Distogliere il discernimento cristiano dalla guerra come tale, sottrarsi con un no all’esame attento di un evento che andrà molto oltre i mali e le sofferenze dell’oggi, non è solo un errore. È fuggire una responsabilità.
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Assoluti morali: esce l’adulterio, entra la pena di morte
Il cambio magisteriale fa rientrare la pena di morte nel novero dei mala in se, azioni intrinsecamente malvagie che non tollerano eccezioni. Curiosamente a seguito delle indicazioni dell’Amoris laetitia l’adulterio non è più un assoluto morale, perché in alcune condizioni l’adulterio pare essere lecito e dunque esce dalla categoria dei mala in se. Dunque l’adultero e l’assassino sono sempre vittime dei loro atti liberi, mai colpevoli perché a loro nulla può essere imputato. Ergo l’adultero può accedere alla Comunione e il reo non deve essere punito. Se sparisce la colpa deve sparire anche la giustizia. C’è solo misericordia.
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Nuovo appello di P. Weinandy a papa Francesco: con questa falsa misericordia si distrugge la Chiesa
Di padre Thomas G. Weinandy tutti ricordano la lettera aperta che inviò a papa Francesco la scorsa estate, da lui resa di dominio pubblico il 1 novembre 2017. Oggi, 24 febbraio 2018, egli torna alla carica con la conferenza che ha tenuto questa mattina a Sydney: In essa descrive e denuncia l’attentato, di gravità senza precedenti, che talune teorie e pratiche “pastorali” incoraggiate da papa Francesco stanno compiendo contro la Chiesa “una, santa, cattolica e apostolica” e in particolare contro l’Eucaristia che è “culmine e fonte” della vita della Chiesa stessa.
Tanti saluti al peccato. Sempre la stessa omelia
Un’omelia standard ricorre ogni domenica: Dio ti ama così come sei. Ma è proprio così?
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Gli sproloqui di “Cantalutero”
Lutero, Cantalamessa, e la “resurrezione” dal modernismo.
L’Eucarestia ai conviventi? La Chiesa ha aperto una porticina. Ma il papa non converte i zelanti.
Ci sono buone famiglie cristiane anche al di fuori del matrimonio. E “l’Eucaristia non è un premio destinato a chi è perfetto”. L’abbraccio evangelizzante di Francesco e le paure di una capitolazione sulle nozze gay.
MATTEO MATZUZZI
Quella “misericordia” che ostacola l’amore di Dio
Al Sinodo sta emergendo la chiara tendenza a un approccio pastorale che tende a negare l’esistenza del male, con il pretesto di non creare un ostacolo a persone che vivono situazioni difficili. Ma così facendo si sostituisce la nostra povera “misericordia” pastorale alla Misericordia di Dio che ci raggiunge nel sacramento della confessione.
di Stefano Fontana
In precedenti interventi sul tema del Sinodo sulla Famiglia ho indicato nel rapporto tra pastorale e dottrina il tema veramente centrale della importante convocazione episcopale. Può accadere che la pastorale guidi e modifichi la dottrina, pur tutti dicendo che la dottrina è chiara e non si tocca. Vorrei tentare di spiegare questo punto in parole semplici.
Chi tiene gli incontri di preparazione al matrimonio si trova spesso davanti a coppie conviventi da anni e magari con figli. Questi operatori pastorali pensano così: se noi andiamo a dire a queste coppie che la loro situazione è di peccato esse non si disporranno ad ascoltare l’annuncio del matrimonio cristiano, ostacolate da questa condanna. Bisogna, invece, partire dal bene che in essi c’è per poi farlo evolvere e lievitare. Di conseguenza si deve dire che anche le situazioni della coppia di fatto convivente, dell’esercizio della sessualità fuori del matrimonio, della nascita di figli fuori del matrimonio sono un bene.
Questo approccio è di tipo pastorale, mira cioè a stabilire un contatto costruttivo con l’altro, ma diventa subito dottrinale. Infatti presuppone la dottrina secondo cui non c’è il male o l’errore, ma ci sono solo gradi diversi di bene e di verità. Anche le coppie di fatto, allora, contengono elementi di bene e di verità. Da questo punto di vista si dovrebbe dire che anche in una coppia omosessuale convivente ci sono elementi di santificazione e di verità, come per esempio l’affetto reciproco e la cura dell’altro. Anche nella masturbazione ci sarebbe qualcosa di positivo, come la conoscenza del proprio corpo. Perché non vedere qualcosa di positivo anche nell’incesto, per esempio? Tutte queste situazioni non sarebbero più “sbagliate” ma solo “inadeguate”. Non andrebbero quindi condannate con giudizi di valore, ma apprezzate per quello che sono e fatte evolvere verso il meglio. Dal punto di vista sociale, poi, si potrebbe dire che contribuiscano al bene comune e, quindi, venire riconosciute pubblicamente per legge.
È come taluni ragionano a scuola: se tu dici al ragazzino che prende 2 in latino che è da 2 in latino, cioè che non conosce il latino, egli si demoralizza e non studia più. Bisogna allora partire dal positivo: 2 in latino non sarà la conoscenza piena del latino, ma ha comunque una positività, al suo livello è comunque una conoscenza del latino.
Però, quando si applica questa dottrina alla morale e alla vita spirituale si vede che non funziona. La morale ci dice, per esempio, che ci sono azioni sempre sbagliate, ossia che rappresentano un male assoluto, senza ombra di bene, e che per questo non devono essere mai compiute. L’adulterio, per esempio, oppure i rapporti sessuali contro natura appartengono a questo genere. La vita spirituale sperimenta il peccato, che è morte per l’anima. Quando l’anima cade nel peccato mortale non cade in un bene minore, in una forma inadeguata di bene, ma nella propria gelida morte. La dottrina cattolica ha sempre insegnato l’orrore per il peccato e ha sempre invitato ad insegnarlo a nostra volta. Nessun mistico cristiano ha considerato il peccato un bene minore. Essere in peccato e persistere in situazione di peccato non vuol dire essersi fermati ad un gradino inferiore nella scala del bene. Vuol dire, invece, aver deciso di rimanere nel male, nella morte dell’anima, nel buio.
Se una coppia, per esigenze pastorali, non viene informata del fatto che si trova in situazione di peccato, perché mai dovrebbe confessarsi? La nostra povera misericordia pastorale non deve impedire la misericordia di Dio che ci raggiunge nel sacramento della confessione. E se la coppia non si confessa, accede all’Eucaristia in peccato? La nostra presunta misericordia pastorale non può essere di impedimento alla misericordia di Dio che diventa cibo per abbracciarci nella sua stessa vita.
Come si vede, la preoccupazione pastorale di non cominciare col dire al ragazzo che non sa il latino, poi diventa serio impedimento affinché egli possa veramente imparare il latino. Se non sa di non sapere come farà ad imparare? Se la dottrina non deve essere annunciata per non spaventare o inibire le persone, ma deve essere detta “dopo”, quando le persone saranno pastoralmente condotte alla pienezza dell’annuncio, questo stesso percorso di risanamento, di conversione e di santificazione sacramentale sarà reso molto difficile e perfino impedito. Esso, infatti, non è il frutto dei nostri interventi pastorali, ma della Grazia di Dio.
© La Nuova Bussola Quotidiana (9 ottobre 2014)
Pasticcio Kasper
di Roberto de Mattei
Il prossimo Sinodo dei Vescovi è preceduto da un frastuono mediatico che gli attribuisce un significato storico superiore alla sua portata ecclesiologica di mera assemblea consultiva della Chiesa. Qualcuno si lamenta per la guerra teologica che il Sinodo annuncia, ma la storia di tutte le adunanze episcopali della Chiesa (tale è il significato etimologico del termine sinodo e del suo sinonimo concilio) è fatta di conflitti teologici e di aspri dibattiti sugli errori e sulle scissioni che hanno minacciato la comunità cristiana fin dal suo sorgere.
