Per la festa islamica odierna di Eid Al-Adha, il direttore dell’Ufficio della diocesi di Bergamo per il dialogo interreligioso ha scritto ai parroci invitandoli a dare sostegno ai fedeli musulmani per poter celebrare la festività. Anche la Bibbia viene manipolata per valorizzare la ricorrenza islamica. È una forma di clericalismo estremo, un rovesciamento della missione della Chiesa.
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Favori al PD e migranti usati: la Caritas pelosa di Bergamo
Accuse pesantissime di business sui clandestini: dall’associazione a delinquere allo sfruttamento del lavoro, ma per i sacerdoti e le coop sociali indagati nell’inchiesta della Procura sul Sistema Bergamo cala il silenzio: della Diocesi, di Avvenire e dei giornali d’area cattolica. Eppure, al di là dell’aspetto giudiziario, emerge una connivenza di potere e rapporti tra PD e Chiesa che getta più di un sospetto sui fini dell’operazione accoglienza, certificata dall’impennata nei bilanci sociali della coop fiore all’occhiello: dai richiedenti asilo sfruttati per il volantinaggio del PD alle spese gonfiate che la Procura ritiene una truffa dei rimborsi. I protagonisti di un’inchiesta che fa tremare il cuore della cattolica Bergamo, ormai passata a Sinistra.
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La CEI vuole farci adorare la Pachamama
A Verona un parroco fa recitare una preghiera rituale alla Pachamama e i fedeli insorgono. Ma tutto parte da lontano: già in aprile l’organismo missionario della CEI invitava a pregare la Pachamama in preparazione al Sinodo. In un opuscolo in cui non compare nemmeno la parola Gesù, ma rivolto a parrocchie e fedeli, fa capolino la preghiera andina alla Madre terra. Siamo allo sdoganamento conclamato del paganesimo con l’imprimatur dei vescovi italiani.
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Bergamo, la curia tifa gay-pride e stoppa la veglia di riparazione
A Bergamo una forte pressione della curia stoppa la preghiera di riparazione che si sarebbe dovuta tenere in chiesa dopo il primo Gay Pride orobico. Ripiegheranno con un Rosario, ma non c’è da stupirsi dato che la stessa diocesi ha collaborato con l’organizzazione dell’evento per non farlo coincidere con l’arrivo delle spoglie del Papa Buono. Invece di condannarlo, si è cercato di scendere a patti con i promotori. A farne le spese, come al solito i fedeli: è la legge del più forte.
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Mails di protesta dei nostri lettori alla Curia di Bergamo per i canti di Ligabue durante un funerale. E in Curia se la ridono.
Riceviamo da due nostri lettori (un sacerdote il primo, e un padre di famiglia il secondo) le mail che hanno inviato (girandole anche a noi per conoscenza) alla Curia di Bergamo (info@diocesibg.it) per stigmatizzare alcune scelte troppo permissive -od omissive – da parte di certo clero bergamasco durante un funerale di un povero ragazzo. A destare rabbia non è certo il fatto che i molti e commossi giovani abbiano espresso il loro comprensibile cordoglio e la loro umana sofferenza (per la tragica perdita di un loro compagno di squadra o amico) nelle forme che sono loro proprie: col cuore e e con canzoni, sciarpe, bandiere, cori ecc. Quello che preoccupa e indigna è che i preti abbiano permesso la commistione inaccettabile tra un sacramentale e le espressioni di commiato laico. Sarebbe stato meglio e più educativo (oltre che più dignitoso) che i sacerdoti avessero spiegato ai giovani che le canzoni di Ligabue avrebbero potuto cantarle prima o dopo il rito religioso, FUORI dalla chiesa, magari in una sorta di “funerale laico”. Ma non durante il rito delle esequie! Quello che avremmo auspicato non era certo un autoritario dictat negativo o un divieto ferreo, ma una spiegazione motivata facendo capire ai giovani la differenza tra le cose di Dio e le cose degli uomini. Senza voler disprezzare e sminuire l’aspetto umano della scelta di salutare il loro amico con le canzoni che più amava. Purtroppo è la solita storia: i preti hanno paura a difendere i luoghi e i tempi sacri, e a dire che a volte quello che sembra giusto, scontato, lecito e dettato dall’onda del sentimentalismo del momento, possa però allo essere sbagliato, sconveniente, irriverente (per chi ci crede) o anche solo inopportuno. Piermario Morosini, requiescas in pace! (Roberto)
