La deriva eterodossa ha portato i fedeli a non conoscere i Comandamenti e il Catechismo…
Continua a leggere “Se non si conosce la Dottrina autentica, si finisce con l’irridere Dio”Tag: eterodossia
Liturgia e traduzioni, il rovesciamento delle gerarchie
Il dibattito innestatosi sul motu proprio Magnum Principium, che delega molti poteri alle Conferenze episcopali riguardo a traduzione e adattamento dei testi liturgici, sta mettendo in evidenza come la questione abbia conseguenze che vanno ben oltre la liturgia. Lo spiega il noto liturgista monsignor Nicola Bux.
Continua a leggere “Liturgia e traduzioni, il rovesciamento delle gerarchie”
La ferula “equa e solidale” di papa Francesco. Riflessioni teologiche
Il Papa ha usato la nuova croce pastorale, opera dello scultore-orafo romano di Trastevere, Maurizio Lauri, dal titolo “Crux gloriosa”, ideata come ferula pontificia. (…) La nuova ferula pontificia è stata realizzata con materie prime “etiche” (legno di kaoba, bronzo ed argento) estratte con metodologie non invasive dell’ambiente e rispettose delle comunità locali, provenienti dall’Honduras e offerte dalla società Goldlake. (…) “La Crux gloriosa vuole testimoniare la vita che supera la morte, il corpo che infrange il limite, la barriera paurosa della fine”.
Un Teologo ha commentato:
«Da quello che leggo, lo scultore Lauri, artefice della nuova ferula papale, avrebbe dichiarato: “L’immagine del Cristo – che dalla croce secca e contorta, ormai svuotata di senso si divincola, lentamente si scioglie – è tensione verso la luce, liberazione di un’energia compressa, tentativo di volo; in verità l’atto del transumare, in un momento che la tradizione vuole tragico e umanissimo, anticipa la Risurrezione, esprime il dolore umano già sconfitto, superato, riscattato”.
Aveva detto cose esatte poco prima. Poi ha invalidato tutto. Alcune semplici osservazioni, con un linguaggio accessibile ad un numero vasto di lettori. Partiamo dal transumare!
Sono certo che si tratti di un refuso, o al limite di sfoggio di un parolone, perché nessuno in duemila anni ha dato della pecora a Nostro Signore.
Agnello sì, ma di ben altro genere di quelli ai quali possono applicarsi termini come transumare.
Pur ammettendo che volesse riferirsi ad un passaggio da una condizione all’altra, bisognerebbe ricordare che Gesù, vero uomo, non ha mai smesso di essere Dio. Egli è nel seno del Padre, come Figlio Unigenito.
Il fatto che la divinità si unisca alla natura umana, non determina il passaggio da uno stato all’altro, come il gregge da un pascolo all’altro, o un’emigrazione, bensì un’assunzione, libera e gratuita.
Ma forse è proprio la divinità di Cristo che andrebbe rinfrescata all’artista. Quale energia sarebbe compressa? La divinità non può essere compressa, e neppure può soffrire o morire.
Nel Vangelo cui fa riferimento il sig. Lauri, Gesù afferma con chiarezza che ha il potere di dare la vita e il potere di riprenderla. Se passiamo all’umanità, notiamo la stessa confusione.
Se la croce fosse svuotata di senso, Gesù avrebbe deposto, per così dire, le stimmate. Invece le ha portate nella gloria. Il corpo trasfigurato è il corpo che è stato crocifisso. E questo, proprio questo, riempie di significato perenne la Croce.
Tanto sul versante escatologico, giacché Lo vedranno coloro che Lo hanno trafitto, quanto su quello più personale. Infatti, non saprei cosa farmene di un amore che ha sofferto duemila anni fa e che non si confronta con la mia sofferenza.
Le piaghe di Cristo sono per me la certezza che il Suo amore raggiunge oggi, in questo momento, la mia sofferenza. Non solo quella Croce non è svuotata di senso, ma rende non vuota la mia personale croce.
Il tentativo di volo appartiene a quella demagogia che ormai riempie i nostri testi di meditazione.
Gesù è diventato spirito datore di vita, secondo la bella affermazione di Paolo, ma non c’è nessun passaggio dalla materia allo spirito nel senso gnostico dei termini. Il rapporto è tra il primo Adamo e il secondo Adamo. Questi, cioè Cristo, ha il potere di rendere la vita all’uomo in modo nuovo.