Oggi il tema della comunione ai divorziati è solo il vettore di una discussione che verte su concetti dottrinali più complessi, come quello di natura umana e di legge naturale. Questo dibattito sembra tradurre, sul piano antropologico, le speculazioni trinitarie e cristologiche che scossero la Chiesa dal Concilio di Nicea (325) a quello di Calcedonia (451).
Allora si discusse per determinare la natura della Santissima Trinità, che è un unico Dio in tre Persone, e per definire in Gesù Cristo la Persona del Verbo, che sussiste in due nature, la divina e la umana. L’adozione, da parte del Concilio di Nicea, del termine greco homoousios, che in latino fu tradotto con consubstantialis e, dopo il Concilio di Calcedonia, con le parole “della stessa natura” della sostanza divina, per affermare la perfetta uguaglianza del Verbo e del Padre, segna una data memorabile nella storia del cristianesimo e conclude un’epoca di smarrimento, di confusione, di dramma di coscienze analoga a quella in cui siamo immersi.
In quegli anni la Chiesa era divisa tra la “destra” di sant’Atanasio e la “sinistra” dei seguaci di Ario (la definizione è dello storico dei concili Karl Joseph von Hefele). Tra i due poli ondeggiava il terzo partito dei semi-ariani, divisi a loro volte in varie fazioni. All’homoousios niceno, che vuol dire “della stessa sostanza”, venne contrapposto il termine homoiousios, che significa “di sostanza simile”. Non si trattava di una questione di lana caprina. La differenza tra queste due parole, in apparenza infima, cela un abisso: da una parte l’identità con Dio, dall’altra una certa analogia o rassomiglianza, che fa di Gesù Cristo un semplice uomo.
La migliore ricostruzione storica di questo periodo resta quella del cardinale John Henry Newman ne Gli ariani del IV secolo (tr. It. Jaca Book, Milano, 1981), un approfondito studio che mette in luce le responsabilità del clero e il coraggio del “popolino” nel mantenere la fede ortodossa. Il diacono Atanasio, campione dell’ortodossia, eletto vescovo, fu costretto per ben cinque volte ad abbandonare la sua diocesi per percorrere la via dell’esilio.
Nel 357 papa Liberio lo scomunicò e due anni dopo i concili di Rimini e di Seleucia, che costituivano una sorta di grande concilio ecumenico rappresentante l’Occidente e l’Oriente, abbandonarono il termine “consustanziale” di Nicea e stabilirono una equivoca via media, tra sant’Atanasio e gli ariani . Fu allora che san Girolamo coniò l’espressione secondo cui “il mondo gemette e si accorse con stupore di essere diventato ariano”.
Atanasio e i difensori della fede ortodossa vennero accusati di impuntarsi sulle parole e di essere litigiosi e intolleranti. Le stesse accuse vengono oggi rivolte verso chi, dentro e fuori l’aula sinodale, vuole levare una voce di intransigente fermezza nel difendere la dottrina della Chiesa sul matrimonio cristiano, come i cinque cardinali (Burke, Brandmüller, Caffarra, De Paolis e Müller), che, dopo essersi espressi singolarmente, hanno riunito i loro interventi in difesa della famiglia in un libro che è ormai diventato un manifesto, Permanere nella verità di Cristo: Matrimonio e Comunione nella Chiesa cattolica, appena dato alle stampe dalle edizioni Cantagalli di Siena. Allo stesso Cantagalli si deve la pubblicazione di un altro testo fondamentale, Divorziati “risposati”. La prassi della Chiesa primitive del gesuita Henri Couzel.
I commentatori del Corriere della Sera e de la Repubblica si sono stracciati le vesti per la “rissa teologica” in corso. Lo stesso Papa Francesco, il 18 settembre, ha raccomandato ai vescovi di nuova nomina di “non sprecare energie per contrapporsi e scontrarsi”, dimenticando di essersi assunto personalmente la responsabilità dello scontro, nel momento in cui ha voluto affidare al cardinale Walter Kasper il compito di aprire le danze sinodali.
Come ha notato Sandro Magister, è stato proprio il cardinal Kasper, con la sua relazione del 20 febbraio 2014, resa nota da Il Foglio, ad aprire le ostilità e ad innescare il dibattito dottrinale, divenendo così, al di là delle sue intenzioni, il portabandiera di un partito. La formula più volte ribadita dal cardinale tedesco, secondo cui ciò che deve mutare non è la dottrina sull’indissolubilità matrimoniale, ma la pastorale verso i divorziati risposati, ha in sé una portata dirompente, ed è l’espressione di una concezione teologica inquinata nelle sue fondamenta.
Per comprendere il pensiero di Kasper bisogna risalire a una delle sue prime opere, e forse la principale, L’assoluto nella storia nell’ultima filosofia di Schelling, pubblicata nel 1965 e tradotta da Jaca Book nel 1986. Walter Kasper appartiene infatti a quella scuola di Tubinga che, come egli scrive in questo studio, “ha avviato un rinnovamento della teologia e dell’intero cattolicesimo tedesco nell’incontro con Schelling ed Hegel” (p. 53). La metafisica è quella di Friedrich Schelling (1775-1854), “gigante solitario” (p. 90), dal cui carattere gnostico e panteista il teologo tedesco tenta invano di liberarsi.
Nella sua ultima opera, Philosophie der Offenbarung (Filosofia della rivelazione), del 1854, Schelling contrappone al cristianesimo dogmatico quello della storia. “Schelling – commenta Kasper – non concepisce in modo statico, metafisico e sovratemporale il rapporto tra naturale e soprannaturale, bensì in modo dinamico e storico. L’essenziale della rivelazione Cristiana è proprio questo, che essa è storia” (p. 206).
Anche per Kasper il cristianesimo, prima di essere dottrina è storia, o “prassi”. Nella sua opera più nota, Gesù il Cristo (Queriniana, Brescia 1974), egli sviluppa una cristologia in chiave storica che dipende dalla Filosofia della rivelazione dell’idealista tedesco. La concezione trinitaria di Schelling è quella degli eretici sabelliani e modalisti, precursori dell’arianesimo. Le tre Persone divine sono ridotte a tre “modi di sussistenza” di un’unica persona-natura (modalismo), mentre l’essenza della Trinità si risolve nel suo manifestarsi al mondo. Cristo non è intermediario tra Dio e l’uomo, ma la realizzazione storica della divinità nel processo trinitario.
Coerente con la cristologia è l’ecclesiologia di Kasper. La Chiesa è innanzitutto “pneuma”, “sacramento dello Spirito”, definizione che, per il cardinal tedesco, “corregge” quella giuridica di Pio XII nella Mystici Corporis (La Chiesa luogo dello spirito, Queriniana, Brescia 1980, p. 91). Il campo di azione dello Spirito Santo non coincide infatti, come vuole la Tradizione, con quello della Chiesa cattolica romana, ma si estende ad una più vasta realtà ecumenica, la “Chiesa di Cristo” di cui la Chiesa cattolica è parte.
Per Kasper il Decreto del Vaticano II sull’ecumenismo spinge a riconoscere che l’unica Chiesa di Cristo non si limita a quella cattolica, ma è divisa in chiese e comunità ecclesiali separate (ivi, p. 94). La Chiesa cattolica è “dove non c’è alcun vangelo selettivo”, ma tutto si dilata in maniera inclusiva, nel tempo e nello spazio (Chiesa cattolica- Essenza, realtà, missione, Queriniana, Brescia 2012, p. 289). La missione della Chiesa è di “uscire da sé stessa” per riacquistare una dimensione che la renda veramente universale. Eugenio Scalfari, che si atteggia a terzo papa, dopo quello emerito e quello regnante, pur ignaro di teologia, attribuisce la medesima concezione a papa Francesco, affermando che per lui la Chiesa missionaria è quella che “deve uscire da sé e andare nel mondo”, realizzando il cristianesimo nella storia (La Repubblica, 21 settembre 2014).
