In questo tempo di crisi, cerchiamo di capire cosa non può e cosa può cambiare di un dogma.
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La fraternità cristiana non è la massoneria
Nell’ultima enciclica di Francesco è palpabile il relativismo religioso. Si ripropone un tentativo di unificazione, da cui come tale è nata anche la Framassoneria e che richiama una Onu delle religioni. In realtà, la fratellanza umana è un evento dello Spirito Santo che accade solo grazie alla conversione a Cristo, “primogenito tra molti fratelli” (Rm 8,29). Solo la fratellanza con Lui genera, come già spiegava Ratzinger, fraternità cristiana.
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Può porsi il caso di un papa eretico? La domanda, tutt’altro che peregrina o accademica, è divenuta oggetto degli studi storico-giuridici del prof. Valerio Gigliotti, docente di Storia del Diritto Medioevale e Moderno presso l’Università di Torino. Secondo lui, l’ipotesi di un papa eretico, benché traumatica, è dichiarata possibile dalla maggior parte dei canonisti, anche perché, come ricordava recentemente Benedetto XVI, «il Papa non può fare quello che vuole»: anche lui dev’essere sottomesso, come tutti i battezzati, alla legge di Dio.
Il card. Napier: “Scuse ai gay? Dio ci salvi dal politicamente corretto!”
Il tweet del cardinale Napier ha fatto il giro della rete.
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Un papa eretico: e se non fosse solo un’ipotesi teologica?
Le Edizioni Solfanelli offrono al lettore italiano la traduzione integrale del saggio di Arnaldo da Silveira intitolato Ipotesi teologica di un papa eretico.
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Onorio I: il caso controverso di un papa eretico
Al centro del pontificato di Onorio I vi fu la questione del monotelismo, l’ultima delle grandi eresie cristologiche.
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Papa Onorio I favorì l’eresia
La lezione da trarne nei nostri tristissimi tempi.
La misericordia secondo il cardinale Kasper
L’autore è frate francescano dell’Immacolata, è docente di teologia dogmatica e ha diretto dal 2006 la rivista teologica “Fides Catholica”.
di Padre Serafino Maria Lanzetta
È da salutare con grande interesse lo sforzo teologico del cardinale Walter Kasper di rimettere il tema della misericordia di Dio non solo al centro della predicazione e della pastorale della Chiesa, ma soprattutto al centro della riflessione teologica. Nel suo recente libro sulla misericordia, apparso in tedesco nel 2012 e poi tradotto in italiano per i tipi della Queriniana (Giornale di Teologia 361) nel 2013, Misericordia. Concetto fondamentale del vangelo – Chiave della vita, il cardinale tedesco, per lunghi anni presidente del Pontificio Consiglio per l’Unità dei Cristiani, parte da un’amara constatazione: la misericordia, la quale occupa un posto centrale nella Bibbia, è difatti caduta completamente in oblio nella teologia sistematica, trattata solo in modo accessorio. O non occupa un posto centrale nei manuali di teologia sistematica fino alle soglie degli anni 1960, o addirittura manca del tutto in quelli recenti. Se vi compare, occupa un posto del tutto marginale. Nonostante che il pontificato di Giovanni Paolo II avesse dato un grande impulso alla riscoperta della misericordia, come tema teologico e spirituale, grazie soprattutto alla santa polacca Faustina Kowalska, e che Benedetto XVI ne avesse fatto, in un certo modo, la sua direttrice, con la prima enciclica sull’amore, Deus caritas est, il tema rimane ancora nascosto nel suo potenziale sviluppo per la teologia e quindi per la vita cristiana. Il nostro cardinale, dunque, in questo suo testo, di cui ci occuperemo (5a ed. it. del 2014), raccoglie questa sollecitazione, e presenta a livello sistematico il tema della misericordia di Dio.
Una giustizia che si ritrae nella misericordia?
La misericordia è una medicina indispensabile, è l’ingrediente che purtroppo manca, ma che a ben guardare rappresenta l’unica vera risposta agli ateismi e alle ideologie così perniciose del XX secolo. Come annunciare di nuovo un Dio, di cui, dopo Auschwitz, faremmo solo meglio a tacerne l’esistenza? Storicamente, a giudizio di Kasper, suffragato da O.H. Pesch, “l’idea di un Dio castigatore e vendicativo ha gettato molti nell’angoscia a proposito della loro salvezza eterna. Il caso più noto e foriero di gravi conseguenze per la storia della chiesa è il giovane Martin Lutero, che fu per lungo tempo tormentato dalla domanda: ‘Come posso trovare un Dio benigno’, finché egli un giorno riconobbe che, nel senso della Bibbia, la giustizia di Dio non è la sua giustizia punitiva, ma la sua giustizia giustificante e, quindi, la sua misericordia. Su di ciò, nel XVI secolo la Chiesa si divise” (p. 25), e così da quel momento, il rapporto giustizia e misericordia divenne una questione centrale della teologia occidentale.
Il nostro cardinale preferisce non entrare nel tema della giustificazione secondo Lutero, solo la loda (come farà poi anche alle pp. 121.137), anche se ci sarebbero molte cose da dire, una tra tutte: la misericordia giustificante è vista dal riformatore tedesco non come perdono ontologico, come integra riconciliazione dell’uomo con Dio, nella verità e nella giustizia, ma come un essere semplicemente rivestiti dei meriti di Cristo (non dell’uomo), quindi in un intrinseco rimanere peccatori seppur dichiarati giusti. Questa è misericordia di Dio? Dove l’uomo rimane inficiato non solo del vulnus della concupiscenza, ma dalla stessa sporcizia del peccato, pur essendo giusto? Giusti nei peccati? Su questo il card. Kasper si mostra benevolo sorvolando, riferendosi solo allo sforzo immane fatto da ambo le parti, quella cattolica e quella luterana, di trovare un consenso fondamentale sulla dottrina della giustificazione con la Dichiarazione ufficiale comune sulla dottrina della giustificazione, del 31 ottobre 1999, che vedeva attori la Federazione Luterana Mondiale e la Chiesa Cattolica, rappresentata dal Pontificio Consiglio per l’Unità dei Cristiani, presieduto dal nostro cardinale (cf. p. 26). A questa Dichiarazione, seguita alla Dichiarazione congiunta del 1997, era stato necessario premettere, nel 1998, una Risposta ufficiale cattolica (elaborata di comune intesa tra la CDF e il PCUC, ma firmata solo da quest’ultimo), rimanendovi comunque una visione protestante non conciliabile con quella cattolica, nel tentativo ecumenico di non considerare più le condanne di Trento come divisive per le chiese.
In ogni caso Kasper è cosciente, nel suo libro, di un assunto: dobbiamo tirar fuori la misericordia “dalla sua esistenza di cenerentola, in cui essa era caduta nella teologia tradizionale” (p. 26). Certamente misericordia non è una visione sdolcinata di Dio, di un Dio possibilista verso i desideri dell’uomo, accondiscendente, buonista, ma è una vera sfida, non solo teologica, ma anche sociale e politica se vogliamo. Dalla vera misericordia deriva un’immagine di Dio come risposta adeguata all’ideologia ancora in voga, tanto quella marxista quanto quella capitalista.
