuova dottrina dettata dalla prassi e agevolata dalla pastorale.

Ecco perché il Sinodo sulla famiglia minaccia di essere il trampolino di lancio non solo di una nuova pastorale, ma di una nuova teologia. Anzi di una nuova religione: quella elaborata nelle stanze delle ineffabili organizzazioni internazionali che, oltre a vegliare sul nostro benessere materiale, ci assicurano anche una luminosa vita spirituale omologata, su delega espressa della Chiesa Cattolica.

© RISCOSSA CRISTIANA

Cose da pazzi. Il cardinale Collins e il curato di campagna

cristianesimocattolico:

image

di Sandro Magister (29/06/2014)

Dopo Müller, Brandmüller, Caffarra e De Paolis, un altro cardinale è sceso in campo alla grande contro le tesi pro comunione ai divorziati risposati sostenute dal loro collega teologo Walter Kasper nel concistoro dello scorso febbraio.

È il canadese Thomas Collins, arcivescovo di Toronto, 66 anni, cardinale dal 2012 e stella emergente del sacro collegio, tra l’altro chiamato da papa Francesco a far parte della rinnovata commissione cardinalizia di sovrintendenza sullo IOR.

Il cardinale Collins è intervenuto sulla questione in un’ampia intervista a Brandon Vogt per il blog cattolico americano “The Word on Fire”, pubblicata il 25 giugno, vigilia della diffusione dell’Instrumentum laboris, cioè del testo base del prossimo sinodo sulla famiglia:

> Marriage, Divorce, and Communion

In un passaggio dell’intervista, Collins argomenta così l’impossibilità di dare la comunione ai divorziati risposati:

“I cattolici divorziati e risposati non possono ricevere la santa comunione dal momento che, quali che siano la loro disposizione personale o le ragioni della loro situazione, conosciute forse solo da Dio, essi persistono in una condotta di vita che è oggettivamente in contrasto con il chiaro comando di Gesù. Questo è il punto. Il punto non è che essi hanno commesso un peccato; la misericordia di Dio è abbondantemente assicurata a tutti i peccatori. L’omicidio, l’adulterio e altri peccati, non importa quanto gravi, sono perdonati da Gesù, specialmente attraverso il sacramento della riconciliazione, e il peccatore perdonato riceve la comunione. In materia di divorzio e di secondo matrimonio il problema sta nella consapevole decisione, per le ragioni più diverse, di persistere in una durevole situazione di lontananza dal comando di Gesù. Sebbene non sia giusto per loro ricevere i sacramenti, dobbiamo trovare migliori vie per aiutare le persone che si trovano in questa situazione, per offrire loro una cura amorevole.

“Un elemento di possibile aiuto sarebbe che tutti noi capissimo che non è obbligatorio ricevere la comunione quando si va a messa. Sono molti i motivi per i quali un cristiano può decidere di non ricevere al comunione. Se ci fosse minore pressione perché ciascuno riceva la comunione, ciò sarebbe d’aiuto per coloro che non sono in condizione di farlo”.

E ancora:

“Dobbiamo riflettere su che cosa possiamo fare per aiutare le persone che si trovano in questa situazione, in forme amorevoli ed efficaci. Ma facendo questo, dobbiamo anche essere fedeli al comando di Gesù e alla necessità di non mettere a rischio al santità del matrimonio, con le più gravi conseguenze per tutti, specialmente in un mondo in cui la stabilità del matrimonio è già tragicamente compromessa. Se noi dessimo prova con i fatti, se non con le parole, che il patto matrimoniale non è effettivamente quello che Gesù dice che è, ciò offrirebbe un sollievo solo momentaneo, al prezzo di una sofferenza di lunga durata. Se la santità del patto matrimoniale fosse progressivamente indebolita, alla fine sarebbero i figli a soffrire di più”.

Ma nell’intervista Collins dice molto più di quanto qui riportato. Verso la fine egli fa anche un parallelo tra le aspettative di cambiamento che precedettero la “Humanae vitae” di Paolo VI e quelle – a suo giudizio altrettanto infondate – che precedono il prossimo sinodo:

“Negli anni che precedettero l’enciclica di papa Paolo VI che ha riaffermato il costante insegnamento cristiano che la contraccezione non è in accordo con la volontà di Dio, c’era la diffusa aspettativa che la Chiesa stesse per cambiare il suo insegnamento. Questo tipo di aspettativa era basata per una certa parte sull’idea che la dottrina cristiana è come la politica di un governo: quando le circostanze cambiano, o quando più gente sostiene un’alternativa invece di un’altra, allora la politica cambia.