Queste tesi si riflettono nella teologia morale di Kasper, secondo cui l’esperienza dell’incontro con Cristo dissolve la legge, o meglio la legge è un impaccio di cui l’uomo deve liberarsi per incontrare la misericordia di Cristo. Schelling nella sua filosofia panteista assorbe in Dio il male. Kasper assorbe il male nel mistero della Croce, in cui vede la negazione della metafisica tradizionale e della legge naturale che ad essa consegue. “Il passaggio dalla filosofia negativa alla filosofia positiva è per Schelling nello stesso tempo passaggio dalla legge al vangelo” (L’assoluto nella storia, p. 178), scrive il cardinale tedesco, che vede a sua volta il passaggio dalla legge al vangelo nel primato della prassi pastorale sull’astratta dottrina.
Sotto quest’aspetto, la dottrina morale del cardinal Kasper è, almeno implicitamente, antinomista. L’antinomismo è un termine coniato da Lutero contro un suo oppositore di sinistra, Johann Agricola (1494-1566), ma risale alle eresie antiche e medioevali per indicare il rifiuto dell’Antico Testamento e della sua legge, sentito come mera costrizione e vincolo, in antitesi al Nuovo Testamento, cioè alla nuova economia della Grazia e della libertà. Più generalmente si intende come antinomismo il rifiuto della legge naturale e morale che ha la sua radice nel rifiuto dell’idea di natura. Per gli antinomisti cristiani non c’è legge perché non c’è una oggettiva d universale natura umana. La conseguenza è l’evaporazione del senso del peccato, la negazione degli assoluti morali, la Rivoluzione sessuale all’interno della Chiesa.
Si comprende in questa prospettiva come il cardinal Kasper nel suo recente libro apparso in tedesco nel 2012 e poi tradotto in italiano per i tipi della Queriniana nel 2013, Misericordia. Concetto fondamentale del vangelo – Chiave della vita, si proponga di rompere il tradizionale equilibrio tra giustizia e misericordia, facendo di quest’ultima, contro la tradizione, l’attributo principale di Dio. Ma, come ha osservato padre Serafino Lanzetta in un’eccellente analisi del suo volume, pubblicata da www.chiesa, “la misericordia perfeziona e compie la giustizia ma non l’annulla; la presuppone, altrimenti non avrebbe in sé ragion d’essere”. La scomparsa della giustizia e della legge rende incomprensibile il concetto di peccato e il mistero del male, a meno di non reintegrarli in una prospettiva teosofica e gnostica.
Ritroviamo quest’errore nel postulato luterano della “sola misericordia”. Abolita la mediazione della ragione e della natura, per Lutero l’unica via per risalire a Dio è la “fede fiduciale”, che ha il suo preambolo non nella ragione metafisica, da cui deve essere totalmente svincolata, ma in un sentimento di disperazione profonda, che ha a sua volta il proprio oggetto nella “misericordia” di Dio, invece che nelle verità da Lui rivelate.
Questo principio, come ha dimostrato Silvana Seidel Menchi in Erasmo in Italia 1520-1580 (Bollati Boringhieri, Torino 1987), si sviluppa nella letteratura ereticale del sedicesimo secolo grazie anche all’influenza del trattato di Erasmo, De immensa Dei misericordia (1524), che spalancava agli “uomini di buona volontà” le porte del cielo (ivi, pp. 143-167). Nelle sétte di derivazione erasmiana e luterana che costituiscono l’estrema sinistra della riforma protestante riaffiorano inoltre gli errori antitrinitari del IV secolo: arianesimo, modalismo, sabellianesimo, fondati sul rifiuto o sul travisamento dell’idea di natura.
L’unico percorso penitenziale possibile per conoscere l’abbraccio della Misericordia divina è il rifiuto del peccato in cui siamo immersi e il riconoscimento di una legge divina da osservare e da amare. Questa legge è radicata nella natura umana ed è incisa nel cuore di ogni uomo “dal dito stesso del Creatore” (Rm 2, 14-15). Essa costituisce il criterio di giudizio supremo di ogni azione e delle vicende umane nel loro complesso, ovvero della storia.
Il termine natura non è astratto. La natura umana è l’essenza dell’uomo, ciò che egli è prima di essere una persona. L’uomo è una persona, titolare di diritti inalienabili, perché ha un’anima. E ha un’anima perché, a differenza di qualsiasi altro vivente, ha una natura razionale. Naturale non è ciò che nasce dagli istinti e dai desideri dell’uomo, ma ciò che corrisponde alle regole della ragione, che deve a suo volta conformarsi a un ordine oggettivo e immutabile di princìpi. La legge naturale è una legge razionale e immutabile, perché immutabile, in quanto spirituale, è la natura dell’uomo. Tutti gli individui della stessa natura agiranno o dovranno agire nella stessa maniera, perché la legge naturale è iscritta nella natura non di questo o quell’uomo, ma nella natura umana considerata in sé stessa, nella sua permanenza e nella sua stabilità.
Il cardinale Kasper non crede nell’esistenza di una legge naturale universale e assoluta e nell’Instrumentum laboris, il documento ufficiale del Vaticano che prepara il Sinodo di Ottobre, questo ripudio della legge naturale traspare con evidenza, anche se presentato in chiave sociologica, più che teologica. “Il concetto di ‘legge naturale’ risulta essere come tale oggi nei diversi contesti culturali, assai problematico, se non addirittura incomprensibile” (n. 21) – si dice – anche perché “oggi, non solo in Occidente, ma progressivamente in ogni parte della terra, la ricerca scientifica rappresenta una seria sfida al concetto di natura. L’evoluzione, la biologia e le neuroscienze, confrontandosi con l’idea tradizionale di legge naturale, giungono a concludere che essa non è da considerarsi ‘scientifica’” (n. 22).
Alla legge naturale viene contrapposto, secondo il programma kasperiano, lo spirito del Vangelo, di cui occorre comunicare i valori “in modo comprensibile all’uomo di oggi”. Si rende perciò necessario “dare un’enfasi decisamente maggiore al ruolo della Parola di Dio quale strumento privilegiato nella concezione della vita coniugale e familiare. Si raccomanda maggiore riferimento al mondo biblico, ai suoi linguaggi e forme narrative. In tal senso, degna di rilievo è la proposta di tematizzare e approfondire il concetto, di ispirazione biblica, di “ordine della creazione”, come possibilità di rileggere in modo esistenzialmente più significativo la “legge naturale” (…) Si raccomanda anche l’attenzione al mondo giovanile da assumere come interlocutore diretto, anche su questi temi” (n. 30).
Le inevitabili conseguenze di questa nuova concezione della morale, di cui dovranno discutere i padri sinodali, sono tratte da Vito Mancuso, su La Repubblica del 18 settembre. La legge naturale “è un peso troppo gravoso da portare”; occorre perciò puntare a “un profondo percorso di rinnovamento in materia di etica sessuale” che dovrebbe portare alle “seguenti necessarie aperture: sì alla contraccezione; sì ai rapporti prematrimoniali; sì al riconoscimento delle coppie omosessuali”.
Di fronte a questo catastrofico itinerario verso l’immoralismo, come meravigliarsi che cinque cardinali abbiano pubblicato un libro in difesa della morale tradizionale e che altri cardinali, vescovi e teologi, si siano associati a questa posizione? Contro chi invoca una nuova disciplina dottrinale e pastorale, ha scritto il cardinale Pell, si eleva “una barriera insormontabile”, basata su “la quasi completa unanimità su questo punto di cui la storia cattolica dà prova da duemila anni” (Prefazione a Juan Pérez-Soba, Stephen Kampowski, Oltre la proposta di Kasper, Cantagalli, Siena 2014, p. 7).