Due o tre cose sul “caso Bergamo” e gli strani funerali. Ci scrivono Gnocchi e Palmaro
Non è che in queste ultime settimane il diario dalla diocesi di BG (Bergamo non Bulgaria) non meritasse di essere aggiornato, anzi. Solo che il vescovo, monsignor Francesco Beschi, durante la Quaresima, forse come penitenza, aveva incontrato i fedeli della Messa in rito antico e aveva promesso che “dopo Pasqua si comincerà a vedere qualcosa”. Come si fa a non concedere fiducia a un vescovo? È vero che, con i tempi che corrono, la domanda dovrebbe essere un’altra: come si fa a concedere fiducia a un vescovo? Ma, si sa, noi cattolici vecchio stampo siamo sempre un po’ sentimentali e, con la fiducia, ci comportiamo come Vittorio Emanuele con i titoli onorifici: “Una medaglia di cavaliere e mezzo sigaro toscano” diceva il re “non si negano a nessuno”. Non è il caso di riportare qui la cronaca dell’imbarazzato e imbarazzante intervento di monsignor Beschi in mezzo i fedeli della Messa in latino. Forse, ma bisogna sottolineare “forse”, non gli capitava da tanto tempo di trovarsi in mezzo a tanti cattolici tutti insieme. E, forse, ma sempre sottolineando “forse”, non gli era mai capitato di sentirsi dire, come gli è capitato quella sera, che ci sono dei fedeli disposti a dare la vita per lui. E bisogna anche tenere conto che ha pure toccato con mano l’esistenza di cattolici decisi ancora ad andare a Messa per pregare e non per fare festa, per divertirsi, per incontrasi o per celebrare se stessi. Lo choc, forse, ma sempre sottolineando “forse”, deve essere stato notevole. Specialmente, e sottolineando “specialmente”, per i suoi due accompagnatori: il vicario generale monsignor Davide Pelucchi e il delegato ad omnia monsignor G. Specialissimamente, e qui senza il “forse”, per monsignor G., il quale si trova più a suo agio in casa dei protestanti, dove volentieri tiene conferenze con ardite vedute sull’ecclesiologia, robetta da chiedere, forse e sottolineando “forse”, il parere di qualche Congregazione romana. Ma ogni cosa a suo tempo. Ora bisogna tornare alla promessa del vescovo: dopo Pasqua si sarebbe visto qualcosa. Per questo motivo, il diario dalla diocesi di BG (Bergamo non Bulgaria) ha mantenuto un dignitoso riserbo. Qualcosa si sarebbe visto e, in effetti, qualcosa si è visto: lo scempio liturgico e dottrinale del funerale di Piermario Morosini. Della vicenda si è occupato da par suo Antonio Socci su “Libero”. Lo ha fatto due volte, la prima denunciando il fatto e la seconda rispondendo alle ingiuriose obiezioni di Alberto Melloni, epigono del dossettismo morente, e chiosando i poveri, poverini, rilievi del direttore di “Avvenire”. A questo punto, era giocoforza coinvolgere Mario Palmaro dire due cosette sulla vicenda. Ed eccoci qua. (Alessandro Gnocchi).
di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro, da Messainlatino Blog (27/04/2012)
Chi dice che i cattolici vecchio stampo non siano capaci di esercitare la carità si sbaglia. Perché è proprio per una questione di carità che si passa sotto silenzio quanto Alberto Melloni, l’ultimo dei dossettiani, ha scritto di Antonio Socci dalle pagine del “Corriere della Sera”. Come è noto, Socci aveva denunciato su “Libero” lo scempio dottrinale liturgico perpetrato a Bergamo in occasione del funerale del calciatore Piermario Morosini. Ma la cosa non deve essere piaciuta al prode, e prodiano, Melloni, il quale, scambiando il più autorevole giornale italiano per un osteria, più che argomentare ha offeso. Niente di nuovo, da tempo, ormai il prode prodiano Melloni riesce solo a offendere e per questo è molto caro a tutti i sinceri cattolici: in quanto è la testimonianza vivente del progressismo morente. Punto a capo.