Gesù è Dio e non un uomo adottato da Dio. Perciò non ha bisogno di tentare il volo! Non è la tradizione che vuole tragico ed umanissimo l’atto del “transumare”.
È un dato di fatto! Ci ha amati così!
A questo riguardo S. Paolo avrebbe di che parlare con il sig. Lauri. Una bella chiacchierata sulla kenosis…
Sulla croce Gesù non ha anticipato la Risurrezione. Ha bevuto fino in fondo il calice. Il mistero del sepolcro, inteso nella sua pienezza teologica, ci attesta questa profonda discesa nel cuore della morte. Non solo non è sceso dalla croce, ma si è calato nelle profondità della morte. Nessuna anticipazione, sebbene il quarto Vangelo unisca nel concetto di “Ora di Gesù” i due elementi. Che andrebbero spiegati con altro linguaggio, e non con quello da fumetto. Perché i due elementi possono coesistere anche da un punto di vista rappresentativo.
Ma non sicuramente con le motivazioni offerte da questo valente artista. Al quale vogliamo riconoscere la possibilità di aver letto qualche testo in circolazione e di aver dedotto magari l’idea che Gesù sia qualcosa di indistinto tra l’umano e il divino, uno che vuole fuggire dalla croce, ma che anticipa la vittoria accettando qualcosa che, tutto sommato, nemmeno il Padre aveva previsto. Insomma, il giusto messo alla prova dall’ingiustizia umana. Tema caro ad un certo “profeta” che va per la maggiore.
Forse sarebbe opportuno che la catechesi fosse alla base anche di lavori offerti al Papa».
(A.C.)
© Blog Messa in latino
La moltiplicazione dei pani e dei pesci era solo condivisione?
La moltiplicazione dei pani e dei pesci era solo condivisione? E’ la domanda cui padre Fr. Ryan Erlenbush risponde negativamente da tutti i punti di vista: quello logico, quello esegetico e soprattutto quello teologico. La Chiesa non si regge né si alimenta da sola, come sarebbe se la moltiplicazione fosse solo condivisione e non un miracolo, ma è sempre sorretta ed alimentata dal nostro Salvatore Gesù Cristo. L’omelia è per la XVIII Domenica del Tempo Ordinario, con Matteo 14, 13-21, che tuttavia fa riferimento allo stesso episodio narrato dal Vangelo della VI Domenica dopo Pentecoste nel Messale del 1962 (Marco 8, 1-9).
Domenica 18 del Tempo Ordinario, Matteo 14:13-21
“Prese i cinque pani e due pesci, e alzando gli occhi al cielo, disse la benedizione, spezzò i pani e li diede ai discepoli, che a sua volta li diedero alle folle. Tutti mangiarono e furono saziati”.
È ben noto come gli interpreti modernisti e razionalisti della Scrittura Sacra tentino di volgere la moltiplicazione dei pani (anzi, dovremmo dire “moltiplicazioni”, dal momento che Gesù ha fatto questo più di una volta) da un miracolo in un’istanza di condivisione.
“Non era un miracolo”, ci dicono! ” O, meglio, il miracolo era che nostro Signore ha ottenuto che le persone condividessero” Ora, io non intendo far notare qui che tali “studiosi” hanno una scarsa conoscenza dei Vangeli – come l’evento è chiaramente connesso ad un miracolo, come la folla (secondo Giovanni) ha voluto fare di Gesù un re politico contando sul fatto che avrebbe potuto risolvere tutti i loro problemi materiali con la sua potenza, come il nostro Salvatore stesso ricorda agli Apostoli di aver alimentato le moltitudini con solo alcuni pani e pochi pesci (ricordate, era con loro sulla barca e disse loro di guardarsi dal lievito dei farisei).
Potrei fare tutto questo, molti hanno l’hanno fatto prima – è un processo necessario all’apologetica (la prima fase della teologia). Tuttavia, vorrei considerare la moltiplicazione secondo la scienza superiore della teologia vera e propria: Cosa significherebbe se questo fosse solo un caso di condivisione? E che cosa ci dice Cristo quando ha operato questo grande miracolo?