Il card. Kasper è ben attento nel denunciare tutti i rischi che si nascondono negli accenti quasi ossessivi alla misericordia, ma a volte contro la verità. Un mondo che ha rinunciato a Dio e alla ragione, non può che accontentarsi di buoni sentimenti. Scrive, ad esempio: “La misericordia senza la verità sarebbe priva di onestà; sarebbe semplice consolazione, in definitiva un chiacchierare a vuoto. Viceversa, però, la verità senza misericordia sarebbe fredda, scostante e pronta a ferire” (p. 241).
Fine primario del libro di Kasper sulla misericordia, comunque, rimane un ridare assetto sistematico alla grande assente nel dibattito e nella speculazione teologici, provocando una coscientizzazione più ampia. Il nostro autore offre, così, dopo aver esaminato attentamente il messaggio della misericordia nell’A.T. e nella predicazione di Gesù, importanti riflessioni per un quadro speculativo generale sulla misericordia. Vogliamo occuparci più a lungo proprio di questo, perché a giudizio di chi scrive, in questo quadro sistematico, si insinua qualcosa che potrebbe sconvolgere l’insieme: facilmente esagerando i tratti misericordiosi di Dio, quando non addirittura spingendoli molto a ribasso. Esaminiamo quest’opera per gradi.
Beati i poveri in spirito
C’è una novità quasi radicale di Cristo rispetto al messaggio dell’A.T., commenta Kasper, consistente nel fatto che Gesù, “predica la misericordia definitiva per tutti. No solo a pochi giusti, ma a tutti egli dischiude la via di accesso a Dio… Dio ha messo definitivamente a tacere la propria ira e ha fatto spazio al suo amore e alla sua misericordia” (p. 103). Questa drastica separazione con l’Antica Alleanza, dove sembra, così dicendo, che non ci sia posto per la compassione e l’amore, non appare ben supportata. Basti pensare ai Salmi che lodano l’amore misericordioso del Padre per noi (cf. Sal 117, oltre a quelli che cita anche il nostro autore, convinto che dall’Esodo fino ai Salmi Dio è misericordioso e pietoso, cf. p. 93). La misericordia, in fondo, deriva dallo stesso atto creativo di Dio, che suscita in Lui approvazione e gioia (cf Gen 1,4.10.12.18). Dio non disprezza ciò che ha fatto, non rinnega l’opera delle sue mani.
Ma ciò che preme sottolineare al cardinale, nell’accento misericordioso del N.T., è piuttosto questo passaggio, in verità molto oscuro: “Suoi destinatari (di Gesù) erano in modo particolare i peccatori; essi sono i poveri in spirito” (p. 103). E questo, sembrerebbe, per il fatto che Gesù è amico dei pubblicani e dei peccatori (cf. p. 104). I peccatori sono i poveri in spirito? Quindi, chi commette i peccati è beato perché ha perso qualcosa nello spirito? Si vede a quali conclusioni potrebbe portare una tale considerazione, quando non a veri errori, che difatti sono già noti in tante predicazioni e infatuazioni misericordiose. La povertà di spirito non è una mancanza materiale di qualcosa (della grazia di Dio?), ma è una condizione interiore, un atteggiamento dell’intelligenza e del cuore, semplici, penitenti e umili, che si pongono davanti a Dio, senza mezzi umani, in ascolto della sua Parola (cf. Mt 5,3 alla luce del Sal 69,33ss.).
Su questo punto, invece, ha le idee molto chiare un importante teologo protestante, Heinz Zahrnt, il quale dice così, commentando il ministero pubblico del Signore: “I peccatori non sono scusati e la malattia non viene idealizzata. Gesù è un amico dei peccatori, non il loro compagno… Certamente il ritorno del peccatore rimane indispensabile, ma non è la condizione, è piuttosto la conseguenza del dono grazioso di Dio” (Jesus aus Nazareth. Ein Leben, Monaco 1987, p. 109). I poveri di spirito sono coloro che si convertono, non i peccatori che rimangono tali.
La misericordia specchio della Trinità?
Kasper rifiuta la visione metafisica classica e fa sua invece la critica di Kant, ben espressa poi in quel “Che cosa possiamo sperare?”. Cioè, la nostra intelligenza è limitata, non può superare il campo del visibile e dell’esperienza umana. Ciò che va oltre non è dato di conoscere, ma è relegato alla speranza, la quale rappresenta un mero postulato (cf. pp. 190-191). Questo anche per Kasper. Infatti, scrive: “Non è possibile superare la critica di Kant ai tentativi di una teodicea; tutti questi tentativi vanno considerati come falliti” (p. 191). Ma ci si pone, almeno qualche volta, il problema che una speranza come semplice presupposizione, ma infatti fondata sul dubbio, è già disperazione?
La teodicea, legata a una visione essenzialista di Dio, che, tra l’altro, escludeva dagli attributi dell’Essere divino la misericordia, riconducendoli invece, solo ad attributi (forti) come l’onnipotenza, la giustizia, l’infinità, ecc., lascerebbe il posto, nella S. Scrittura, a una forma più esistenziale dell’”Ego sum qui sum” (Es 3,14): non Io sono l’Essere, ma Io sono sempre con voi e per voi (cf. p. 129). Però, se la metafisica ha escluso la misericordia tra gli attributi essenziali di Dio (cf. p. 23), perché essa ci è rivelata da Dio nella sua automanifestazione storica a partire dalla Sacra Scrittura – gli attributi metafisici di Dio riguardano ciò che la ragione può cogliere come universale e senza necessità di una rivelazione soprannaturale –, Kasper in realtà si ingegna a voler collocare proprio la misericordia nella stessa essenza di Dio, come proprietà fondamentale di Dio; di più, al dire del nostro, come “specchio della Trinità” (p. 140). Questo, infatti, gli consente di dover guardare ormai e per sempre alla giustizia dalla misericordia: “Se la misericordia è la proprietà fondamentale di Dio, allora essa non può essere un’attenuazione della giustizia, ma bisogna piuttosto concepire la giustizia di Dio partendo dalla sua misericordia. La misericordia è allora la giustizia specifica di Dio” (p. 137).
È qui percepibile lo sforzo ecumenico del nostro autore, in un discorso in cui la visione di Lutero sembra costituire lo sfondo grazioso, ma, in ogni caso, ciò che stride è il tentativo di assorbire la giustizia nella misericordia. In teologia la misericordia è qualificabile come dono, una grazia, non un’esigenza, come invece lo è la giustizia, anche se naturalmente contempla anche l’aristotelica epicheia. La misericordia perfeziona e compie la giustizia ma non l’annulla; la presuppone, altrimenti non avrebbe in sé ragion d’essere. E questo anche perché le proprietà o attributi divini, a livello razionale, sono deducibili da ciò che la ragione è capace di esprimere su Dio. S. Tommaso dice: “La misericordia va attribuita a Dio in modo principalissimo (maxime attribuenda); non per quanto ha di sentimento o passione, ma per gli effetti (che produce)” (S. Th., I, q. 21, a. 3).
Anche se Kant dice di no, la ragione rimane comunque aperta alla realtà come tale, alle cose che sono in quanto sono, alle cose che esistono. Se Dio esiste (come lo sa questo Kasper? Solo dalla fede? Dalla speranza?) la ragione è aperta a tutto l’essere; la ragione è aperta a tutto l’essere perché Dio esiste. Ma questi discorsi possono apparire troppo fissisti, passati di moda.