Qui bisogna invece occuparsi della pochezza che trasuda dalla risposta del direttore di “Avvenire”, Marco Tarquinio, al quale il funerale in questione deve essere piaciuto molto, moltissimo. Ma, anche se non gli fosse andato a genio, essendo tirato in causa un vescovo, non poteva esimersi dall’entrare nell’agone: tragicamente, avrebbe detto Fantozzi. Spazi compresi, il confronto tra Socci e il direttore del giornale dei vescovi si è risolto con un risultato di settemilaquattrocento battute a zero. E il tema del contendere non era robetta, era quello della vita eterna. Perché stava proprio qui il centro del ragionamento di Socci. Quando si dice settemilaquattrocento battute a zero, si vuole dire che l’editorialista di “Libero” ha trattato la questione del destino eterno in tutto il suo articolo mentre il direttore di “Avvenire”, pur tentando di rispondere, ha evitato persino di sfiorare l’argomento. Eppure, il tema sarebbe di quelli cruciali per i cattolici di ogni ordine e grado. “Ma i vescovi e i preti” chiedeva Socci “credono ancora alla vita eterna?”. Certo riesce difficile rispondere decisamente sì, se si pensa che uno dei momenti culminanti del funerale di Morosini è stata l’esecuzione di una canzone di Ligabue i cui versi recitano, tra l’altro: “quando questa merda intorno/ sempre merda resterà/ riconoscerai l’odore/ perché questa è la realtà”. A contorno, i soliti applausi, la solita emozione, la solita voglia di esserci, i soliti cartelli scritti per il morto ma esibiti in favore di telecamere.
Denunciando tutto questo come segno di una evidente crisi di fede, Socci ha commesso una grave imprudenza: ha criticato apertamente un vescovo, nella fattispecie quello di Bergamo, Francesco Beschi. Errore imperdonabile agli occhi del clericalismo contemporaneo, che tollera i peggiori insulti provenienti da atei agnostici e cosiddetti diversamente credenti, ma non le critiche dei cattolici che non intendono inchinarsi al mondo. Qui “Avvenire” ha risposto. Un dietrologo, conoscendo i tortuosi meccanismi del clericalismo e del clericalese, direbbe che le cose sono andate così. Un vescovo che si sente punto sul vivo pubblicamente chiama la Conferenza episcopale per sollecitare un intervento. La Conferenza episcopale chiama il direttore del giornale di sua proprietà e conferisce il mandato di agire. Il direttore del giornale, ricevuti gli ordini dell’azionista di riferimento, provvede a dare il fatto suo all’importuno di turno. Dunque, bisognava rispondere e, come la Gertrude del Manzoni, lo sventurato rispose. Tale ipotesi non deve essere troppo lontana dal vero poiché, nel suo componimento, il direttore di “Avvenire” non mette un solo argomento che ribatta alle questioni sollevate nell’articolo di “Libero”. Non c’è nemmeno la risposta alla domanda iniziale: “Ma i vescovi e i preti credono ancora alla vita eterna?”. Niente da fare. Al direttore di “Avvenire” interessava solo dire che “Avvenire” difende il vescovo di Bergamo. Il tutto opportunamente posizionato nella pagina delle lettere, con la scusa di rispondere al lettore Matteo Saccone, e mimetizzato sotto un titolo incolore, così che vedano solo quelli che devono vedere e intendano solo quelli che devono intendere.