Se fosse solo la condivisione, al diavolo
Quando modernisti sostengono che questa è solo una storia di condivisione, ci dicono che Cristo ha solo dato i cinque pani (o i sette pani) e che vari individui nella folla hanno pensato al resto. L’idea sarebbe che, ispirati dall’esempio di Cristo (o, addirittura, dall’esempio del giovane che diede il nostro Salvatore il pane e pesce), alcune persone ignote che, nella moltitudine, avevano nascosto qualche porzione di cibo, avessero deciso quindi di condividere queste riserve con gli altri.
Non abbiamo bisogno di sottolineare quanto sia ridicolo il pensiero che la folla – che, ci viene detto, era quasi esausta e non aveva riserve – potesse essere più che saziata da una manciata di persone che avessero condiviso alcune piccole offerte di cibo. Piuttosto, dobbiamo considerare che teologia della manifestazione sarebbe, se la moltiplicazione fosse stata in realtà solo una condivisione.
Se il “miracolo” fosse stato solo il fatto che la gente aveva imparato a condividere, allora non sarebbe stato Cristo ad alimentare la folla, anzi, la folla si sarebbe alimentata da se’. La gente non avrebbe ricevuto il pane dalla mano di Cristo (e attraverso la mediazione degli Apostoli), ma avrebbe fornito il pane direttamente.
Il nostro Salvatore sarebbe stato solo una “causa morale” del loro essere alimentati, lui stesso non avrebbe dato loro da mangiare.
Ora, si consideri che questo evento ci dice veramente di come Cristo nutre e sostiene la sua Chiesa. Se la folla semplicemente condivise (e nutrì se stessa), che cosa vorrebbe dire per la Chiesa? Significherebbe che la Chiesa non si basa su Cristo (se non in quanto si tratta di un esempio morale da 2000 anni fa), ma provvede per se’ e guida se stessa.
La maggior parte degli interpreti modernisti sarebbe davvero deliziata da questa conclusione – hanno da tempo gettato via il giogo di Cristo e si sono piuttosto fatti schiavi del mondo e delle sue mode (preferendo le tenebre alla luce, e la schiavitù alla libertà).
Gli aspirante seguaci di Cristo che “nutrono se stessi” e “spartiscono tra di loro” sono coloro che fomentano contro la Chiesa e la sua tradizione, che si uniscono in gruppi che chiedono un cambiamento radicale (si pensi quelle bande empi che chiedono l’ordinazione delle donne e l’approvazione del “matrimonio” tra persone dello stesso sesso ). Questi, infatti, non ricevono il vero pane da Cristo nostro Dio, ma solo di condividere fra loro le loro misere “offerte”.
Il Salvatore pasce il suo gregge attraverso i suoi sacerdoti
Ma, se accettiamo che la moltiplicazione sia un miracolo, subito riconosciamo la teologia dietro le azioni: Cristo continua, nel corso dei secoli, ad alimentare miracolosamente ed a sostenere la sua Chiesa. Anche quando siamo nel deserto, quando la Chiesa sembra essere sul punto di crollare per la stanchezza, in particolare allora il Salvatore provvede per la sua Sposa.
In primo luogo, il “pane” è l’Eucaristia insieme agli altri sacramenti. E ‘anche l’illuminazione della gerarchia in materia di fede e di morale. Inoltre, possiamo ben dire che il “pane” sono i santi, che sono un faro per il mondo intero.
Per di più, ci accorgiamo che il nostro Signore non dà il pane alle folle immediatamente, ma dà il pane agli Apostoli e comanda loro di sfamare le folle. Il nostro Salvatore sostiene la sua Chiesa attraverso i suoi sacerdoti, e soprattutto attraverso il Papa e i Vescovi uniti con lui.
I fedeli nella Chiesa non sono abbandonati a sfamarsi da soli, ma Cristo continua a prendersi cura di tutti i suoi figli attraverso il ministero dei successori degli Apostoli.
Fr. Ryan Wayne Erlenbush è un sacerdote cattolico della diocesi di Great Falls – Billings nel Montana, USA. E ‘stato ordinato sacerdote il 23 giugno 2009. Ha completato i suoi studi in seminario presso il Collegio Nord Americano a Roma, ha ricevuto un STB presso la Pontificia Università Gregoriana e un MA e un STL dalla Pontificia Università San Tommaso d’Aquino (Angelicum), incentrato sulla teologia dogmatica.
Tratto da “The New Theological Movement”
Le ultime follie di Enzo Bianchi. Priore di che?