Al nostro cardinale preme però dimostrare, con S. Luca (6,36), in un modo che sinceramente ci sfugge, che “la misericordia è la perfezione dell’essenza di Dio. Dio non condanna, ma perdona, dà e dona in una misura buona, sollecita, vagliata e sovrabbondante” (p. 105). Se allora la misericordia appartiene all’essenza stessa di Dio, perfezionandola (sic! In realtà, cosa può perfezionare Dio se non Dio stesso? Ad ogni modo bisogna decidersi se fare uso o meno della metafisica), allora, “nella misericordia non viene certo realizzata l’essenza trinitaria di Dio, questa però diventa concretamente realtà per noi e in noi” (p. 144). Kasper riprende la tesi dell’autoritrazione di Dio nella sua kenosi umana, non nel senso protestante di rinuncia alla sua divinità: per Lutero Dio nella sua kenosi è “raumgebend”, cioè colui che fa spazio all’autodecisione dell’altro, piuttosto nel senso della sua rivelazione. Dio, infinito in sé, si ritrae per fare spazio all’altro; al Figlio e mediante Lui allo Spirito Santo. In Dio, questa ritrazione, nella sua stessa infinità, è kenosi, è autospogliamento di sé, presupposto poi, perché, Dio infinito, possa fare spazio alla creazione. L’autoritrazione trinitaria conosce il momento del suo sublime rivelarsi nell’incarnazione e nella Croce di Gesù Cristo, rivelazione della sua onnipotenza nell’amore. Così Kasper (cf. p. 144).
Ci chiediamo: se Dio si ritrae per fare spazio all’altro, sia esso una persona divina o il creato, chi sarà l’altro? Dio stesso che si ritrae fino a perdersi nell’altro? L’uomo è l’autospogliamento di Dio? L’umanità di Gesù è l’autospogliamento rivelativo di Dio? Non c’è il rischio che Dio rimanga poi solo il Dio di Gesù Cristo, nella kenosi rivelativa di Dio? E che Gesù Cristo non sia più Dio ma solo la ritrazione del Padre? Domande che crescono e che ci colgono sorpresi. Ma che ci mettono davanti al rischio concreto dell’abbandono della metafisica.
Come possiamo non disperare
Un altro capitolo teologico importante nell’analisi di Kasper è quello riguardante la misericordia in relazione al discorso escatologico. Ancora una volta Kasper, ora suffragato da Hans Urs von Balthasar, si richiede, con la critica della ragion pura di Kant: “Che cosa possiamo sperare?”, domanda che riassume, a suo giudizio, “tutte le domande umane” (p. 158). Come per la ragione filosofica anche per l’intellectus fidei però si pone subito un problema: non tanto cosa ma come possiamo sperare? Qual è il modo teologale corretto di esercitare la speranza? Sembra che, come per la metafisica, anche in ambito escatologico l’analisi di Kasper presenti un vulnus.
Nella S. Scrittura scopriamo due diverse serie di affermazioni che per Kasper, come già prima per von Balthasar nel suo Sperare per tutti (or. ted. 1986, tr. it. 1989) appaiono inconciliabili. Per von Balthasar difatti rimangono inconciliabili, e cioè, in sintesi: da un lato la dichiarazione incontrovertibile che Dio vuole la salvezza di tutti gli uomini (1Tm 2,3) e dall’altro, comprensivo di più luoghi scritturistici, il giudizio universale, in cui alcuni andranno alla perdizione eterna e altri alla salvezza eterna (Mt 25,31-46).
A giudizio di Kasper, le affermazioni salvifiche universalistiche sono di speranza per tutti, ma non riguardano la salvezza effettiva di tutti e singoli gli uomini, mentre le affermazioni che parlano di giudizio e dell’effettiva dannazione non intendono dire di nessun uomo che si sia dannato. Questo dà modo al cardinale tedesco di dedurre quanto segue: “Di nessun essere umano concreto ci è stata rivelata la dannazione eterna e la chiesa non ha mai insegnato in modo dogmaticamente vincolante a proposito di nessuno che egli sia caduto nella dannazione eterna” (p. 166). Neppure di Giuda si potrebbe dire ciò con sicurezza. Qui però sembra che si confonda il magistero dogmatico, che insegna senza alcun dubbio l’esistenza dell’inferno e l’effettiva perdizione di chi muore in stato di peccato mortale (si veda, come sintesi di numerosi interventi, il CCC ai nn. 1033-1035), con una sorta di dichiarazione infallibile che quel tale si è dannato. La Chiesa, come ben sappiamo, non fa “canonizzazioni” per chi si danna, ma insegna infallibilmente, sulla base del chiaro insegnamento del Signore, che l’inferno esiste e che non è vuoto.
Per Kasper però, e questo è il vero problema della sua analisi, “non possiamo né interpretare le affermazioni storico-salvifiche universali, piene di speranza, nel senso della dottrina dell’apocatastasi, come conoscenza di fatto dell’effettiva salvezza di tutti i singoli, né dedurre dalla minaccia del giudizio e dalla reale possibilità dell’inferno l’effettiva dannazione eterna di singoli essere umani o addirittura della maggioranza degli uomini” (p. 167). E questa è la posizione di Kasper: “Possiamo sperare nella salvezza di tutti, ma di fatto non possiamo sapere se tutti si salveranno” (p. 169). Questo è l’approdo, difatti, del criticismo kantiano. Non si può sperare, contro la fede, la salvezza di tutti. Come non c’è una speranza contro o senza la ragione, analogamente, non c’è speranza teologale contro o senza la fede. Non si può sperare contro le parole chiarissime del Signore: “… e questi se andranno alla perdizione eterna e i giusti alla vita eterna” (Mt 25,46), come se fossero mere esortazioni a fare i buoni.
Kasper nella sua analisi cerca una via mediana tra la posizione di von Balthasar, da cui vuole distaccarsi, e la dottrina della Chiesa, ma alla fine non ci riesce.
Von Balthasar aveva sostenuto che “non si sa se tutti si salveranno, ma si “può” sperare che nessuno si perderà” (Sperare per tutti, p. 13). Alla fine, il teologo di Basilea, rispondendo ai suoi critici in modo acceso, dirà che non solo si può, ma addirittura si deve sperare che nessuno si perderà. Chi pensasse che oltre a se stesso anche solo un altro potesse perdersi eternamente non amerebbe più senza riserve (Breve discorso sull’inferno, or. ted. 1987, tr. it. 1988, p. 57). A conforto della sua idea originaria, più possibilista ma non ancora esclusivista, von Balthasar amava riferirsi a una “nuvola di testimoni”, di mistici, che avrebbero condiviso la sua tesi.
In realtà, fu dimostrato nello stesso anno 1986 dalla rivista tedesca “Theologisches”, che nessuno dei mistici indicati da von Balthasar sostiene la sua visione di un “inferno vuoto”, con la sola eccezione di Adrienne von Speyr. Tutti i santi e mistici confermano la visione della dottrina della Chiesa: ci sono dei dannati all’inferno, non ultimo il messaggio della Madonna a Fatima. Qualora ci fosse qualche apparente discrepanza tra le visioni dei mistici circa le realtà ultime – Balthasar ad esempio amava riferirsi alla misericordia della piccola Teresa, più che alla teologia mistica della grande Teresa – la cosa va risolta guardando all’insieme dei santi e non a casi isolati e nell’ottica del Magistero della Chiesa.