Dunque, il lettore Matteo Saccone di Forlì trascina il direttore di “Avvenire” nell’agone e questi, visto che c’è, ne approfitta per mettere al suo posto il reo Socci dandogli sulla voce con certe perle che paiono uscite fresche fresche dagli istituti superiori di teologia di moda oggigiorno: ce n’è uno perfettamente funzionante anche a Bergamo. Per esempio, Tarquinio spiega che Morosini era “Uno che crede in Gesù Cristo, e che, magari, ama una canzone di Ligabue o dei Beatles tanto quanto una bella predica in chiesa (o una confessione) che tocca il cuore, mette in moto i pensieri e scomoda la vita”. Proprio così, il giornale dei vescovi italiani, per penna del suo direttore, adombra che una canzonetta valga quanto una confessione. E perché non quanto un editoriale? O una risposta nella pagina dei lettori?
Ma, se non bastasse, il direttore del giornale dei vescovi spiega anche che non bisogna andare tanto per il sottile, e che “un’eccezione alla regola’, fatta per puro amore e puro dolore non è uno scandalo”.
Avesse letto almeno di passata qualche scritto sulla liturgia di un certo Joseph Ratzinger, il direttore del giornale dei vescovi, forse, sarebbe stato più cauto.
Nell’Introduzione allo spirito della liturgia, il Pontefice felicemente regnante spiega proprio come le “eccezioni alla regole”, fatte per puro amore, e persino per pura fede, portano l’uomo ad adorare se stesso invece che Dio. “L’uomo” scrive Ratzinger “si serve di Dio secondo il proprio bisogno e così si pone in realtà al di sopra di lui (…): si tratta di un culto fatto di propria autorità. (…) Allora la liturgia diventa davvero un gioco vuoto. O, ancora peggio, un abbandono del Dio vivente camuffato sotto un manto di sacralità”.
Ma, se proprio si tiene alle “eccezioni alla regola”, il direttore di “Avvenire” dovrebbe aver l’onestà intellettuale di riconoscere che esistono “eccezioni” ed “eccezioni”. Perché lo scorso novembre il vescovo di Bergamo ha proibito che il funerale del padre di uno degli autori di questo articolo venisse celebrato con il rito romano antico, la scandalosa “Messa in latino”. Se non altro, ora è chiaro il criterio con cui vengono valutate le “eccezioni”: il “puro amore” e il “puro dolore”, che, evidentemente, nel caso del defunto che aveva chiesto il rito romano antico non erano evidenti. Mentre erano evidentissimi nel caso del funerale dello scalatore Mario Merelli, celebrato sempre nella diocesi retta da monsignor Beschi con tanto “Io vagabondo” dei Nomadi e di musiche nepalesi.
Se riesce difficile capire il teologo Joseph Ratzinger quando spiega che la liturgia non ammette eccezioni perché non è un diritto degli uomini, ma un diritto Dio, si cerchi almeno di comprendere che, rispettando le regole, si trattano con equità gli uomini. Non è molto, ma è già qualcosa.
Sul “caso Ligabue-nella-liturgia” mi trovo attaccato da Corriere (Melloni) e Avvenire (Tarquinio)… E sentite come…
di Antonio Socci, da Lo Straniero (25/04/2012)
Bach come Jovanotti? Ieri, sul Corriere della sera, il corsivista Alberto Melloni, campione di cattoprogressismo, per rispondere al mio articolo sui funerali di Morosini, stabiliva una sorprendente equivalenza, per la liturgia cattolica, fra le canzoni di Ligabue e la musica di Mozart.
Dunque cantare in chiesa, a un funerale, la Messa da Requiem di Mozart è la stessa cosa che schitarrare – come hanno fatto a Bergamo – le canzonette di Ligabue (con queste memorabili parole: “quando questa merda intorno/ sempre merda resterà/ riconoscerai l’odore/ perché questa è la realtà”).