Volevamo scrivere una nota sulle ultime incredibili “sparate” di quell’ambiguo personaggio che è Enzo Bianchi, “priore” della discussa e discutibile “comunità di Bose”. Il Bianchi, su La Stampa del 16 dicembre, parlando dei monaci tibetani che si sono dati fuoco per protestare contro l’occupazione cinese del loro Paese, si è lanciato in una lirica apologia del suicidio.
È legittimo parlare di corruzione degli animi e di tradimento delle più elementari basi della morale cristiana.
Abbiamo però trovato una voce ben più autorevole della nostra, che consigliamo agli amici lettori: Cristina Siccardi, sul sito Bose Curiose, approfondisce, con la consueta chiarezza e con solidi argomenti, l’ennesima esibizione mediatica del singolare “priore”.
Vi invitiamo perciò, cliccando sul titolo, alla lettura di
BIANCHI E IL SUICIDIO DEL MONACO TIBETANO – di Cristina Siccardi
e consigliamo vivamente di visitare il Sito Bose Curiose, su cui scrivono sette valorosi scrittori, che forniscono un po’ di luce su un fenomeno che ha non poco del tenebroso. (PD)
Il peccato originale secondo il cardinal Ravasi
di P. Giovanni Cavalcoli, OP
Il Card. Gianfranco Ravasi è oggi uno dei membri più in vista del Sacro Collegio, uomo di vasta cultura, brillante scrittore ed oratore, particolarmente impegnato, come sappiamo, nel dialogo con non-cattolici, non-cristiani e non credenti, sensibile ai temi di fondo della ragione e della fede, temperamento di poeta che però non dimentica le esigenze del rigore scientifico che si addice alla teologia.
Di recente ha pubblicato per i tipi della Mondadori un libro dal titolo Guida ai naviganti. Le risposte della fede: una guida, scritta con stile sciolto e avvincente, per affrontare con serietà le questioni più profonde dell’esistenza e della vita. Viene un po’ in mente la famosa Guida dei perplessi del grande filosofo ebreo medioevale Mosè Maimonide, ammirato da S. Tommaso d’Aquino.
Non intendo qui fare un recensione del libro. Voglio solo fermarmi su di un punto dottrinale di capitale importanza trattato dall’illustre e dinamico Porporato: la questione del racconto biblico della creazione dell’uomo e del peccato originale.
Devo dire con tutta franchezza che grande è stata la mia sorpresa, sia detto ciò con tutto il rispetto dovuto a un Principe della Chiesa, quando ho letto, a proposito di questo famosissimo racconto, che esso “è un’apparente narrazione storica, con eventi e una trama, che hanno però un valore simbolico, filosofico-teologico, quindi ‘sapienziale’ ed esistenziale” (p.45).
Si tratterebbe, come dice anche Karl Rahner, di un’“eziologia metastorica”, ossia di un genere letterario antico, che per mezzo del racconto di un mito riferito al passato, intende istruirci su di una condizione dell’uomo che riguarda il presente, anzi una condizione “metastorica”, quindi qualcosa che riguarda l’uomo come tale, indipendentemente dai tempi e dal corso della storia. Insomma, un modo di far filosofia ricorrendo alla narrazione, anziché a concetti speculativi.
Lo scritto del Cardinale prosegue poi sullo stesso tono: “lo scopo” (del racconto biblico) “non è tanto quello di spiegare cosa sia successo alle origini, ma di individuare chi è l’uomo nel contesto della creazione: è, allora, una ‘metastoria’, ossia è il filo costante sotteso a eventi, tempi e vicende storiche umane. Si risale all’archetipo … non per narrare cosa sia accaduto nel processo di ominizzazione in senso scientifico o per scoprire gli atti di un singolo individuo primordiale, ma per identificare nella sua radice iniziale lo statuto permanente di ogni creatura umana” (ibid.).
Sono rimasto molto sorpreso davanti a simili affermazioni, anche se so che oggi sono condivise da molti. Ma, come sappiamo, la verità di fede non dipende dal consenso della maggioranza, ma dalla retta interpretazione della Parola di Dio che ci è garantita dal Magistero della Chiesa.
Che il racconto genesiaco faccia riferimento a una condizione dell’uomo che copre tutto il corso della storia, non c’è alcun dubbio, come pure non c’è dubbio che alcuni elementi sono evidentemente ingenuamente mitologici, come c’è da aspettarsi da una cultura primitiva come quella dell’agiografo. Ma la Chiesa ha sempre insegnato che in questa congerie di fatti, di immagini, di quadri e di elementi occorre saper discernere con somma saggezza, sotto la guida dello stesso Magistero, ciò che è mitico da ciò che è storico, ciò che è inventato da ciò che è realmente accaduto, ciò che è simbolico da ciò che va preso alla lettera.