Kasper, per rafforzare la sua tesi, cita anch’egli numerose testimonianze di diversi santi, specialmente donne. Ma li cita normalmente secondo von Balthasar. In definitiva, il vero problema di von Balthasar fu la sua dipendenza in toto da Origene, come gli rimproverò Werner Löser: il teologo di Basilea volle svolgere la sua intera opera “nello spirito di Origene”; a differenza di questi, però, non postulò anche la salvezza del diavolo, ma solo quella degli uomini.
Un Dio che soffre per misericordia?
Infine, vorremo soffermarci su un altro aspetto sistematico con cui il card. Kasper lumeggia la misericordia di Dio in se stesso. Ora l’accento è posto sulla sofferenza di Dio e si può subito capire che anche qui la questione diventa molto delicata: da un lato è in agguato il cosiddetto patripassianismo, vecchio errore che ammetteva la sofferenza del Padre nella passione del Figlio e dall’altro una sorta di apatia di Dio, ragion per cui molti si sono allontanati da un Dio che sembra non avere un cuore, un Dio freddo calcolatore che rimane muto dinanzi al mistero del dolore e della sofferenza innocente.
Dio non è apatico, dice Kasper. “Secondo la testimonianza della Bibbia Dio ha un cuore per noi uomini, soffre con noi, gioisce con noi e si affligge per noi e con noi” (p. 183). La Bibbia non conosce un Dio che troneggia in modo insensibile. Venendo al N. T., è lampante l’esempio del Cristo, di colui che assunse per noi la forma di servo umiliando se stesso (cf. Fil 2,6ss.). Un Dio in croce, vero scandalo per il mondo nella stoltezza dei pensieri umani. Il tentativo di Kasper qui è di unire l’insegnamento della Bibbia, cioè di un Dio che soffre per amore con quello della teologia classica e metafisica, secondo cui Dio non può soffrire in se stesso, ciò che sarebbe chiaramente un divenire e perciò una solenne imperfezione.
A giudizio di Kasper, però, “per la Bibbia… la con-sofferenza di Dio non è espressione della sua imperfezione, della sua debolezza e della sua impotenza, ma è espressione della sua onnipotenza… Egli non può quindi essere passivamente e contro la sua volontà colpito dal dolore, però nella sua misericordia si lascia sovranamente e liberamente colpire dal dolore” (pp. 184-185). Dio nella sua misericordia è libero di soffrire e soffre per noi. Così, conclude Kasper, “oggi molti teologi della tradizione cattolica, ortodossa e protestante parlano della possibilità che Dio ha di soffrire e di con-soffrire con noi” (p. 185).
È molto importante spiegare che Dio può soffrire, anzi che si è fatto uomo proprio per poter soffrire per noi e con noi. Perciò non è insensibile o apatico. Ma in che modo però parliamo di Dio quando gli attribuiamo la sofferenza? Quale estensione ha il concetto “Dio” in Kasper e negli altri teologi che sostengono, evidentemente senza distinguere, la “sofferenza di Dio” dal Dio in quanto tale? Sembra, a ragion veduta, che Kasper, per appurare la sofferenza misericordiosa di Dio, utilizzi il concetto “Dio” in modo universale, o se vogliamo, in relazione alla Trinità, in modo piuttosto modale. Bisogna chiedersi: Dio soffre in quanto Dio, in quanto Padre, Figlio e Spirito Santo, o non invece in quanto Figlio e soltanto nella sua natura umana? La sofferenza, in verità, è di Cristo e circoscritta alla sua natura umana. La possiamo attribuire anche alla natura divina del Figlio – in questo senso Dio soffre, Dio muore, Dio è in Croce, ecc. – in virtù della “communicatio idiomatum”, comunicazione che non sposta la sofferenza da Cristo a Dio e quindi alla Trinità, ma attribuisce la sofferenza della natura umana del “Christus patiens” alla sua natura divina, nature ipostatizzate dalla persona divina del Verbo e quindi, in ogni caso, delimitata alla seconda persona divina della SS. Trinità. Dio non soffre come Dio ma come uomo in Cristo. L’operazione logicamente scorretta è attribuire in modo improprio ciò che è di Cristo al Dio trino e uno. Certamente vale ciò che dice s. Bernardo di Chiaravalle, che Dio è “impassibilis” ma non “incompassibilis”, capace cioè di compatire ma non di patire, ma non è corretto affiancare questa citazione, con quella di S. Agostino in “Enarrationes in Psalmos” 87,3: il Signore assunse la debolezza umana e la morte non per la miseria della sua condizione ma per la volontà della sua compassione, a quella di Origene in “Homilia in Ezechielem” VI,8, secondo cui Dio “prius passus est, deinde descendit. Quae est ista, quam pro nobis passus est, passio? Caritas est passio” (cf. p. 186). Qui Origene non è accettabile: è contro il dogma della Chiesa ammettere una sofferenza in Dio, addirittura prima della sua incarnazione e trasformare la Carità, che è Amore purissimo e semplicissimo, in sofferenza. Se anche Dio soffre nella sua eternità, chi potrà mai liberarci dalla sofferenza, una volta per sempre? E se Dio soffre, ma per amore, chi darà un senso al mio amore, che è essenzialmente richiesta di non più soffrire?
Ne va da sé che per Kasper l’unica vera risposta al male, alle tragedie, alle catastrofi naturali è la speranza, e cioè l’esercizio della misericordia. La ragione non può dirci di più e neanche la fede (cf. pp. 187-199).
Ci si consenta, a questo punto, anche qualche perplessità nel pensare all’impianto della misericordia che soggiacerebbe al “Vangelo della famiglia”, tema introduttivo e linea guida per i lavori del prossimo Sinodo sulla famiglia.
Qual è difatti la misericordia che dovrebbe fungere ormai da ponte tra “la dottrina della Chiesa sul matrimonio e le convinzioni vissute di molti cristiani”? Forse che i divorziati risposati, che desidererebbero fare la comunione, sono i poveri in spirito, ai quali non resta altro se non la speranza come esercizio della misericordia?
I santi, in verità, ci insegnano ad essere molto cauti con la misericordia di Dio, a non prenderla sottogamba, né a misconoscerla, chiudendosi in un desiderio di giustizia ad ogni costo. L’apostolo della Germania, S. Pietro Canisio, S.J., dice a tal proposito: “Con la misericordia di Dio vogliamo sempre comportarci in modo da essere conformi alla sua giustizia. Gli uomini ciechi si lasciano sedurre da una confidenza vanitosa nella misericordia di Nostro Signore” (Lettera alla sorella Wandelina van Triest, nata Kanis, Colonia, 23 marzo 1543).