Vorrei dire che, se Melloni detesta Mozart perché è amato da Ratzinger, provi a farsi spiegare la grandezza teologica del suo Agnus Dei da Karl Barth.
In ogni caso equiparare Mozart a Ligabue significa che manca o l’abc del giudizio culturale o il senso del ridicolo o la pietà. O forse tutti e tre.
Soprattutto manca la consapevolezza che la liturgia è la cosa più sacra della Chiesa e non se ne può disporre a piacimento, perché non è fatta da noi, non è il luogo delle nostre trovate, ma vi riaccade la passione e morte del Figlio di Dio.
Stabilito che in chiesa un corale di Bach non è la stessa cosa di una canzonetta di Vasco Rossi, c’è poi il capitolo della musica sacra della tradizione e delle moderne canzonette religiose.
Personalmente non ho pregiudizi, anche se la qualità dei testi e delle musiche va valutata. Ma quello che tracima dalla prosa di Melloni è soprattutto l’evidente disprezzo per la tradizione cattolica che lo induce a definire il gregoriano un “belare”.
E siccome Melloni sostiene che per avvicinarsi a Dio non c’è differenza fra “belare in gregoriano” e “quelle canzoni stile Pooh che riempiono le navate di tante parrocchie”, voglio informarlo che invece la Chiesa stabilisce una rigorosa gerarchia. In particolare definisce il gregoriano come il canto proprio della Chiesa (poi viene la polifonia).
Lo ha proclamato non in uno di quei Concili che i cattoprogressisti disprezzano, ma proprio in quel Concilio Vaticano II di cui Melloni si proclama esperto e si autonomina portabandiera.
Infatti nella Costituzione Sacrosantum Concilium afferma che “la tradizione musicale di tutta la chiesa costituisce un tesoro di inestimabile valore, che eccelle tra le altre espressioni dell’ arte, specialmente per il fatto che il canto sacro, unito alle parole, è parte necessaria ed integrale della liturgia solenne”.
Aggiunge: “Senza dubbio il canto sacro è stato lodato sia dalla sacra scrittura, sia dai padri e dai romani pontefici che recentemente, a cominciare da san Pio X, hanno sottolineato con insistenza il compito ministeriale della musica sacra nel servizio divino. Perciò la musica sacra sarà tanto più santa quanto più strettamente sarà unita all’azione liturgica”.
Il Concilio prescrive: “Si conservi e si incrementi con somma cura il patrimonio della musica sacra”.
E proclama: “La chiesa riconosce il canto gregoriano come proprio della liturgia romana: perciò, nelle azioni liturgiche, a parità di condizioni, gli si riservi il posto principale. Gli altri generi di musica sacra, e specialmente la polifonica, non si escludono affatto nella celebrazione dei divini uffici, purché rispondano allo spirito dell’ azione liturgica, a norma dell’ art. 30”.
Come si vede il Concilio Vaticano II è agli antipodi di chi boccia sprezzantemente il gregoriano come un “belare” e lo equipara all’inserimento nella liturgia sacra delle canzonette di Ligabue o di Vasco Rossi.
Si comprende così che pure i tanti arbitri perpetrati nella liturgia non discendono affatto dal Concilio ed è grave sbandierarlo a sproposito.
Già nel 1971 Ratzinger – che era stato un uomo del Concilio – denunciò la grande devastazione teologica che il progressismo stava perpetrando, per cui “anche a dei vescovi poteva sembrare ‘imperativo dell’attualità’ e ‘inesorabile linea di tendenza’, deridere i dogmi”.
Nel 1997, da prefetto dell’ex S. Uffizio, il cardinale Ratzinger scriverà: “sono convinto che la crisi ecclesiale in cui oggi ci troviamo, dipende in gran parte dal crollo della liturgia”.