C’è da sperare che il confronto sia libero e trasparente, senza l’imposizione dall’alto di regole che falsino il gioco. La posta non è una semplice divergenza di opinioni, ma il chiarimento sulla missione della Chiesa. C’è da augurarsi inoltre che i presuli fedeli alla Tradizione non si facciano intimidire e che siano capaci di sopportare con pazienza le violenze mediatiche e le censure ecclesiali, anche ingiuste e pesanti, che dovessero subire. “La canzone migliore continua ad essere la nostra” (p. 8), scrive ancora il cardinal Pell e Atanasio rimane un modello, nel nostro tempo, per tutti coloro che non si ritraggono dalla giusta battaglia in difesa della verità.
© FOGLIO QUOTIDIANO (1° ottobre 2014)
Giustizia e misericordia
di P. Giovanni Cavalcoli, O.P.
In un recente articolo apparso in www.chiesa il Padre Serafino Lanzetta manifesta alcune osservazioni critiche al libro del Card. Kasper “Misericordia. Concetto fondamentale del Vangelo – Chiave della vita”.
Dato che il libro di Kasper tocca alcuni temi teologici e morali di grande importanza e attualità, ho ritenuto bene riprendere e sviluppare le sagge annotazioni dell’illustre teologo francescano.
Innanzitutto dobbiamo condividere l’idea di Kasper che il tema della divina misericordia è una grande medicina per guarire dall’ateismo, ma non per il motivo addotto da Kasper, secondo il quale Dio non castiga ma usa solo misericordia, per cui, dopo Auschwitz, dovremmo abbandonare l’idea di un Dio che punisce.
In realtà, l’idea di Kasper è sbagliata, perché nella Scrittura l’attributo divino della giustizia punitiva è evidentissimo. Si tratta solo di intenderlo nel senso giusto, non come azione divina positiva tesa a recare pena o dolore al reo, ma si tratta di un’espressione metaforica presa dalla comune condotta umana, per significare il fatto che è il peccatore stesso col suo peccato a tirarsi addosso la punizione, così come per esempio chi eccede nel bere è “punito” con la cirrosi epatica. Questo è chiarissimo nella Bibbia. La morte non è qualcosa che consegue al peccato per un irrazionale o casuale intervento divino, ma è la conseguenza logica e necessaria del peccato, così come chi ingerisce un veleno necessariamente muore.
Kasper poi loda Lutero per il fatto che questi nel passo della Lettera ai Romani dove Paolo parla della “giustizia divina” (3,21), non intende la giustizia punitiva, ma l’azione misericordiosa di Dio, per la quale noi siamo “giustificati gratuitamente per la sua grazia” (v.24), “per mezzo della fede in Gesù” (v.22).
Giustissimo, senonché però non sempre nella Bibbia la giustizia divina ha questo senso, ma in molti altri luoghi appare chiaramente come giustizia punitiva, anche se nel senso suddetto. Del resto è ben noto quanto Lutero manteneva il concetto della punizione divina, ammettendo, con la tradizione cattolica, l’esistenza del diavolo e di dannati nell’inferno.
In base a ciò, dobbiamo dire che è falsa l’affermazione di Kasper secondo la quale, con l’avvento di Cristo, “Dio ha messo definitivamente a tacere la propria ira e ha fatto spazio al suo amore e alla sua misericordia” (p. 103). Sono infatti notissimi tutti gli insegnamenti di Cristo circa l’esistenza dei dannati[1] e i passi nei quali Egli redarguisce con molta severità suoi avversari.
Indubbiamente c’è da ricordare che l’“ira divina” è un’espressione metaforica per esprimere appunto la giustizia divina. È infatti evidente che in Dio, purissimo Spirito, non esistono passioni e emozioni. L’ira divina è semplicemente la condizione penosa del peccatore privo della grazia e nemico di Dio. Dio non è nemico di nessuno. Egli, come dice S.Agostino, non ti abbandona, se non sei tu ad abbandonarLo.
La distinzione in Dio fra giustizia e misericordia non si fonda sull’essenza divina, né è proprietà necessaria di tale essenza, ma suppone l’esistenza del mondo, che Dio, se avesse voluto, poteva anche non creare. Infatti, mentre la misericordia è atto dell’amore gratuito di Dio per l’uomo peccatore, per cui questi viene da Dio indotto al pentimento e una volta pentito viene perdonato, sicché, avendo recuperato la grazia, può compiere opere meritorie per la salvezza, la giustizia divina, come ho già detto, non è un atto positivo di Dio, ma è la giusta e logica conseguenza del peccato.
In questa luce e in questo senso la Bibbia dice che Dio premia i buoni e castiga i malvagi, confermando un’insopprimibile esigenza universale della coscienza morale naturale di ogni uomo onesto e leale. Diversamente, che senso avrebbero gli ordinamenti e gli istituti penali dello Stato e della Chiesa? Ci sarebbe la legge della giungla, dove il forte si mangia il debole e ciascuno non farebbe altro che voler prevalere sugli altri.
Se Dio non punisse i malvagi sarebbe ingiusto, anche se è vero che Egli mostra il suo amore facendo misericordia. Tuttavia la vera misericordia non si attua a scapito della giustizia, ma operando, come dice giustamente Padre Serafino, meglio e al di sopra della giustizia, che comunque va sempre rispettata. Se un peccatore è perdonato e non è punito, ciò non è ingiusto, ma è un’opera divina.
Non si deve opporre l’amore alla giustizia. Esiste infatti e deve esistere un amore per la giustizia. La punizione o l’uso della forza in se stessi non sono peccato, ma lo sono quando la pena è ingiusta, o troppo mite o troppo severa, e quando si usa la forza non in difesa del bene, ma per fare il male. Occorre dunque odiare l’ingiustizia e praticare la giustizia imitando la stessa giustizia divina.
L’impassibilità divina, come giustamente osserva P.Serafino, non è non so quale freddezza o durezza di cuore, ma significa semplicemente l’inviolabilità della natura divina e il fatto che non può essere privata di nulla e nulla le può mancare.
L’idea di un Dio solo misericordioso, che non punisce nessuno, non solo non risolve il problema dell’ateismo, ma lo esaspera. Infatti, la misericordia come tale allevia la sofferenza e solleva dalla miseria, le quali invece, in linea di principio, anche se non caso per caso, sono alla lontana, anche negli innocenti e nei santi, castigo del peccato originale e forse anche dei peccati personali o di quelli di coloro che ci fanno soffrire.
Ebbene, se dovesse restare solo la misericordia senza la giustizia, allora tutte le pene di questa vita dovrebbero essere effetto della misericordia divina, cosa evidentemente assurda, che ci farebbe sentire beffati da un Dio di tal fatta. E’ vero che se viviamo le nostre pene quotidiane in unione a Cristo crocifisso, sperimentiamo la misericordia divina, non però per un’assurda confusione tra punizione e misericordia, ma perché in Cristo possiamo espiare le nostre colpe per puro dono della divina misericordia.
È ovvio che la tragedia di Auschwitz conduce a chiederci che ne fu allora dell’onnipotenza e della bontà divine. Perché Dio non è intervenuto o non ha impedito? Se ammettiamo la Scrittura come Parola di Dio, l’unica risposta ci viene dalla fede: perché Dio ha voluto invitare il suo Popolo a partecipare ai dolori del Messia.
L’invito di Kasper alla speranza che simili cose non si ripetano più è giusto, ma intanto il credente non deve spiegare solo il futuro, ma anche il passato e il presente e fuori di Cristo non c’è spiegazione al mistero del male, del peccato e della sofferenza.
Quanto poi sostiene Kasper secondo il quale Kant avrebbe dimostrato l’impossibilità di dimostrare razionalmente l’esistenza di Dio mediante il principio di causalità partendo dalle cose del mondo, è una tesi assolutamente falsa, che contrasta sia con la ragione naturale e ancor più con gli insegnamenti della Chiesa, per esempio col Concilio Vaticano I, basati sulla stessa Sacra Scrittura (Cf Rm 1,19-20 e Sap 13,5).