© www.chiesa (18 settembre 2014)
Cavilli di troia nella Chiesa. Comunione e Rivoluzione: prove tecniche di scisma al Sinodo
Ma io ancora devo vedere dov’è che stanno tutte ‘ste file di divorziati risposati fuori il portone delle chiese o davanti il presbiterio mentre si straziano l’anima impazienti di ricevere la santa comunione per “diritto umano” se non divino. Me lo devono spiegare: do’ stanno, dunque, chi ha visto queste chilometriche file maledette? Dov’è che i vescovi nordeuropei vedono tali fiumane di fanatici esaltati dell’ostia “democratica” quando è già grasso che cola se c’è qualcuno a messa, perché di solito non ci stanno manco più quelli non divorziati, e le loro chiese desolate e vuote (perché si sono estinti i cristiani) le chiudono, le vendono, ne fanno sexy-shop.
di Antonio Margheriti Mastino (10/02/2014)
Veramente, cosa sta succedendo? Sembra tutto capovolgersi, rovesciarsi nel contrario della natura, della logica, della ragione, della decenza: il sotto sopra e il sopra sotto. «Suore che partoriscono in ospedale e “non hanno sensi di colpa”, preti che mettono nel presepe due San Giuseppe per “aprire il confronto sull’omosessualità”, monsignori arrestati per truffe milionarie che convivono da trent’anni more uxorio con altri sacerdoti (bestie!), Vescovi che vorrebbero sostituire l’eucaristia con una semplice benedizione, Cardinali che si fanno ricresimare da pastore metodiste, Papi che confidano a Papi ombra che “la famiglia tradizionale oggi non esiste quasi più”. E’ questo il quadro tragicomico di inizio 2014. C’è da sospettare che il delirio non finirà qui». (vedi qui) E potrei proseguire io l’elenco, quando, trasalendo, mi volto indietro e faccio il sommario di quanto ho visto e sentito sui media non nell’arco di chissà quanto tempo, me nel giro di una settimana. Mentre mi chiedo “a quando le rane che piovono da cielo?”.
Piovono rane dal cielo
Sento dire su ogni media che nella solita Europa (e cioè l’Italia) si vuole insegnare ai bambini a scegliere l’identità sessuale; si consegna loro alle materne giocattoli a forma di organi sessuali per imparare come si usano, e negli asili ai bambini di 4 anni come ci si masturba. Parimenti che si vuole attendere la maggiore età del pargolo perché sulla carta di identità decida lui se qualificarsi come maschio, femmina o altro. Nel frattempo ospedali e scuole cancellano i nomi di “mamma” e “papà” (Milano) dai moduli per non offendere gli omosessuali. Sempre nelle scuole si distribuiscono “fiabe gay” (Venezia). Mentre vengono strappate le croci da tutti gli edifici pubblici, “per non offendere” atei e chi ha fedi diverse dalla cattolica, si impone a tutte le mense cibo che “rispetti” le tradizioni musulmane. In alcuni posti diventa proibito celebrare pasqua e natale, pur essendoci in prevalenza cristiani (sulla carta), e senza essere mussulmani, si osserva per “rispetto” il ramadan. Mentre si propone di cancellare il sesso da tutte le carte d’identità per optare per il “genere”, mentre si propongono e si fanno “matrimoni” e adozioni gay, emblematicamente, quasi un segno divino sinistro, in Sicilia nasce un bambino/a senza organi sessuali, tanto da essere indefinibile, se maschio o femmina. In Danimarca è pronta una “accademia” per insegnare a praticare la zoofilia: si parte col diventare animalisti fanatici per amore degli animali, si finisce col voler fare l’amore con gli animali; mentre già in California qualcuno chiede il “diritto umano” di sposarsi addirittura con un animale. Intanto la Spagna vuole mettere sotto processo un cardinale 84enne appena nominato perché ha scoperto l’acqua calda in un’intervista: “l’omosessualità è un carenza”. È colpevole di non aver detto che è una pacchia. L’Onu arriva a fare un velata ritorsione al papa: o si decide a smentire la dottrina cattolica in fatto di omosessualità e dichiarare la rottura coi suoi predecessori, oppure i giornali che si aspettavano la sua “rivoluzione” liberal, perderanno la pazienza e ricominceranno col tormentone dei “preti pedofili” e tutto il Vaticano sarà in qualche modo messo sotto processo internazionale. Curioso che la commissione ONU fosse composta anche da musulmani che con la pedofilia e l’omosessualità hanno parecchia familiarità da innumerevoli anni, secoli. A Parma, oggi, mentre si stava celebrando la messa domenicale, irrompono con striscioni e cartelli in chiesa degli attivisti per manifestare a favore dell’aborto, mentre avviene il sacrificio del Signore: cos’è questo se non un sacrilegio dato dall’invidia del demonio, l’ispiratore di ogni oscenità, il principe dell’omicidio maledetto? Chi può spingere degli uomini alla perversione, al sacrilegio verso il Santo, all’oscenità davanti al Sacro, alla furia omicida verso gli innocenti se non Lui, il ladro della vita, quello che in molti esorcismi tremendi si è presentato come “Erode”? Al contempo, una coppia di ottantenni olandesi, radunati i quattro figli, si presentano loro in pigiama “tanto per il forno non serve essere eleganti”, fanno un’ultima danza macabra, poi tornano in camera da letto a suicidarsi. Mentre i figli “amorevolmente” e senza ostacolarli semplicemente li “accompagnano”. E tutto questo baratro di solitudine e tristezza e perversione diabolica viene da congiunti e giornali dipinto come “bello”, “commovente”, “romantico” e auspicabile per tutti. Nessuno s’accorge che altro non è che la perdita dell’umanità.
Se la Commissione dei Magnifici 8 pare l’Anonima Alcolisti
Gli esempi laici potrebbero continuare per decine di pagine, ma basta così perché anche io ho un fegato, delicato per giunta. Così vanno le cose migliaia di volte al giorno a ogni latitudine d’Occidente, la Roma del papa compresa. E mentre Roma discute Sagunto è espugnata. Così come quella – ma lasciatemelo dire – Commissione dei Magnifici 8… cardinali destinata alla non meglio identificata “riforma della Curia” o “della Chiesa” non s’è capito. Da diverso tempo pare sempre più un ritrovo di compagnoni dell’anonima alcolisti, dove il primo che si alza spara la sua, sovente a cazzodicane. Un suo esponente di spicco, il tedesco Marx (un nome una garanzia), propone di “chiedere perdono alla gente” perché per secoli li avremmo spaventati con parole e immagini terribili sull’inferno e sul diavolo, quando poi non solo “tutti saremo perdonati” in una amnistia generale da Dio – del quale si scambia la misericordia per condiscendenza – e andremo in paradiso, ma soprattutto perché forse manco esistono il diavolo e l’inferno, onde avremmo ingannato i fedeli, e del resto questo insegnano negli atenei teologici “cattolici” di tutta la Germania. Al contempo, paradossalmente, un altro cardinale progressista tedesco, Lehmann, d’accordo con le teorie del collega Marx, spiega al papa che alla “misericordia deve aggiungersi la giustizia”, proprio un momento dopo aver negato il “diritto” di Dio ad applicare la giustizia stessa essendo che gli è lecito solo “perdonare tutti” indiscriminatamente e amnistiare. E uno così passa per “fine teologo”, mentre già ha problemi con la semplice logica. In questo clima plumbeo e con questi fenomeni da baraccone travestiti da cardinali, nel momento peggiore per la Chiesa tra flutti sinistri che minacciano persecuzione imminente, il capo dei Magnifici 8, il pavone honduregno Maradiaga insieme a tutti i vescovi svizzeri e a quelli tedeschi, mentre sta preparandosi l’anno e il sinodo per la famiglia, di che cosa va occupandosi? Di come salvare e difendere una idea di famiglia se non cristiana almeno secondo legge di natura? Macché! Va dicendo, come il ministro laicista dell’istruzione italiano, che la “famiglia tradizionale” non esiste più. E si ha quasi il sospetto che sotto sotto pensi che sia un bene, mentre per il ministro succitato semplicemente “non è mai esistita” e se prima c’era era una “assurdità”. Ormai si fatica a trovare la differenza fra un cardinale e un ministro laicista. Mentre sta succedendo tutto questo, i Magnifici 8, Maradiaga, Marx, i vescovi tedeschi, svizzeri, austriaci, loro per dire parecchi altri, di cosa stanno occupandosi? Quali sono le loro emergenze e priorità? È presto detto.