Accanto ai tanti abusi che si sono perpetrate nella liturgia, col post-Concilio, Ratzinger ha sottolineato pure la decadenza della musica liturgica: “E’ divenuto sempre più percepibile il pauroso impoverimento che si manifesta dove si scaccia la bellezza… La Chiesa ha il dovere di essere anche ‘città della gloria’, luogo dove sono raccolte e portate all’orecchio di Dio le voci più profonde dell’umanità. La Chiesa non può appagarsi del solo ordinario, del solo usuale: deve ridestare la voce del Cosmo, glorificando il Creatore e svelando al Cosmo stesso la sua magnificenza, rendendolo bello, abitabile, umano”.
Poi, proprio Ratzinger, da Papa, ha cercato di riportare tutti alla retta dottrina anche riordinando la liturgia e ridando legittimità all’antico rito della Chiesa (che è il rito in cui si celebrava messa pure al Concilio Vaticano II).
Sorprendente è l’opposizione che tanti vescovi e preti hanno fatto a questo Motu proprio “Summorum pontificum”. Un caso clamoroso è scoppiato proprio nella stessa diocesi di Bergamo dove si è svolto il rito funebre di Piermario Morosini.
E’ stato denunciato dal collega Alessandro Gnocchi sul Foglio del 17 novembre scorso.
Era morto il padre dello stesso Alessandro e la famiglia aveva chiesto di celebrare le esequie secondo il rito gregoriano a cui aveva ridato pieno accesso il Motu proprio del papa. Ma il parroco, dopo aver preso istruzioni in Curia, ha risposto di no.
E’ la stessa Curia che poi lascia cantare le canzoni di Ligabue durante la Messa per Morosini, canzoni – ripeto – con questi testi: “quando questa merda intorno/ sempre merda resterà/ riconoscerai l’odore/ perché questa è la realtà”.
Così tutta la tolleranza liturgica che i progressisti alla Melloni sbandierano per chi si vuole cimentare con Ligabue in chiesa, non deve più valere per chi chiede semplicemente il rito cattolico autorizzato dal Papa?
La “pietà” di Melloni dov’era quando sui giornali è scoppiato questo caso?
Anche il direttore di Avvenire Marco Tarquinio domenica mi ha criticato, richiamandomi alla necessità di fare – nel caso di Morosini – “un’eccezione alla regola, per puro amore e puro dolore” visto che “senza l’amore siamo solo cembali che tintinnano”.
Ma non sono io che posso autorizzare tali “eccezioni”: Tarquinio chieda al Vaticano. Io, da parte mia, mi domando: perché il direttore di Avvenire non intervenne anche per difendere il diritto al rito gregoriano della famiglia Gnocchi, visto che in quel caso non si trattava neanche di “un’eccezione alla regola”, ma di rispettare la regola data dal Papa?
Perché Tarquinio non richiamò la Curia di Bergamo al dovere di carità nei confronti di quella famiglia e al dovere di obbedire al Papa?
Il direttore di Avvenire recentemente ha difeso con accanimento lo scrittore Enzo Bianchi dalle legittime critiche rivolte a lui da alcuni teologi cattolici: sarebbe auspicabile che con altrettanto zelo difendesse anche un Motu proprio così caratterizzante del pontificato di Benedetto XVI come il Summorum pontificum, da chi lo snobba.
Sottolineo infine che il cuore del mio articolo sulle esequie del calciatore non erano tanto le canzoni di Ligabue, quanto la mancanza da parte dei pastori di una parola cristiana sulla necessità della preghiera per i defunti e soprattutto sulla vita eterna.
E noto con tristezza che pure in tutto lo scritto del direttore di Avvenire (di 2887 battute) non c’è un solo richiamo a questo che è il cuore della dottrina cattolica.
Nemmeno nell’articoletto di Melloni, ma di questo non mi sorprendo.
Sconcerta però che i Novissimi (morte, giudizio, inferno e paradiso) siano scomparsi da gran parte della predicazione e della catechesi.
Certo, parlare dell’inferno non è “progressista”. Però è la più grande carità. E pregare per i defunti è la vera pietà.