“Ma l’insegnamento cristiano è fondato sulla legge naturale che è scritta nei nostri cuori da Dio, e specialmente sulla parola rivelata di Dio. Noi scopriamo la volontà di Dio, e le Scritture e la fede vivente della Chiesa ci aiutano a fare ciò. Noi non modelliamo la volontà di Dio secondo ciò che attualmente ci pare meglio.

“Così, quando papa Paolo VI non cambiò ciò che non era nei suoi poteri cambiare, ma riaffermò la fede cristiana, molta, molta gente fu contrariata, e semplicemente decise di ignorare l’insegnamento. Questa è la nostra situazione presente. Io spero davvero che non abbiamo a soffrire una ripetizione di questo, mentre si diffondono infondate aspettative riguardo a un cambiamento da parte della Chiesa dell’esplicito insegnamento di Gesù sul matrimonio”.

Una curiosità. Come s’è visto sopra, anche il cardinale Collins, per spiegare l’impossibilità di dare la comunione ai divorziati risposati, fa il paragone tra la loro situazione di perdurante e consapevole “lontananza dal comando di Gesù” e quella di un colpevole di altro peccato anche gravissimo come l’omicidio, che però, pentito, può essere assolto e riammesso alla comunione.

La curiosità è che questo stesso paragone, fatto negli stessi giorni dal parroco di Cameri nella diocesi di Novara, don Tarcisio Vicario, ha invece esposto costui al pubblico ludibrio da parte del cardinale Lorenzo Baldisseri, segretario generale del sinodo, che il 26 giugno ha definito le parole del sacerdote come “una pazzia, un’opinione strettamente personale di un parroco che non rappresenta nessuno, neanche se stesso”.

Il giorno precedente anche il vescovo di Novara, Franco Giulio Brambilla, s’era sentito in dovere di “una netta presa di distanza sia dai toni che dai contenuti del testo” di quel suo parroco, a motivo della “inaccettabile equiparazione, pur introdotta come esempio, tra convivenze irregolari e omicidio. L’esemplificazione, anche se scritta tra parentesi, risulta inopportuna e fuorviante, e quindi errata”.

Per la precisione, ecco le parole testuali del malcapitato curato: “Per la Chiesa, che agisce in nome del Figlio di Dio, il matrimonio tra battezzati è solo e sempre un sacramento. Il matrimonio civile e la convivenza non sono un sacramento. Pertanto chi si pone al di fuori del sacramento contraendo il matrimonio civile vive una infedeltà continuativa. Non si tratta di un peccato occasionale (per esempio un omicidio), né di una infedeltà per leggerezza o per abitudine che la coscienza richiama comunque al dovere di emendarsi attraverso un pentimento sincero e il proposito vero e fermo di allontanarsi dal peccato e dalle occasioni che conducono ad esso”.

Il cardinale Collins non ha detto niente di diverso. Una “pazzia” anche la sua?

© SETTIMO CIELO

Kasper “corregge” Ratzinger. Martinetti ricorregge Kasper

di Sandro Magister (23/05/2014)

Riguardo alla comunione ai divorziati risposati, il precedente post finiva citando ciò che Benedetto XVI aveva detto in proposito, a Milano, il 2 giugno 2012, durante l’incontro mondiale delle famiglie.

Papa Joseph Ratzinger metteva lì in luce il valore, per i divorziati risposati, di una comunione non sacramentale ma “spirituale”. Cioè una comunione che si identifica con quella che il missionario Carlo Buzzi – intervenendo su www.chiesa – ha chiamato “di desiderio”.

Anche il cardinale Walter Kasper, nell’introdurre il concistoro dello scorso febbraio, citò le parole di Benedetto XVI del 2012 a Milano, secondo cui “i divorziati risposati non possono ricevere la comunione sacramentale ma possono ricevere quella spirituale”.