Inoltre, grave calunnia contro la metafisica è l’accusa di Kasper secondo la quale la dottrina metafisica dell’Ipsum Esse, peraltro ricavata da S.Tommaso d’Aquino da Es 3,14, escluderebbe dagli attributi divini la misericordia: tesi falsissima, dato che la misericordia, dal punto di vista metafisico, non è altro che la manifestazione e l’attuazione dell’infinita bontà divina, attributo che la metafisica deduce dal trascendentale del bonum, in quanto sommo analogato della nozione del bene.
Altro grave errore teologico di Kasper è il credere che la misericordia è la proprietà fondamentale di Dio, (p.137), quasi fosse un attributo della sua stessa essenza. E giunge ad affermare che “la misericordia è la perfezione dell’essenza di Dio” (p. 105), come se Dio si dovesse perfezionare nell’esercizio della misericordia.
Ora, dobbiamo dire che, essendo la misericordia legata all’azione divina nei confronti del mondo e poiché il mondo non fa parte dell’essenza divina, né Dio lo ha creato necessariamente o per essenza, anche la misericordia non entra necessariamente nell’essenza divina, per cui questa non si perfeziona affatto, in quanto Dio, essendo già di per sé perfezione infinita, non ha assolutamente bisogno di perfezionarsi o di essere perfezionato.
Per quanto poi riguarda la speranza della salvezza, la Bibbia non dice da nessuna parte che dobbiamo sperare la salvezza di tutti, come crede von Balthasar ripreso da Kasper, ma al contrario insegna chiarissimamente che non tutti si salvano, per quanto non sia affatto proibito ma anzi è doveroso pregare per la salvezza dei peccatori, finché sono in vita. Viceversa io ho il dovere di sperare nella mia salvezza, fondando tale speranza su di un assiduo impegno per la salvezza mia e degli altri.
Kasper non si spinge come per esempio Rahner a dirsi certo che tutti si salvano. La sua tesi è più morbida. Egli ritiene infatti che “Possiamo sperare nella salvezza di tutti, ma di fatto non possiamo sapere se tutti si salveranno” (p. 169). Tale idea non raggiunge però ancora quanto insegnano la Bibbia e il Magistero della Chiesa. Dottrina di fede è invece che non tutti si salvano (Concilio di Trento, Denz.1523 e Concilio di Quierzy dell’853, Denz. 623).
Altro grave errore teologico di Kasper, contrario al dogma cattolico, come lascia intendere Padre Lanzetta, è l’idea di un Dio sofferente. Certo, anche qui possiamo usare la metafora o la comunicazione degli idiomi, in quanto, per esempio, possiamo dire che Dio soffre in Cristo in quanto Cristo è uomo.
Ma asserire la sofferenza nella natura divina è eresia. Certo Kasper tenta di sfuggire a questa grave conseguenza, ma esce in espressioni contraddittorie, che non hanno senso, dicendo che in Dio la sofferenza sarebbe una perfezione e addirittura espressione della sua onnipotenza: “per la Bibbia… la con-sofferenza di Dio non è espressione della sua imperfezione, della sua debolezza e della sua impotenza, ma è espressione della sua onnipotenza… Egli non può quindi essere passivamente e contro la sua volontà colpito dal dolore, però nella sua misericordia si lascia sovranamente e liberamente colpire dal dolore” (pp. 184-185)[2].
Queste posizioni di Kasper, è vero, toccano solo la metafisica, la teologia e il dogma. Di recente si è fatto conoscere un Kasper che, in vista del prossimo sinodo dei vescovi sulla famiglia, a proposito del delicato problema dei divorziati risposati, ha manifestato, in nome della “misericordia”, idee che hanno incontrato opposizioni e critiche nell’ambito dello stesso collegio cardinalizio.
Il mio timore è che le tesi lassiste di Kasper siano la conseguenza delle deviazioni di fondo denunciate da me e da Padre Serafino. Inoltre, insultare la metafisica non è senza conseguenze nel campo della fede, del dogma e della morale. E la vicenda culturale e spirituale del Card. Kasper sembra esserne una prova conturbante ed istruttiva.
NOTA
[1] Al riguardo mi permetto di segnalare il mio libro L’inferno esiste. La verità negata, Edizioni Fede&Cultura, Verona 2010.
[2] Al riguardo mi permetto di segnalare i miei studi IL MISTERO DELL’IMPASSIBILITA’ DIVINA, Divinitas, 2, 1995, pp.111-167; LA QUESTIONE DELL’IMMUTABILITA’ DIVINA, in Rivista Teologica di Lugano, n.1, marzo 2011, pp.71-93.
© Approfondimenti di Fides Catholica (Fontanellato, 20 settembre 2014)
La misericordia secondo il cardinale Kasper
L’autore è frate francescano dell’Immacolata, è docente di teologia dogmatica e ha diretto dal 2006 la rivista teologica “Fides Catholica”.
di Padre Serafino Maria Lanzetta
È da salutare con grande interesse lo sforzo teologico del cardinale Walter Kasper di rimettere il tema della misericordia di Dio non solo al centro della predicazione e della pastorale della Chiesa, ma soprattutto al centro della riflessione teologica. Nel suo recente libro sulla misericordia, apparso in tedesco nel 2012 e poi tradotto in italiano per i tipi della Queriniana (Giornale di Teologia 361) nel 2013, Misericordia. Concetto fondamentale del vangelo – Chiave della vita, il cardinale tedesco, per lunghi anni presidente del Pontificio Consiglio per l’Unità dei Cristiani, parte da un’amara constatazione: la misericordia, la quale occupa un posto centrale nella Bibbia, è difatti caduta completamente in oblio nella teologia sistematica, trattata solo in modo accessorio. O non occupa un posto centrale nei manuali di teologia sistematica fino alle soglie degli anni 1960, o addirittura manca del tutto in quelli recenti. Se vi compare, occupa un posto del tutto marginale. Nonostante che il pontificato di Giovanni Paolo II avesse dato un grande impulso alla riscoperta della misericordia, come tema teologico e spirituale, grazie soprattutto alla santa polacca Faustina Kowalska, e che Benedetto XVI ne avesse fatto, in un certo modo, la sua direttrice, con la prima enciclica sull’amore, Deus caritas est, il tema rimane ancora nascosto nel suo potenziale sviluppo per la teologia e quindi per la vita cristiana. Il nostro cardinale, dunque, in questo suo testo, di cui ci occuperemo (5a ed. it. del 2014), raccoglie questa sollecitazione, e presenta a livello sistematico il tema della misericordia di Dio.
Una giustizia che si ritrae nella misericordia?
La misericordia è una medicina indispensabile, è l’ingrediente che purtroppo manca, ma che a ben guardare rappresenta l’unica vera risposta agli ateismi e alle ideologie così perniciose del XX secolo. Come annunciare di nuovo un Dio, di cui, dopo Auschwitz, faremmo solo meglio a tacerne l’esistenza? Storicamente, a giudizio di Kasper, suffragato da O.H. Pesch, “l’idea di un Dio castigatore e vendicativo ha gettato molti nell’angoscia a proposito della loro salvezza eterna. Il caso più noto e foriero di gravi conseguenze per la storia della chiesa è il giovane Martin Lutero, che fu per lungo tempo tormentato dalla domanda: ‘Come posso trovare un Dio benigno’, finché egli un giorno riconobbe che, nel senso della Bibbia, la giustizia di Dio non è la sua giustizia punitiva, ma la sua giustizia giustificante e, quindi, la sua misericordia. Su di ciò, nel XVI secolo la Chiesa si divise” (p. 25), e così da quel momento, il rapporto giustizia e misericordia divenne una questione centrale della teologia occidentale.