Se alla Santa Messa si canta Ligabue: “quando questa merda intorno/ sempre merda resterà/ riconoscerai l’odore/ perché questa è la realtà”…
di Antonio Socci, da Lo Straniero (21/04/2012)
Ma i vescovi e i preti credono ancora alla vita eterna? Spero di sì, ma dovrebbero farcelo capire. Specie nei funerali, in particolare quelli di personaggi famosi.
Ho letto, per esempio, le cronache sul rito funebre del giovane calciatore Piermario Morosini che pure Avvenire ha messo in prima pagina con una grande foto notizia e questo titolo: “L’ultimo gol di Morosini. Folla ed emozione ai funerali a Bergamo”. Un altro sommario del giornale dei vescovi diceva: “Lacrime, canzoni e applausi. Commovente il ricordo del suo parroco”.
È sicuro Avvenire che non ci sia nulla de eccepire proprio su quelle canzoni e sul resto?
Scrivono i giornali che durante la santa liturgia – invece degli inni sacri che accompagnano un nostro fratello davanti al giudizio di Dio – sono state cantate le canzoni di Ligabue.
Dunque in chiesa, mentre davanti all’altare c’era la bara di quel povero giovane, con il dolore dei suoi cari, e si distribuiva la comunione, venivano schitarrate cose del genere: “quando questa merda intorno/ sempre merda resterà/ riconoscerai l’odore/ perché questa è la realtà”.
Parole di grande spiritualità? Di evidente connotazione cristiana? Altri “immortali capolavori” dello stornellatore emiliano eseguiti durante la liturgia, dicono le cronache, sono stati “Urlando contro il cielo” (che è tutto un programma) e “Non è tempo per noi” il cui messaggio è espresso da queste parole: “certi giorni ci chiediamo è tutti qui?/ E la risposta è sempre sì”.
Tutto questo è accaduto all’interno di un rito liturgico, ciò che la Chiesa ha di più sacro. E mentre l’attuale papa Benedetto XVI si erge (è un caposaldo del suo pontificato) in difesa della sacralità della liturgia, contro invenzioni e contro ogni tipo di abuso.
Ma i vescovi – che in buona parte hanno opposto un muro alla decisione del papa di ridare cittadinanza all’antico rito della Chiesa – non hanno poi nulla da eccepire di fronte a trovate simili nella liturgia.
Del resto non sconcerta solo la scelta canora, tanto più in presenza di un rito funebre. A suscitare interrogativi e perplessità sono anche le parole del parroco e quelle dello stesso vescovo di Bergamo.
Del parroco agenzie e giornali hanno riferito solo lo smisurato panegirico del defunto. Ieri un giornale online aveva addirittura questo sottotitolo: “Il parroco: ‘è stato l’immagine di Dio’ ”. Le testuali parole erano un po’ meno esagerate, ma non troppo: “In questi giorni Piermario è stata l’immagine più bella di Dio perché è stata creatura di pace”.
A dire il vero la Chiesa prescrive che le messe funebri non siano spettacoli e le omelie non siano elogi biografici del morto, ma una meditazione sull’estrema fragilità della vita, sulla necessità di convertirsi e un’esortazione a pregare per la salvezza dell’anima di quel fratello, perché tutti siamo peccatori e, davanti al giudizio di Dio, come poveri e umili mendicanti, abbiamo bisogno solo delle preghiere dei fratelli e della misericordia del Signore.
Non so se il parroco abbia accennato a queste cose, ben più importanti dell’apologia. Di fatto agenzie e giornali non ne hanno fatto menzione e, soprattutto, neanche il vescovo ha sentito il bisogno di richiamare quei fondamentali.
Il suo messaggio – perché quando ci sono i media è difficile che i prelati facciano mancare la loro voce – è stato anch’esso un panegirico (è riportato nel sito del giornale della diocesi).
Solo alla fine del lungo discorso, composto di 290 parole, ha fatto capolino una volta – e molto formalmente – un fugace accenno alla resurrezione (“vivere nella speranza della resurrezione” per “rendere migliore questo povero mondo”).