Ora non è difficile venire a sapere, per chi voglia informarsi, che il suddetto racconto, nella sua sostanza, non è per nulla un mito inventato per spiegare una situazione attuale, benché di fatto il racconto spieghi ottimamente tale situazione; ma, come dice lo stesso Catechismo della Chiesa Cattolica, erede di una millenaria tradizione dogmatica, “il racconto della caduta (Gn 3) … espone un avvenimento primordiale, un fatto che è accaduto all’inizio della storia dell’uomo” (n.390) (in corsivo nel testo, quasi a sottolineare l’importanza dell’affermazione), ossia un fatto che è oggetto della divina Rivelazione, quindi, come tale, verità di fede indispensabile per la salvezza.
Inoltre il Catechismo, a più riprese, nei parr. 6 e 7 del cap. I, in perfetta linea con la Tradizione e la Scrittura, fonti della Rivelazione che ci è mediata dalla Chiesa, soprattutto a partire dal Concilio di Trento sino allo stesso Concilio Vaticano II, ricorda come l’umanità ha avuto inizio da una coppia, – Pio XII nella Humani Generis respinge il poligenismo – la quale, caduta nel peccato per istigazione del demonio, ha trasmesso questa colpa – la colpa originale – a tutta l’umanità per via di generazione, colpa dalla quale siamo liberati dalla grazia del Battesimo.
Dunque netta distinzione fra il peccato personale – il “peccato” nel senso corrente della parola – la cui colpa resta nel colpevole, e il peccato originale, la cui colpa è trasmessa ai discendenti. Il peccato dei progenitori è stato un peccato personale, ma nel contempo ha avuto il carattere di una colpa che si è trasmessa ai discendenti: peccato originale (originante).
Indubbiamente la Bibbia non è un trattato di paleoantropologia, per cui da essa non possiamo attenderci alcuna informazione su quella che è stata l’evoluzione dell’uomo dalle origini ad oggi e neppure c’è l’ombra di una derivazione dell’uomo dalla scimmia. Anzi, il quadro della coppia edenica, nobilissima, sapientissima, bellissima, sanissima, immortale, perfetta nella virtù, signora del creato, felice, in comunione con Dio, ci fa pensare che fosse stata dotata da Dio di un corpo nobilissimo, ben superiore a quello della scimmia, benché Pio XII nella medesima Humani Generis non escluda l’ipotesi che quanto al corpo i progenitori possano essere provenuti da un vivente precedente inferiore (ex iam exsistenti ac viventi materia, Denz. 3896), salva restando la verità di fede che comunque l’anima spirituale dev’essere considerata come immediatamente creata da Dio, con buona pace di Vito Mancuso.
Invece nell’interpretazione del Card. Ravasi il peccato sembra essere spiegato semplicemente col libero arbitrio dell’uomo capace di operare il bene come il male, ma sembra totalmente assente la vera condizione di miseria nella quale ognuno viene al mondo, ossia quello stato di colpa, che si chiama colpa originale o peccato originale originato, derivante per generazione dai nostri progenitori.
Nella visione del Cardinale resta quindi inspiegata l’esistenza delle pene della vita presente nelle loro molteplici e tragiche forme, e l’innata, a volte irresistibile, tendenza al peccato esistente in ognuno di noi, anche i più buoni, tendenza dalla quale, come insegna la nostra fede, sono stati esentati solo Gesù Cristo e la Beata Vergine Maria, il primo in quanto Figlio di Dio, la seconda in quanto preservata, come è ben noto, per specialissimo privilegio, dalla macchia della colpa originale. Se tutti nasciamo buoni, dove va a finire il privilegio di Cristo e della Madonna? Se tutti siamo originariamente, necessariamente, sempre e inevitabilmente in grazia, dove va a finire il privilegio di Maria? E che ne è del peccato come assenza o perdita della grazia?
Invece la Scrittura è chiarissima nel raccontare come il peccato dei progenitori li ha esclusi dal paradiso terrestre privandoli di quei preziosi beni che possedevano nello stato d’innocenza e nel farci comprendere come la serie infinita di pene che da allora affligge l’umanità sia causata, nella sua prima radice, dall’avverarsi di quel castigo che Dio aveva minacciato ai progenitori e alla loro progenie nel caso avessero disobbedito al comando divino di non “mangiare dell’albero del bene e del male”.