Il nostro cardinale preferisce non entrare nel tema della giustificazione secondo Lutero, solo la loda (come farà poi anche alle pp. 121.137), anche se ci sarebbero molte cose da dire, una tra tutte: la misericordia giustificante è vista dal riformatore tedesco non come perdono ontologico, come integra riconciliazione dell’uomo con Dio, nella verità e nella giustizia, ma come un essere semplicemente rivestiti dei meriti di Cristo (non dell’uomo), quindi in un intrinseco rimanere peccatori seppur dichiarati giusti. Questa è misericordia di Dio? Dove l’uomo rimane inficiato non solo del vulnus della concupiscenza, ma dalla stessa sporcizia del peccato, pur essendo giusto? Giusti nei peccati? Su questo il card. Kasper si mostra benevolo sorvolando, riferendosi solo allo sforzo immane fatto da ambo le parti, quella cattolica e quella luterana, di trovare un consenso fondamentale sulla dottrina della giustificazione con la Dichiarazione ufficiale comune sulla dottrina della giustificazione, del 31 ottobre 1999, che vedeva attori la Federazione Luterana Mondiale e la Chiesa Cattolica, rappresentata dal Pontificio Consiglio per l’Unità dei Cristiani, presieduto dal nostro cardinale (cf. p. 26). A questa Dichiarazione, seguita alla Dichiarazione congiunta del 1997, era stato necessario premettere, nel 1998, una Risposta ufficiale cattolica (elaborata di comune intesa tra la CDF e il PCUC, ma firmata solo da quest’ultimo), rimanendovi comunque una visione protestante non conciliabile con quella cattolica, nel tentativo ecumenico di non considerare più le condanne di Trento come divisive per le chiese.
In ogni caso Kasper è cosciente, nel suo libro, di un assunto: dobbiamo tirar fuori la misericordia “dalla sua esistenza di cenerentola, in cui essa era caduta nella teologia tradizionale” (p. 26). Certamente misericordia non è una visione sdolcinata di Dio, di un Dio possibilista verso i desideri dell’uomo, accondiscendente, buonista, ma è una vera sfida, non solo teologica, ma anche sociale e politica se vogliamo. Dalla vera misericordia deriva un’immagine di Dio come risposta adeguata all’ideologia ancora in voga, tanto quella marxista quanto quella capitalista.
Il card. Kasper è ben attento nel denunciare tutti i rischi che si nascondono negli accenti quasi ossessivi alla misericordia, ma a volte contro la verità. Un mondo che ha rinunciato a Dio e alla ragione, non può che accontentarsi di buoni sentimenti. Scrive, ad esempio: “La misericordia senza la verità sarebbe priva di onestà; sarebbe semplice consolazione, in definitiva un chiacchierare a vuoto. Viceversa, però, la verità senza misericordia sarebbe fredda, scostante e pronta a ferire” (p. 241).
Fine primario del libro di Kasper sulla misericordia, comunque, rimane un ridare assetto sistematico alla grande assente nel dibattito e nella speculazione teologici, provocando una coscientizzazione più ampia. Il nostro autore offre, così, dopo aver esaminato attentamente il messaggio della misericordia nell’A.T. e nella predicazione di Gesù, importanti riflessioni per un quadro speculativo generale sulla misericordia. Vogliamo occuparci più a lungo proprio di questo, perché a giudizio di chi scrive, in questo quadro sistematico, si insinua qualcosa che potrebbe sconvolgere l’insieme: facilmente esagerando i tratti misericordiosi di Dio, quando non addirittura spingendoli molto a ribasso. Esaminiamo quest’opera per gradi.
Beati i poveri in spirito
C’è una novità quasi radicale di Cristo rispetto al messaggio dell’A.T., commenta Kasper, consistente nel fatto che Gesù, “predica la misericordia definitiva per tutti. No solo a pochi giusti, ma a tutti egli dischiude la via di accesso a Dio… Dio ha messo definitivamente a tacere la propria ira e ha fatto spazio al suo amore e alla sua misericordia” (p. 103). Questa drastica separazione con l’Antica Alleanza, dove sembra, così dicendo, che non ci sia posto per la compassione e l’amore, non appare ben supportata. Basti pensare ai Salmi che lodano l’amore misericordioso del Padre per noi (cf. Sal 117, oltre a quelli che cita anche il nostro autore, convinto che dall’Esodo fino ai Salmi Dio è misericordioso e pietoso, cf. p. 93). La misericordia, in fondo, deriva dallo stesso atto creativo di Dio, che suscita in Lui approvazione e gioia (cf Gen 1,4.10.12.18). Dio non disprezza ciò che ha fatto, non rinnega l’opera delle sue mani.
Ma ciò che preme sottolineare al cardinale, nell’accento misericordioso del N.T., è piuttosto questo passaggio, in verità molto oscuro: “Suoi destinatari (di Gesù) erano in modo particolare i peccatori; essi sono i poveri in spirito” (p. 103). E questo, sembrerebbe, per il fatto che Gesù è amico dei pubblicani e dei peccatori (cf. p. 104). I peccatori sono i poveri in spirito? Quindi, chi commette i peccati è beato perché ha perso qualcosa nello spirito? Si vede a quali conclusioni potrebbe portare una tale considerazione, quando non a veri errori, che difatti sono già noti in tante predicazioni e infatuazioni misericordiose. La povertà di spirito non è una mancanza materiale di qualcosa (della grazia di Dio?), ma è una condizione interiore, un atteggiamento dell’intelligenza e del cuore, semplici, penitenti e umili, che si pongono davanti a Dio, senza mezzi umani, in ascolto della sua Parola (cf. Mt 5,3 alla luce del Sal 69,33ss.).
Su questo punto, invece, ha le idee molto chiare un importante teologo protestante, Heinz Zahrnt, il quale dice così, commentando il ministero pubblico del Signore: “I peccatori non sono scusati e la malattia non viene idealizzata. Gesù è un amico dei peccatori, non il loro compagno… Certamente il ritorno del peccatore rimane indispensabile, ma non è la condizione, è piuttosto la conseguenza del dono grazioso di Dio” (Jesus aus Nazareth. Ein Leben, Monaco 1987, p. 109). I poveri di spirito sono coloro che si convertono, non i peccatori che rimangono tali.
La misericordia specchio della Trinità?
Kasper rifiuta la visione metafisica classica e fa sua invece la critica di Kant, ben espressa poi in quel “Che cosa possiamo sperare?”. Cioè, la nostra intelligenza è limitata, non può superare il campo del visibile e dell’esperienza umana. Ciò che va oltre non è dato di conoscere, ma è relegato alla speranza, la quale rappresenta un mero postulato (cf. pp. 190-191). Questo anche per Kasper. Infatti, scrive: “Non è possibile superare la critica di Kant ai tentativi di una teodicea; tutti questi tentativi vanno considerati come falliti” (p. 191). Ma ci si pone, almeno qualche volta, il problema che una speranza come semplice presupposizione, ma infatti fondata sul dubbio, è già disperazione?
La teodicea, legata a una visione essenzialista di Dio, che, tra l’altro, escludeva dagli attributi dell’Essere divino la misericordia, riconducendoli invece, solo ad attributi (forti) come l’onnipotenza, la giustizia, l’infinità, ecc., lascerebbe il posto, nella S. Scrittura, a una forma più esistenziale dell’”Ego sum qui sum” (Es 3,14): non Io sono l’Essere, ma Io sono sempre con voi e per voi (cf. p. 129). Però, se la metafisica ha escluso la misericordia tra gli attributi essenziali di Dio (cf. p. 23), perché essa ci è rivelata da Dio nella sua automanifestazione storica a partire dalla Sacra Scrittura – gli attributi metafisici di Dio riguardano ciò che la ragione può cogliere come universale e senza necessità di una rivelazione soprannaturale –, Kasper in realtà si ingegna a voler collocare proprio la misericordia nella stessa essenza di Dio, come proprietà fondamentale di Dio; di più, al dire del nostro, come “specchio della Trinità” (p. 140). Questo, infatti, gli consente di dover guardare ormai e per sempre alla giustizia dalla misericordia: “Se la misericordia è la proprietà fondamentale di Dio, allora essa non può essere un’attenuazione della giustizia, ma bisogna piuttosto concepire la giustizia di Dio partendo dalla sua misericordia. La misericordia è allora la giustizia specifica di Dio” (p. 137).