Da nessuna parte il prelato spiega che la vita sulla terra è fuggevole, che è una lotta per guadagnarsi la vita eterna, l’unica che vale, che il senso dell’esistenza terrena è questo.
Da nessuna parte ha ammonito sulla serietà delle nostre scelte di fronte alla possibilità della dannazione eterna o della beatitudine.
Da nessuna parte il vescovo ha ricordato a parenti e amici del giovane quella verità, così bella e confortante, proclamata dalla Chiesa nella liturgia, che recita: “ai tuoi fedeli, Signore, la vita non è tolta, ma trasformata”.
E’ questa verità che abbiamo bisogno di sentirci annunciare quando siamo sopraffatti dalla morte di una persona amata. Perché significa che abbiamo un’anima immortale e che rivedremo – dopo una breve pausa – coloro che amiamo e addirittura ci sarà restituito il nostro corpo, senza più limiti, lacrime e sofferenze.
Questa impareggiabile consolazione la Chiesa dovrebbe gridarla. Invece i pastori la tacciono.
Così come tacciono il fatto che i nostri cari, proprio perché continuano a esistere e sono davanti al giudizio di Dio e nella purificazione dei propri peccati, hanno bisogno delle nostre preghiere e sacrifici (per esempio hanno bisogno della pia pratica delle indulgenze).
E’ la bellezza della comunione dei santi. Infatti, dopo Cristo, la morte non è più un abisso di lontananza, ma la nostra unione rimane e possiamo continuare ad aiutarci. Dal cielo possono aiutare noi e noi possiamo aiutare loro.
Almeno di fronte alla morte vescovi e preti potrebbero dire una parola cristiana?
Pregare per le anime del purgatorio è addirittura una delle opere di misericordia spirituale (insieme a un’altra: “consolare gli afflitti”).
Forse la vera teologia della liberazione è proprio questa perché la preghiera di suffragio può davvero liberare delle creature, può donare la felicità totale e definitiva a chi ancora soffre in purgatorio.
Questa almeno è la dottrina della Chiesa e si desidererebbe sentirla annunciare e insegnare da vescovi e parroci. Che però, invece di parlare di Dio e della vita eterna, preferiscono spesso strologare delle cose del mondo.
E non secondo l’ottica della dottrina sociale cristiana. In genere vanno dietro alle mode del politically correct.
Quella stessa diocesi di Bergamo di cui si è detto, ad esempio, ha fondato un “Centro di etica ambientale” che di recente ha realizzato un corso per i giovani in cui è stato chiamato a pontificare, sull’educazione ambientale, con il climatologo Luca Mercalli, il cantante Roberto Vecchioni.
E, a riprova che nella Curia di Bergamo si frequentano più le canzonette che la teologia dei Novissimi, il presidente di quel Centro diocesano, don Francesco Poli, come riporta un articolo di Avvenire, ha testualmente affermato: “Immagina un mondo nuovo, cantavano i Beatles. Sono passati 40 anni e me lo ripeto ancora”.
Purtroppo pure sulla cultura canzonettistica questi ecclesiastici lasciano a desiderare, perché quella canzone non era cantata dai Beatles, ma fu scritta (ed eseguita) dopo il loro scioglimento da John Lennon.
E quel brano diventò l’inno del fricchettonismo planetario e del Lennon-pensiero, perché era un colossale sberleffo contro la religione.
Infatti cominciava così: “Imagine there’s no heaven”, cioè “immagina che non ci sia il paradiso”, e continuava “and no religion too”, cioè “e nessuna religione”.
Questo era il sogno celebrato da Lennon in quella canzone. Di certo non avrebbe immaginato di vederlo celebrare pure da curie ed ecclesiastici.
Il povero Piermario Morosini era ed è un caro ragazzo, buono e forte, che merita ben altro e sono grato alla silenziosa suora francescana che nei giorni scorsi, alla Porziuncola, ha lucrato per la sua anima l’indulgenza. Così da regalargli la felicità.
Questa è la pietà cristiana che la Chiesa insegna.