Cavilli di Troia
Comunione ai divorziati: si è iniziato con questo non sai se più cavillo o cavallo di troia. Il resto è venuto come un castigo divino, una fluviale inarrestabile pioggia di rane dal cielo, una per ogni stazione dell’agenda liberal: la nuova pastorale e accoglienza per gli omossessuali che sa tanto di resa senza condizioni all’omosessualismo imperante, un chinarsi più che sull’uomo e le sua fragilità, un genuflettersi a pecorazza all’aggressiva moda ideologica che presume di rappresentarlo; ancora sulla liceità del divorzio tra cattolici e la possibilità di riconoscere doppie nozze. Così questi Magnifici 8 credono di prepararsi all’Anno e al Sinodo della Famiglia… che pare più un esodo dalla famiglia, e da Roma. E la prima cosa che hanno fatto è un sondaggio. Naturalmente in gran parte via internet. Presto finito nelle grinfie dei più pazzi vetero-progressisti laici che tirannicamente presidiano da decenni parrocchie ed episcopi teutonici; e poi cattolici adulti, liberal, post-cattolici, clericalizzati e burocratizzati prussianamente, e anche anticattolici, laicisti, che infine sono tutti quanti la stessa cosa. Per poi finalmente sbandierarne il verdetto bulgaro: “il popolo chiede il rompete le righe” della dottrina e della morale sessuale cattolica, tanto “comunque non la rispettano”. O tuttavia: volta per volta la si decida “a maggioranza”. Ossia, chiedono che la morale cattolica diventi non il lucchetto ma l’elastico alle mutande di tutti, mollemente assecondando ogni voglia, sino alla più sordida. Quando i vescovi, specie se nordeuropei, cominciano a parlare di “aprirsi al mondo”, è di adeguarsi al mondo e sdraiarsi sulla linea dell’ideologia di moda in quel momento che vogliono parlare. Quando quei vescovi cominciano a dire che la Chiesa deve “aprire le braccia”, è alle sue gambe che alludono. Mentre non si rendono conto di tante cose. Per esempio, del fatto che tutti i problemi che in modo tanto sgangherato vogliono “risolvere”, derivano proprio dall’avere a ogni livello, ecclesiastico pure, specie in quelle terre nordiche, predicato per decenni non solo contro la morale cattolica e poi ogni altra forma di morale, ma di averne perorato pure l’opposto. E proprio, anche quella volta, per “aprirsi” al mondo, per “adeguarsi” allo spirito di quel tempo che come tutti gli altri spiriti temporanei (ossia ideologici) è poi evaporato lasciandogli la ruggine sulle mani; per applicare alla dimensione atemporale ed eterna della Chiesa le ricette transitorie e aleatorie del tempo secolare. Adesso sono di nuovo lì a tentare di rianimare quel che, chiaramente, hanno mandato in coma irreversibile con le ricette sbagliare prescritte da qualche ciarlatano e scambiate per panacee di tutti i mali; pure questa volta, ohibò, prendono a prestito “medicinali” avariati dalla stessa farmacia di prima, ancora convinti trattarsi dell’elisir di lunga vita, così come la volta precedente a dargli retta trattavasi della panacea, e pazienza se panacee e elisir sono figure mitologiche… ma quando mai hanno voluto fare i conti con la realtà?! Non mi sono mai illuso sull’intelligenza né del clero né dei vescovi né dei criteri e del metodo con cui vengono selezionati o fabbricati: sono ambiziosi senza essere degni, sono astuti senza essere intelligenti. La mediocrità, morale anzitutto, portata ai massimi livelli ecclesiastici, genera mostri. Così come l’intelligenza senza umiltà, la scienza senza pietà, la religione senza la fede.
Ciarlatani
È veramente curioso che i reduci e protagonisti dei maggiori fallimenti e disastri ecclesiali degli ultimi 40 anni, ossia i vescovi latinoamericani e germanici, per l’ennesima volta salgano in cattedra ergendosi a modello di “brillanti” riformatori della Chiesa, anzi, a suoi rianimatori. Sempre con le solite ricette “magiche” in mano, vecchie di quarant’anni. Loro, loro che si ritrovano chiese in brandelli, clero scarso, impazzito e amorale, emorragie milionarie di fedeli ogni anno, atenei cattolici che sono bordelli eretici, canoniche ridotte a lupanari, risultati tutti resi possibili non dalla disapplicazione delle loro famigerate “ricette”, ma proprio dall’essere state applicate, sino in fondo. Con “successo”. In cosa consista, questo “successo”, lo stiamo toccando con mano. Ciarlatani! E pensare che prima che quei vescovi iniziassero con il loro ecclesiologico accanimento terapeutico preventivo, le loro erano Chiese floridissime, robuste, alveare di feconde e copiose vocazioni. Ora ronzano come mosche sarcofaghe intorno alla carcassa di quella che fu un tempo una grande Chiesa, nella speranza di piantarci alcune uova in qualche lembo di carne ancora vivido, sperando di innestarne linfa vitale. Ma dall’uovo della mosca sarcofaga, la mosca dei cadaveri, vengono fuori solo larve, vermi, e infine altre mosche sarcofaghe. Che finiranno di spolpare le ossa della Gran Morta. Et in pulverem reverteris! Ma come pretendono di essere creduti se non sono neppure credibili?
Lo scisma imminente
Ma è un’altra la cosa che si nota veramente. Oltre la rimozione della realtà, oltre lo scaricare sulle parole, le strutture, le formule canoniche il valore che dovrebbe avere i fatti. È un’altra e riguarda il metodo, e dentro la Chiesa è una assoluta novità, apocalittica, perché è in genere la fase che precede l’assalto alla diligenza, il fuoco amico. La rivoluzione. Il suo raggiunto climax, almeno. E sono pronti a farla scoppiare in autunno, al Sinodo sulla Famiglia, che in troppi hanno individuato, Lucifero in primis, come il piede di porco per scardinare dall’interno il portone di bronzo. Dopodiché o ci si adegua e ratificare il fatto compiuto, oppure si dovrà prendere atto che la storia unitaria di quel che è rimasto della chiesa europea, è finito, e lo scisma di fatto strisciante da anni con le Chiese di lingua tedesca, sarà portato, anche di diritto, al suo compimento. Perché a questo mirano i vescovi germanici, a farsi la loro chiesa, più o meno protestante, e autogovernarsi: il sinodo gli servirà per tentare di portarsi dietro nella rovina, usando ora il bastone ora la carota, quanto più possibile del resto dell’episcopato, ché di quel che pensa o non pensa in proposito il papa poco gliene importa; ma soprattutto gli serve a seminare zizzania e velleità negli altri episcopati e sperare così in un effetto domino dilacerante su scala mondiale, stracciando in mille pezzi la Chiesa cattolica apostolica romana, a cominciare proprio dall’America Latina, che da decenni (pochi sanno) non è il “continente della speranza” per la Chiesa ma la serva povera e sciocca proprio dell’episcopato tedesco che con i suoi soldi gestisce moltissime diocesi latinoamericane, e sempre i tedeschi furono a piantare in quella terra bambolotti guerriglieri e vanesi dalla testa vuota la TdL. Curioso, ma neppure tanto, che quella stessa chiesa tedesca, mentre vorrebbe dare la comunione ai divorziati risposati, allo stesso tempo vorrebbe negarla, la comunione e tutto il resto dei sacramenti (c’è un’ordinanza apposita dell’abominevole Conferenza Episcopale tedesca), a chi non paga la carissima tassa statale per continuare ad “appartenere” alla Chiesa.