È chiaro che tantissimi mali sono poi causati dai peccati personali dei singoli, eventualmente ancora sotto l’istigazione di Satana, ma anche questi peccati sono resi possibili dal fatto storico del peccato originale dei nostri progenitori all’origine della storia dell’uomo. “La morte – come dice S. Paolo – è entrata nel mondo a causa del peccato”.
Nella concezione di Ravasi sembra invece che ognuno di noi sia creato naturalmente buono ed innocente, come nella concezione di Jean-Jacques Rousseau, e che possa corrompersi soltanto per una sua volontaria malizia o per l’influsso negativo della società. Ma allora a questo punto ci si chiede: a che serve la grazia cristiana della remissione dei peccati, a che serve il Battesimo, se ognuno di noi ha in sé la forza e la possibilità di osservare la legge divina e di conseguire la virtù, purché lo voglia?
O forse che ognuno possiede la grazia sin dalla nascita senza mai perderla, come crede Rahner? O forse la grazia è Dio, sicché l’uomo in grazia in fin dei conti è Dio? Oppure l’uomo, essere sostanzialmente divino, come insegna la filosofia indiana, prende coscienza di tale sua divinità al termine di un opportuno cammino sapienziale di autopurificazione (yoga)? Dove egli allora si distingue da Gesù Cristo? Forse che egli diventa identico a Cristo, come pensava appunto Meister Eckhart che concepiva così la vita di grazia?
Bisogna dire con tutta franchezza che questa concezione è in contrasto con la visione cristiana e combacia invece con le concezioni razionalistiche o naturalistiche o gnostiche, come per esempio la massoneria, il laicismo, il liberalismo, l’idealismo, l’esoterismo, il marxismo o il positivismo, dove il problema del male non è risolto per un intervento sanante della grazia di un Dio trascendente, ma per il fatto che l’uomo o è un essere originariamente divino o per il semplice moto dialettico della ragione o per la forza della volontà o le risorse della scienza, della tecnica e della politica.
Ma se l’uomo nasce già buono e volto verso Dio e il peccato è un semplice incidente di percorso o è sempre e comunque perdonato o può convivere benissimo con la grazia o è il polo dialettico della dinamica della storia, a che la predicazione del Vangelo? A che l’esortazione alla penitenza e alla conversione? Che senso ha la Redenzione di Cristo? E la preghiera? E la Chiesa? E i sacramenti? E come e perché raggiungere la resurrezione e la vita eterna? Che cosa diventa la santità? Non è sufficiente per ogni evenienza il “dialogo” e la buona volontà?
Da qui vediamo che la negazione o la deformazione o la decurtazione della dottrina cattolica della creazione della coppia primitiva e la dottrina del peccato originale, crea un processo a catena di negazioni, per le quali alla fine del cristianesimo non resta più nulla se non un’illusoria autodivinizzazione dell’uomo o un vago umanesimo, utopistico, relativista ed incapace di condurre gli uomini alla giustizia ed alla felicità.
Bianchi, maestro di doppiezza
di Riccardo Cascioli (18-12-2012)
«Uccidersi per protesta a volte è giusto». Così titolava domenica 16 dicembre La Stampa un lungo articolo a firma di Enzo Bianchi, priore della Comunità di Bose, dedicato al fenomeno delle autoimmolazioni di giovani tibetani per protesta contro l’oppressione del regime cinese. La sintesi operata nel titolo rende pienamente ragione del contenuto dell’articolo che, anzi, in diversi punti ha affermazioni ancora più gravi. Per Bianchi infatti, il monaco tibetano che si dà fuoco è un «martire» che «compie un’offerta libera e totale per la salvezza di tutti: non mira unicamente alla propria rinascita, ma al rinnovamento del mondo». «Vale la pena – diceva ancora Bianchi – di lasciarci interrogare da questi monaci disposti a consumare la propria vita tra le fiamme come incenso», ricordando che i monaci suicidi «con la loro vita e la loro morte vogliono affermare la grandezza di una religione e di una cultura che non accetta di piegarsi al male».