È qui percepibile lo sforzo ecumenico del nostro autore, in un discorso in cui la visione di Lutero sembra costituire lo sfondo grazioso, ma, in ogni caso, ciò che stride è il tentativo di assorbire la giustizia nella misericordia. In teologia la misericordia è qualificabile come dono, una grazia, non un’esigenza, come invece lo è la giustizia, anche se naturalmente contempla anche l’aristotelica epicheia. La misericordia perfeziona e compie la giustizia ma non l’annulla; la presuppone, altrimenti non avrebbe in sé ragion d’essere. E questo anche perché le proprietà o attributi divini, a livello razionale, sono deducibili da ciò che la ragione è capace di esprimere su Dio. S. Tommaso dice: “La misericordia va attribuita a Dio in modo principalissimo (maxime attribuenda); non per quanto ha di sentimento o passione, ma per gli effetti (che produce)” (S. Th., I, q. 21, a. 3).
Anche se Kant dice di no, la ragione rimane comunque aperta alla realtà come tale, alle cose che sono in quanto sono, alle cose che esistono. Se Dio esiste (come lo sa questo Kasper? Solo dalla fede? Dalla speranza?) la ragione è aperta a tutto l’essere; la ragione è aperta a tutto l’essere perché Dio esiste. Ma questi discorsi possono apparire troppo fissisti, passati di moda.
Al nostro cardinale preme però dimostrare, con S. Luca (6,36), in un modo che sinceramente ci sfugge, che “la misericordia è la perfezione dell’essenza di Dio. Dio non condanna, ma perdona, dà e dona in una misura buona, sollecita, vagliata e sovrabbondante” (p. 105). Se allora la misericordia appartiene all’essenza stessa di Dio, perfezionandola (sic! In realtà, cosa può perfezionare Dio se non Dio stesso? Ad ogni modo bisogna decidersi se fare uso o meno della metafisica), allora, “nella misericordia non viene certo realizzata l’essenza trinitaria di Dio, questa però diventa concretamente realtà per noi e in noi” (p. 144). Kasper riprende la tesi dell’autoritrazione di Dio nella sua kenosi umana, non nel senso protestante di rinuncia alla sua divinità: per Lutero Dio nella sua kenosi è “raumgebend”, cioè colui che fa spazio all’autodecisione dell’altro, piuttosto nel senso della sua rivelazione. Dio, infinito in sé, si ritrae per fare spazio all’altro; al Figlio e mediante Lui allo Spirito Santo. In Dio, questa ritrazione, nella sua stessa infinità, è kenosi, è autospogliamento di sé, presupposto poi, perché, Dio infinito, possa fare spazio alla creazione. L’autoritrazione trinitaria conosce il momento del suo sublime rivelarsi nell’incarnazione e nella Croce di Gesù Cristo, rivelazione della sua onnipotenza nell’amore. Così Kasper (cf. p. 144).
Ci chiediamo: se Dio si ritrae per fare spazio all’altro, sia esso una persona divina o il creato, chi sarà l’altro? Dio stesso che si ritrae fino a perdersi nell’altro? L’uomo è l’autospogliamento di Dio? L’umanità di Gesù è l’autospogliamento rivelativo di Dio? Non c’è il rischio che Dio rimanga poi solo il Dio di Gesù Cristo, nella kenosi rivelativa di Dio? E che Gesù Cristo non sia più Dio ma solo la ritrazione del Padre? Domande che crescono e che ci colgono sorpresi. Ma che ci mettono davanti al rischio concreto dell’abbandono della metafisica.
Come possiamo non disperare
Un altro capitolo teologico importante nell’analisi di Kasper è quello riguardante la misericordia in relazione al discorso escatologico. Ancora una volta Kasper, ora suffragato da Hans Urs von Balthasar, si richiede, con la critica della ragion pura di Kant: “Che cosa possiamo sperare?”, domanda che riassume, a suo giudizio, “tutte le domande umane” (p. 158). Come per la ragione filosofica anche per l’intellectus fidei però si pone subito un problema: non tanto cosa ma come possiamo sperare? Qual è il modo teologale corretto di esercitare la speranza? Sembra che, come per la metafisica, anche in ambito escatologico l’analisi di Kasper presenti un vulnus.
Nella S. Scrittura scopriamo due diverse serie di affermazioni che per Kasper, come già prima per von Balthasar nel suo Sperare per tutti (or. ted. 1986, tr. it. 1989) appaiono inconciliabili. Per von Balthasar difatti rimangono inconciliabili, e cioè, in sintesi: da un lato la dichiarazione incontrovertibile che Dio vuole la salvezza di tutti gli uomini (1Tm 2,3) e dall’altro, comprensivo di più luoghi scritturistici, il giudizio universale, in cui alcuni andranno alla perdizione eterna e altri alla salvezza eterna (Mt 25,31-46).
A giudizio di Kasper, le affermazioni salvifiche universalistiche sono di speranza per tutti, ma non riguardano la salvezza effettiva di tutti e singoli gli uomini, mentre le affermazioni che parlano di giudizio e dell’effettiva dannazione non intendono dire di nessun uomo che si sia dannato. Questo dà modo al cardinale tedesco di dedurre quanto segue: “Di nessun essere umano concreto ci è stata rivelata la dannazione eterna e la chiesa non ha mai insegnato in modo dogmaticamente vincolante a proposito di nessuno che egli sia caduto nella dannazione eterna” (p. 166). Neppure di Giuda si potrebbe dire ciò con sicurezza. Qui però sembra che si confonda il magistero dogmatico, che insegna senza alcun dubbio l’esistenza dell’inferno e l’effettiva perdizione di chi muore in stato di peccato mortale (si veda, come sintesi di numerosi interventi, il CCC ai nn. 1033-1035), con una sorta di dichiarazione infallibile che quel tale si è dannato. La Chiesa, come ben sappiamo, non fa “canonizzazioni” per chi si danna, ma insegna infallibilmente, sulla base del chiaro insegnamento del Signore, che l’inferno esiste e che non è vuoto.
Per Kasper però, e questo è il vero problema della sua analisi, “non possiamo né interpretare le affermazioni storico-salvifiche universali, piene di speranza, nel senso della dottrina dell’apocatastasi, come conoscenza di fatto dell’effettiva salvezza di tutti i singoli, né dedurre dalla minaccia del giudizio e dalla reale possibilità dell’inferno l’effettiva dannazione eterna di singoli essere umani o addirittura della maggioranza degli uomini” (p. 167). E questa è la posizione di Kasper: “Possiamo sperare nella salvezza di tutti, ma di fatto non possiamo sapere se tutti si salveranno” (p. 169). Questo è l’approdo, difatti, del criticismo kantiano. Non si può sperare, contro la fede, la salvezza di tutti. Come non c’è una speranza contro o senza la ragione, analogamente, non c’è speranza teologale contro o senza la fede. Non si può sperare contro le parole chiarissime del Signore: “… e questi se andranno alla perdizione eterna e i giusti alla vita eterna” (Mt 25,46), come se fossero mere esortazioni a fare i buoni.
Kasper nella sua analisi cerca una via mediana tra la posizione di von Balthasar, da cui vuole distaccarsi, e la dottrina della Chiesa, ma alla fine non ci riesce.