Ma dove stanno tutte ‘ste file in chiesa di divorziati maniaci della Comunione?
Ma vi dicevo della “novità assoluta”. Mentre la Chiesa è sommersa di problemi spaventosi, compreso il martirio quotidiano di intere comunità cristiane in Oriente, mentre si è divisi su tutto, e vi è un attacco globale ai più santi istituti a cominciare da quello famigliare sino a proporre e imporre ovunque matrimoni e adozioni gay, mentre in Francia si promulga il reato di “antiabortismo” e nelle scuole europee e canadesi si ordina di rimuovere non solo croci ma anche l’insegnamento biblico laddove incorre nel “reato” di “omofobia”, mentre succede tutto questo i vescovi, i Magnifici 8, il “papa ombra” Maradiaga che fanno? Si mettono a parlare di comunione ai divorziati, di pastorale pro-gay, di forme alternative di famiglia, di mettere una donna a guida di una inutile nuova congregazione “dei laici” che per giunta neppure c’è. Che significa? Cos’è questo improvviso tormentone della “comunione ai divorziati”? Ma io ancora devo vedere dov’è che stanno tutte ‘ste file di divorziati fuori il portone delle chiese o davanti il presbiterio mentre si straziano l’anima impazienti di ricevere la santa comunione per “diritto umano” se non divino. Me lo devono dire: do’ stanno, chi ha visto queste chilometriche file maledette? Dov’è che i vescovi nordeuropei vedono queste fiumane di fanatici esaltati della comunione “democratica” quando è già grasso che cola se c’è qualcuno a messa, perché di solito non ci stanno manco più quelli non divorziati, e le loro chiese desolate e vuote (perché si sono estinti i cristiani) le chiudono, le vendono, ne fanno sexy-shop. Ma poniamo pure che ci sia qualche (quanti in una diocesi, mettiamo, come Magonza, quanti saranno, 10, 30 tutti questi divorziati che vogliono la comunione?…) unità di maniaci ossessivo-compulsivi dell’ostia. Poniamo dico, non perché non esistano buoni cattolici anche divorziati, un quarto dei cattolici lo sono, divorziati. Ma quanti di questi veramente, salvo qualche rara eccezione, ha vissuto una vita cristiana? Sa cos’è ed è interessato a viverla una vita cristiana? Quanti sono i “cattolici divorziati” che veramente reclamano questo sedicente “diritto”? E quanti sono invece le voci esterne, sovente anticattoliche, laiciste che si sovrappongono a parlare a nome di ipotetici “divorziati cattolici”, reclamando a loro nome “diritti” che tali non sono affatto, essendo doni e grazie? Quanto c’è di onesto in questa campagna puramente mediatica non solo interna la Chiesa ma satura di interferenze profane esterne con doppi e tripli fini ideologici? Quanti fra quei “divorziati” presunti maniaci della comunione, se è vero che loro priorità è comunicarsi, quanti sanno che una via cattolica alla riconciliazione esiste (se non si vogliono applicare le virtù cristiane nel matrimonio, a cominciare dalla pazienza) rifiutando lo strumento anticristiano del divorzio e ricorrendo alla separazione o tuttalpiù scartando semplicemente la possibilità di risposarsi? La vita in castità non è un castigo, non è una cosa disumana come ci dà a credere la sessuomania di massa, è un’occasione di santificazione, di vivere in modo radicale una vita scandalosamente cristiana, che davvero renderebbe degni dell’eucarestia… se è vero che ci tieni così tanto alla comunione! Anche perché una comunione presa in stato di peccato lungi dall’essere una benedizione è una maledizione: colui che lo fa “beve e mangia la sua condanna” sta scritto. Se fossero davvero cristiani questi ipotetici divorziati risposati non solo non si sarebbero risposati, non solo non si sarebbero sposati una prima volta a cuor leggero, non solo non pretenderebbero la comunione, soprattutto non la userebbero come estorsione e arma di ricatto: “o me la dai o non metto più piede in questa chiesa”. Pazienza, si dovrebbe dire: in chiesa si va per il proprio bene, non per far piacere al prete, il tafazzismo non è mai stato una soluzione a niente.
Pretendono la comunione, ma poi è vero che sono cattolici?
Poi la Chiesa non è fatta solo della “comunione”, la quale è certamente il centro della vita cristiana, ma non il solo, c’è tanto altro da fare. Purtroppo c’è anche da sospettare che oltre ad un’arma ideologica, il singolar tenzone sulla comunione ai divorziati altro non sia che rimozione della realtà della perdita della fede. Questi qui in che senso sono cristiani? Nel senso che sono semplicemente battezzati? Che pagano la tassa statale alla Chiesa d’appartenenza? Ma a parte questo, pregano? dicono il rosario? fanno digiuno? assolvono a tutti gli altri precetti e comandamenti? credono e conoscono tutte le verità di fede? hanno letto il Vangelo? hanno mai dato retta al magistero papale? si sono posti mai come meta l’imitazione di Cristo, che non sia quello della vulgata mondana? hanno mai tentato di sperimentare o raggiungere la santità? si sono mai esercitati nelle virtù cristiane? … Perché se non hanno almeno tentato di pratica un po’ di tutto questo proprio non vedo a che titolo possano dirsi “cattolici”. Oppure, per caso, seguono solo e solamente lo Spirito del Mondo, che poi è Lucifero, ne impugnano tutte le bandiere, conducono una vita dissoluta fedeli alle sue opere e tentazioni salvo poi pretendere la comunione? Credo che tutti noi, i vescovi e il papa compresi, sappiamo qual è la sola realistica risposta a queste domande quantomeno retoriche. Così come siamo consapevoli che il problema di fondo è un altro, ed è emerso in tutta la sua perversione nel famigerato “sondaggio” sulla comunione ai divorziati risposati condotto (seppure in modo tutt’altro che eterodosso e con metodi capziosi… di pura demagogia clericale) dai vescovi germanofoni sulle loro scarne comunità, che come il bambino che grida il re è nudo, candidamente hanno ammesso che “non considerano peccato” il divorziare e il risposarsi, onde non vedevano ostacolo alla comunione. Non una questione di presunta “umanità”, dunque, o di “diritti umani”: una questione di “assenza” di peccato.
Il vero problema: la “scomparsa” del peccato, l’eucarestia ridotta a “simbolo”
Ecco il vero problema: la scomparsa del senso del peccato, dell’idea stessa di peccato. Il rifiuto di concedergli cittadinanza dentro la Chiesa, lo scacciare come offensiva e delirante l’idea che noi si possa essere macchiati dal peccato, avendo violato i diritti di Dio stavolta. Il peccato è “scomparso”, come i diritti di Dio. Del resto questo, fin qui, hanno predicato da tutte le cattedre e pulpiti i vescovi tedeschi: così come “non esiste” satana e l’inferno, alla stessa maniera “non esiste” la dannazione eterna. E se non esistono tutte queste cose, è chiaro, “non esiste” neppure più il peccato. Al venir meno dell’idea del Maligno come presenza concreta e personale, viene anche meno l’idea di Presenza Reale nell’eucarestia, ed è questo l’altro problema: una buona parte di quei “fedeli” crede, e di quel clero insegna, che l’ostia è solo un “simbolo”, di pace e concordia sociale, l’eucarestia una “cena” sociale, intorno alla quale una comunità si ritrova per autocelebrarsi. E un puro e semplice simbolo simbolo di “concordia sociale” perché mai dovrebbe essere negato a un divorziato risposato? Se in Germania, Svizzera, Austria, altrove, ci fossero ancora vescovi e fedeli che avessero un po’ di fede, non starebbero a fare tutto questo macello. Se lo fanno, è perché la fede l’hanno perduta. Da tempo, per questo hanno tante mestruazioni mentali e si fanno tante seghe clericali. Non hanno niente di meglio da fare, soprattutto niente da perdere.