Parole pesanti, scritte con la solita arte della doppiezza di cui Bianchi è maestro, ovvero lasciando intendere un messaggio eterodosso ma stando sempre attento a non fare affermazioni che confermino l’impressione. Così ad esempio fa un ritratto dei monaci suicidi che ricorda chiaramente il sacrificio di Gesù, ma negando che voglia «tracciare un parallelo con il servo sofferente di cui parla il libro di Isaia, con l’atteggiamento di Gesù di fronte ai suoi persecutori o con i martiri cristiani».
Ieri, sempre dalle colonne de La Stampa, intervistati da Andrea Tornielli, hanno replicato a Bianchi sia il cardinale Renato Raffaele Martino, già presidente del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace e Osservatore permanente alle Nazioni Unite, che Vittorio Messori. Martino ha spiegato che «per noi cristiani è inconcepibile il suicidio. Anche se questo darsi la morte può avere fini nobili. Il Catechismo della Chiesa cattolica insegna che il suicidio contraddice la naturale inclinazione dell’essere umano a conservare la propria vita ed è contrario all’amore del Dio vivente. Se è commesso per servire da esempio (cosa sostenuta da Bianchi per dare ancora più valore al gesto, ndr), si carica anche della gravità dello scandalo». Questo dovrebbe almeno chiarire ai cattolici così infatuati del buddhismo al punto da presentarlo – come lascia intendere Bianchi – come la realizzazione del cristianesimo, che si tratta in realtà di un pensiero e di una pratica antitetica a quella cattolica.
Peraltro, pur con tutta la solidarietà che si può dare al popolo tibetano per le sofferenze inflittegli dal regime comunista cinese, è giusto ricordare – come fa Messori – «che fino al 1950 (anno dell’annessione da parte della Cina, ndr) il Tibet era la più dura delle teocrazie sacrali. Il Dalai Lama aveva i suoi feudatari, che erano i lama: possedevano tutta la terra, avevano potere di vita e di morte. Ogni famiglia era obbligata a mandare almeno un figlio in monastero, con conseguenze a dir poco spiacevoli in caso di disobbedienza. Insomma, il Tibet prima del dominio cinese non era certo un modello per i diritti umani». Il che dovrebbe anche chiarire che l’indipendenza dalla Cina che giustamente il Tibet rivendica, non ha molto a che vedere con la libertà come la intendiamo in Occidente.
Ma l’uscita di Enzo Bianchi sui monaci tibetani non è un episodio isolato che si possa attribuire magari a una errata comprensione del mondo buddhista. In realtà la passione del priore di Bose per i suicidi – che lui definisce martiri – è decisamente antica: 7 maggio 1998, in Pakistan il vescovo cattolico di Faisalabad, John Joseph, si spara un colpo di pistola alla testa davanti al Tribunale della sua città. Motivo: la condanna a morte di un laico della sua diocesi in applicazione della famigerata Legge sulla blasfemia. Per l’episcopato pachistano e per la Santa Sede è una situazione imbarazzante, un fatto senza precedenti, all’inizio si pensa – e si spera – che sia un omicidio mascherato, poi la realtà non lascia scampo: si è proprio suicidato.
L’Osservatore Romano esprime questo imbarazzo dedicando solo un breve necrologio al vescovo, ma sulla prima pagina di Avvenire campeggia un commento di Enzo Bianchi che saluta il nuovo martire e definisce il tragico evento come «una modalità rarissima nel martirio cristiano».
Dunque, siamo di fronte a una vera e propria affermazione estranea alla dottrina cattolica, che viene spacciata da Bianchi per suprema testimonianza di fede. La questione è che Enzo Bianchi – come del resto già La Bussola Quotidiana ha documentato – continua a portare confusione tra i cattolici, peraltro con l’avallo di numerosi vescovi che lo invitano adoranti nelle loro diocesi a tenere conferenze ed esercizi spirituali. E con il silenzio di chi, in materia di dottrina, dovrebbe pur dire una parola chiara. Bianchi, in fondo, può anche dire quello che vuole, ma se poi tanti cattolici si perdono seguendolo buona parte della responsabilità ce l’ha chi nella Chiesa non esercita l’autorità per indicare la strada giusta.
È in libreria un nuovo volume del Cardinale Giacomo Biffi: “Pecore e Pastori, Riflessioni sul gregge di Cristo”, per le edizioni Cantagalli. 27.11.2008
Dal volume “Pecore e Pastori” del Card. Biffi, vi proponiamo un brano, letto per noi da Cristina Accarisi.