Ma poi Kasper così proseguì: “Molti saranno grati per questa apertura. Essa solleva però diverse domande. Infatti, chi riceve la comunione spirituale è una cosa sola con Gesù Cristo. […] Perché, quindi, non può ricevere anche la comunione sacramentale? […] Alcuni sostengono che proprio la non partecipazione alla comunione è un segno della sacralità del sacramento. La domanda che si pone in risposta è: non è forse una strumentalizzazione della persona che soffre e chiede aiuto se ne facciamo un segno e un avvertimento per gli altri? La lasciamo sacramentalmente morire di fame perché altri vivano?”.

La relazione di Kasper è stata contestata da numerosi cardinali, sia durante il concistoro che dopo. Ma questa sua equiparazione tra comunione spirituale e sacramentale è stata poco toccata dalle critiche, che si sono concentrate su altri punti della relazione.

Ma è proprio questa equiparazione che viene qui criticata come “fallace” da Alessandro Martinetti, con un “Post Scriptum” alle osservazioni da lui dedicate all’intervento di padre Carlo Buzzi, nel precedente post.

Scrive Martinetti: “Nel dibattito che si è acceso sulla comunione ai divorziati risposati, mi sembra che non si sia posta abbastanza in risalto la differenza che corre tra comunione eucaristica e comunione spirituale. Occorre badare a non favorire che prenda piede nella coscienza del fedele la convinzione fallace secondo cui la comunione sacramentale dell’eucaristia e la comunione spirituale siano sostanzialmente la stessa cosa.

“La convinzione della sostanziale identità tra comunione eucaristica e comunione spirituale condurrebbe infatti il fedele ad assuefarsi alla condizione di peccato grave abituale che gli impedisce la ricezione della comunione eucaristica, mettendo a repentaglio la salvezza della sua anima.

“Da una catechesi e da una pastorale che non siano limpide al riguardo il fedele potrebbe essere infatti indotto ad avvalorare il ragionamento seguente: la comunione spirituale produce i medesimi effetti della comunione eucaristica, non c’è differenza tra l’una e l’altra nel grado di unione a Cristo che realizzano, quindi il peccato grave che mi impedisce di ricevere la comunione eucaristica non è tale da interdirmi la medesima unione con Cristo che conseguirei con la recezione dell’Eucaristia. Conclusione: questo peccato grave (se ha ancora senso chiamarlo tale) non produce effetti così gravi da giustificare che io mi adoperi per emendarmene.

“Non mi pare inutile pertanto rimarcare che la comunione spirituale con Cristo da parte di chi, versando in situazione di peccato grave abituale, non può accostarsi alla comunione eucaristica, è dono largito dall’amore misericordioso di Cristo, che non vuole la morte del peccatore, ma incessantemente opera perché si converta e giunga a una perfetta comunione con Lui.

“La comunione spirituale deve pertanto essere vissuta (e i pastori debbono curare che sia intesa e praticata correttamente così) non come esauriente surrogato della comunione eucaristica ma come dono con il quale Cristo si unisce spiritualmente al fedele per infiammarlo di sempre più fervente desiderio di unirsi perfettamente a Lui, purificandosi dal peccato per poter accedere all’assoluzione sacramentale e alla comunione eucaristica. In questo senso, non è quindi improprio, anzi, chiamare questa comunione spirituale ‘comunione di desiderio’.

“Non per nulla, una delle preghiere più adoperate per la comunione spirituale suona così: ‘Gesù mio […] ora non posso riceverti sacramentalmente, vieni almeno spiritualmente nel mio cuore’.

“Da qui traspare che la venuta spirituale di Gesù si attua in un cuore che arde del desiderio trascinante, dell’incontenibile urgenza di ricevere Cristo non solo spiritualmente ma sacramentalmente”.

© SETTIMO CIELO

Comunione “di desiderio”. Martinetti obietta, Ratzinger risponde

image

di Sandro Magister (22/05/2014)

Letto in www.chiesa il secondo, folgorante intervento di padre Carlo Buzzi, missionario in Bangladesh, sulla questione della comunione ai divorziati risposati, Alessandro Martinetti ci scrive di concordare “con molte delle affermazioni fatte dal padre”, ma obietta che la comunione eucaristica “di desiderio” – proposta per loro da padre Buzzi – non è propriamente un sacramento.

A essere precisi, nemmeno padre Buzzi lo afferma in modo tassativo. Pone piuttosto questa domanda:

“Perché la comunione di desiderio non potrebbe essere considerata una vera comunione sacramentale, come il battesimo di desiderio e la confessione di desiderio in punto di morte?”.