Von Balthasar aveva sostenuto che “non si sa se tutti si salveranno, ma si “può” sperare che nessuno si perderà” (Sperare per tutti, p. 13). Alla fine, il teologo di Basilea, rispondendo ai suoi critici in modo acceso, dirà che non solo si può, ma addirittura si deve sperare che nessuno si perderà. Chi pensasse che oltre a se stesso anche solo un altro potesse perdersi eternamente non amerebbe più senza riserve (Breve discorso sull’inferno, or. ted. 1987, tr. it. 1988, p. 57). A conforto della sua idea originaria, più possibilista ma non ancora esclusivista, von Balthasar amava riferirsi a una “nuvola di testimoni”, di mistici, che avrebbero condiviso la sua tesi.
In realtà, fu dimostrato nello stesso anno 1986 dalla rivista tedesca “Theologisches”, che nessuno dei mistici indicati da von Balthasar sostiene la sua visione di un “inferno vuoto”, con la sola eccezione di Adrienne von Speyr. Tutti i santi e mistici confermano la visione della dottrina della Chiesa: ci sono dei dannati all’inferno, non ultimo il messaggio della Madonna a Fatima. Qualora ci fosse qualche apparente discrepanza tra le visioni dei mistici circa le realtà ultime – Balthasar ad esempio amava riferirsi alla misericordia della piccola Teresa, più che alla teologia mistica della grande Teresa – la cosa va risolta guardando all’insieme dei santi e non a casi isolati e nell’ottica del Magistero della Chiesa.
Kasper, per rafforzare la sua tesi, cita anch’egli numerose testimonianze di diversi santi, specialmente donne. Ma li cita normalmente secondo von Balthasar. In definitiva, il vero problema di von Balthasar fu la sua dipendenza in toto da Origene, come gli rimproverò Werner Löser: il teologo di Basilea volle svolgere la sua intera opera “nello spirito di Origene”; a differenza di questi, però, non postulò anche la salvezza del diavolo, ma solo quella degli uomini.
Un Dio che soffre per misericordia?
Infine, vorremo soffermarci su un altro aspetto sistematico con cui il card. Kasper lumeggia la misericordia di Dio in se stesso. Ora l’accento è posto sulla sofferenza di Dio e si può subito capire che anche qui la questione diventa molto delicata: da un lato è in agguato il cosiddetto patripassianismo, vecchio errore che ammetteva la sofferenza del Padre nella passione del Figlio e dall’altro una sorta di apatia di Dio, ragion per cui molti si sono allontanati da un Dio che sembra non avere un cuore, un Dio freddo calcolatore che rimane muto dinanzi al mistero del dolore e della sofferenza innocente.
Dio non è apatico, dice Kasper. “Secondo la testimonianza della Bibbia Dio ha un cuore per noi uomini, soffre con noi, gioisce con noi e si affligge per noi e con noi” (p. 183). La Bibbia non conosce un Dio che troneggia in modo insensibile. Venendo al N. T., è lampante l’esempio del Cristo, di colui che assunse per noi la forma di servo umiliando se stesso (cf. Fil 2,6ss.). Un Dio in croce, vero scandalo per il mondo nella stoltezza dei pensieri umani. Il tentativo di Kasper qui è di unire l’insegnamento della Bibbia, cioè di un Dio che soffre per amore con quello della teologia classica e metafisica, secondo cui Dio non può soffrire in se stesso, ciò che sarebbe chiaramente un divenire e perciò una solenne imperfezione.
A giudizio di Kasper, però, “per la Bibbia… la con-sofferenza di Dio non è espressione della sua imperfezione, della sua debolezza e della sua impotenza, ma è espressione della sua onnipotenza… Egli non può quindi essere passivamente e contro la sua volontà colpito dal dolore, però nella sua misericordia si lascia sovranamente e liberamente colpire dal dolore” (pp. 184-185). Dio nella sua misericordia è libero di soffrire e soffre per noi. Così, conclude Kasper, “oggi molti teologi della tradizione cattolica, ortodossa e protestante parlano della possibilità che Dio ha di soffrire e di con-soffrire con noi” (p. 185).
È molto importante spiegare che Dio può soffrire, anzi che si è fatto uomo proprio per poter soffrire per noi e con noi. Perciò non è insensibile o apatico. Ma in che modo però parliamo di Dio quando gli attribuiamo la sofferenza? Quale estensione ha il concetto “Dio” in Kasper e negli altri teologi che sostengono, evidentemente senza distinguere, la “sofferenza di Dio” dal Dio in quanto tale? Sembra, a ragion veduta, che Kasper, per appurare la sofferenza misericordiosa di Dio, utilizzi il concetto “Dio” in modo universale, o se vogliamo, in relazione alla Trinità, in modo piuttosto modale. Bisogna chiedersi: Dio soffre in quanto Dio, in quanto Padre, Figlio e Spirito Santo, o non invece in quanto Figlio e soltanto nella sua natura umana? La sofferenza, in verità, è di Cristo e circoscritta alla sua natura umana. La possiamo attribuire anche alla natura divina del Figlio – in questo senso Dio soffre, Dio muore, Dio è in Croce, ecc. – in virtù della “communicatio idiomatum”, comunicazione che non sposta la sofferenza da Cristo a Dio e quindi alla Trinità, ma attribuisce la sofferenza della natura umana del “Christus patiens” alla sua natura divina, nature ipostatizzate dalla persona divina del Verbo e quindi, in ogni caso, delimitata alla seconda persona divina della SS. Trinità. Dio non soffre come Dio ma come uomo in Cristo. L’operazione logicamente scorretta è attribuire in modo improprio ciò che è di Cristo al Dio trino e uno. Certamente vale ciò che dice s. Bernardo di Chiaravalle, che Dio è “impassibilis” ma non “incompassibilis”, capace cioè di compatire ma non di patire, ma non è corretto affiancare questa citazione, con quella di S. Agostino in “Enarrationes in Psalmos” 87,3: il Signore assunse la debolezza umana e la morte non per la miseria della sua condizione ma per la volontà della sua compassione, a quella di Origene in “Homilia in Ezechielem” VI,8, secondo cui Dio “prius passus est, deinde descendit. Quae est ista, quam pro nobis passus est, passio? Caritas est passio” (cf. p. 186). Qui Origene non è accettabile: è contro il dogma della Chiesa ammettere una sofferenza in Dio, addirittura prima della sua incarnazione e trasformare la Carità, che è Amore purissimo e semplicissimo, in sofferenza. Se anche Dio soffre nella sua eternità, chi potrà mai liberarci dalla sofferenza, una volta per sempre? E se Dio soffre, ma per amore, chi darà un senso al mio amore, che è essenzialmente richiesta di non più soffrire?
Ne va da sé che per Kasper l’unica vera risposta al male, alle tragedie, alle catastrofi naturali è la speranza, e cioè l’esercizio della misericordia. La ragione non può dirci di più e neanche la fede (cf. pp. 187-199).
Ci si consenta, a questo punto, anche qualche perplessità nel pensare all’impianto della misericordia che soggiacerebbe al “Vangelo della famiglia”, tema introduttivo e linea guida per i lavori del prossimo Sinodo sulla famiglia.
Qual è difatti la misericordia che dovrebbe fungere ormai da ponte tra “la dottrina della Chiesa sul matrimonio e le convinzioni vissute di molti cristiani”? Forse che i divorziati risposati, che desidererebbero fare la comunione, sono i poveri in spirito, ai quali non resta altro se non la speranza come esercizio della misericordia?
I santi, in verità, ci insegnano ad essere molto cauti con la misericordia di Dio, a non prenderla sottogamba, né a misconoscerla, chiudendosi in un desiderio di giustizia ad ogni costo. L’apostolo della Germania, S. Pietro Canisio, S.J., dice a tal proposito: “Con la misericordia di Dio vogliamo sempre comportarci in modo da essere conformi alla sua giustizia. Gli uomini ciechi si lasciano sedurre da una confidenza vanitosa nella misericordia di Nostro Signore” (Lettera alla sorella Wandelina van Triest, nata Kanis, Colonia, 23 marzo 1543).
© www.chiesa (18 settembre 2014)