Da come la domanda è costruita, si ricava che per padre Buzzi il battesimo di desiderio è comunque un vero sacramento.

Ma è proprio questa pietra d’appoggio che Martinetti contesta, sulla base del Catechismo della Chiesa cattolica ai nn. 1258-1259:

”Da sempre la Chiesa è fermamente convinta che quanti subiscono la morte a motivo della fede, senza aver ricevuto il battesimo, vengono battezzati mediante la loro stessa morte per Cristo e con lui. Questo battesimo di sangue, come pure il desiderio del battesimo, porta i frutti del battesimo, anche senza essere sacramento.

“Per i catecumeni che muoiono prima del battesimo, il loro desiderio esplicito di riceverlo, unito al pentimento dei propri peccati e alla carità, assicura loro la salvezza che non hanno potuto ricevere mediante il sacramento”.

Su questo passaggio del Catechismo Martinetti appoggia queste sue considerazioni:

“Come si vede, il battesimo del desiderio, anche senza essere sacramento, porta i frutti del battesimo sacramentale in quanto chi lo riceve non solo ha desiderio di ricevere il sacramento del battesimo, ma è pentito del proprio peccato.

“Ed è appunto il pentimento del proprio peccato che manca nel divorziato risposato convivente more uxorio con chi suo coniuge non è davanti a Dio. È questo difetto di pentimento che non lo pone in condizione di ricevere l’assoluzione sacramentale e la comunione sacramentale cioè eucaristica”.

Martinetti cita ampiamente la dichiarazione del 7 luglio 2000 del pontificio consiglio per i testi legislativi “Circa l’ammissibilità alla santa comunione dei divorziati risposati”.

E conclude:

“Se, come ipotizza padre Buzzi, esistesse una ‘vera comunione sacramentale’, quella del desiderio, che potesse essere ricevuta da chi, essendo in situazione di peccato grave, non può accostarsi alla comunione sacramentale eucaristica, insorgerebbe un conflitto tra i sacramenti: conflitto che ovviamente non può esserci, giacché tutti i sacramenti si radicano in Cristo, e Cristo non può essere in contraddizione con sé stesso”.

Martinetti, di Ghemme in provincia di Novara, è discepolo del filosofo Gustavo Bontadini e studioso di metafisica e teologia.

Va osservato però che il cuore della proposta di padre Buzzi non sta tanto nell’affermare che la comunione di desiderio sia un sacramento nella pienezza dogmatica del termine, quanto piuttosto nel valorizzare grandemente “il desiderio della comunione” eucaristica in “chi non è in stato di grazia e vorrebbe uscire da questo stato, ma per vari motivi non può”.

A questo proposito, è illuminante rileggere ciò che Benedetto XVI rispose a due coniugi brasiliani che gli parlarono del dolore di “quelle coppie di risposati che vorrebbero riavvicinarsi alla Chiesa ma si vedono rifiutare i sacramenti”, il 2 giugno 2012 a Milano, durante la veglia dell’incontro mondiale delle famiglie:

“In realtà, questo problema dei divorziati risposati è una delle grandi sofferenze della Chiesa di oggi. […] Mi sembra un grande compito fare realmente il possibile perché queste persone sentano di essere amate, accettate, che non sono ‘fuori’ anche se non possono ricevere l’assoluzione e l’eucaristia: devono vedere che anche così vivono pienamente nella Chiesa. Se non è possibile l’assoluzione nella confessione, tuttavia un contatto permanente con un sacerdote, con una guida dell’anima, è molto importante perché possano vedere che sono accompagnati, guidati. Ma poi è anche molto importante che sentano che l’eucaristia è vera e partecipata se realmente entrano in comunione con il corpo di Cristo. Anche senza la ricezione ‘corporale’ del sacramento, possiamo essere spiritualmente uniti a Cristo nel suo corpo”.

In queste parole di papa Joseph Ratzinger la formula “comunione di desiderio” non c’è. Ma la sostanza c’è tutta. “Anche senza la ricezione ‘corporale’ del sacramento possiamo essere spiritualmente uniti a Cristo nel suo corpo”. Anche se la comunione di desiderio non è sacramento, è pur sempre comunione “vera”, “partecipata”, “reale” con il corpo di Cristo.

© SETTIMO CIELO