I vescovi adoperano le tecniche dei partiti radicali
Stanno praticamente usando la tecnica tipica dei movimenti radicali, quella che in Italia è praticata dai Pannella, Bonino, Radio Radicale. Da decenni. C’è un battaglia puramente ideologica da fare, combattere e vincere ma si hanno poche truppe a disposizione e il problema essendo puro fumus è poco sentito dal “popolo”? Pazienza, le rivoluzione le han sempre fatte e vinte le piccole élite, anche contro il popolo. Basta usare la tecnica giusta e tutto è possibile. Vuoi, ad esempio, imporre l’aborto ma a tutti pare sbagliato? Allora devi iniziare a martellare, agitare, creare ansia, soprattutto creare il “problema”, meglio: l’“emergenza”. Con tutto l’allarme sociale e la polemica mediatica che ne deriverà: attraverso la ripetizione drammatica e a manetta e di un concetto, del “problema” che avrebbe creato, della “soluzione” bella e pronta. Allora cerchi ad uopo casi “umani” che siano anche casi limite, non importa quanto realistici e significativi per la statistica, purché tu li dipingi come una marea montante, una epidemia, una “emergenza” sociale appunto… che sia qualche ragazza stuprata da un presunto nonno o una prostituta rimasta incinta per un cliente che l’ha voluta concupire senza preservativo, una madre-bambina, e la sbandieri ai quattro venti, come esempio di “tragedia contemporanea”, “orrore”, “disumanità” che nasce proprio dall’assenza di aborto, dalla domanda “come puoi non fare abortire una messa incinta dal nonno”? Martellare, incalzare, ripetere, ripetere, ripetere ogni giorno, a ogni ora, da ogni luogo mediatico che “c’è l’emergenza”, c’è la tragedia, c’è l’orrore, la causa è una: il reato di aborto; ma c’è anche una soluzione: la legalizzazione dell’aborto. A furia di ripeterlo, subentra l’assuefazione strisciante, la persuasione occulta di massa… se non altro per alta stanchezza: una cosa ripetuta all’infinito anche se fallace nei suoi presupposti diventa “vera” e “ragionevole”, “logica”. “Male minore”, tuttalpiù. E passa. Per la forza dell’inerzia e l’assenza di immaginazione delle maggioranze. Per la forza evocativa e imaginifica delle minoranze attive. Passa. Ma è solo il primo passo.
La rivoluzione a “piccola marcia”
Altri ne seguiranno, stando al teorema di Plinio Correa de Oliveira, secondo cui la rivoluzione si può fare a “grande marcia”, tutta e subito, come i regimi comunisti golpisti, tipo anche la Rivoluzione d’Ottobre russa; oppure a “piccola marcia”, una tappa la volta, come facevano i regimi socialisti in epoca sovietica, che si presentavano come “riformisti”, in realtà portavano agli stessi esiti dei regimi comunisti filo-sovietici, soltanto che lo facevano gradualmente, per non allarmare nessuno ed essere stroncati sul nascere come accadde a quel pasticcione di Allende. Questa tecnica comunicativa e politica qui stanno usando molti vescovi, Maradiaga da una parte e i vescovi di lingua tedesca dall’altra, sebbene ciascuno con obbiettivi diversi, anche se in ambo i casi “rivoluzionari”. Per questo ghiottamente stanno aspettando il Sinodo d’autunno, per impugnarlo come un piede di porco e scardinare l’ordine famigliare cristiano. In nome della pax infame col mondo, dell’adeguamento alla mondanità, della dissoluzione del cattolicesimo nei comodi e mortiferi lidi della religione e dell’etica civile. Un inconscio cupio dissolvi, desiderio di morte e annullamento. Che non può che avere un sentore diabolico. Ma il Sinodo per loro non è il punto di approdo, bensì di partenza. La rinuncia a proporre la vita cristiana come modello per l’uomo di oggi, ritenendola impresentabile, improponibile, impraticabile, anacronistica, perdente, richiede molte tappe. Qui pure varrà la regola radicale dal punto di vista comunicativo, per creare l’emergenza evocando i fantasmi, ma soprattutto varrà la costante rivoluzionaria tipica. Che poi è stata sempre individuata da Plinio Correa de Oliveira così come da ogni storico un minimo qualificato. La rivoluzione è bulimica, tant’è che alla fine divora anche i suoi figli, e non può accontentarsi di un obbiettivo raggiunto, vuole per sé tutto il menù, ed è disposta a non alzarsi da tavola per anni senza averlo ottenuto. Prima chiederà l’antipasto, poi il primo, il secondo, la frutta, il gelato, il caffè, l’ammazzacaffè e la sigaretta finale. L’importante è cominciare, scardinato il primo tabù, ad una velocità crescente, saranno quasi in automatico abbattuti tutti gli altri. Così come negli anni ’70 in Italia si iniziò col divorzio e si finì con aborto e nuovo diritto di famiglia (puro agglomerato di ideologismi femministi) per completare la Trimurti che avrebbe scosso dalle fondamenta la pace famigliare guadagnata lungo i secoli. Questa è la tecnica comunicativa radicale e la tecnica politica rivoluzionaria che si stanno adoperando già da ora nella Chiesa per raggiungere il culmine al Sinodo. Se si riesce a far passare, come prima tappa, la comunione ai divorziati, sarà giocoforza poi domandare il riconoscimento delle “seconde nozze”; a quel punto nulla più ostacolerà l’equiparazione delle coppie di fatto more uxorio a quelle sposate; dunque, colpo scuro finale, il “matrimoni” gay. Proprio come hanno fatto le superstiti confessioni protestanti dell’Europa (e dell’America del Nord) centro-settentrionale. Giunti che si sarà a quel punto, ogni diga cederà, al rompete le righe generale che spegnerà il cattolicesimo occidentale seguiranno (sempre con le stesse “tecniche” radicali e rivoluzionarie) prima i preti sposati, poi le donne diacono, poi quelle prete, poi quelle vescovo… poi… poi… abbiamo visto la fine che ha fatto l’Anglicanesimo con questi “poi”. L’esito di queste ricette tanto “belle” sulla carta, applicandole alla realtà concreta, è la morte del “paziente”. Ma che importa all’ideologo clericale honduregno o tedesco se la realtà brutalmente smentisce la poesia dello schema ideologico? È la realtà ad essere “sbagliata”, non lo schema. Dove ci porterà mai quest’Anno per la Famiglia, che nonostante tutte le buone intenzioni del papa, così come successe a Paolo VI, sembra dirottare su binari o morti o incustoditi ad opera dei suoi “amici” (che è immaginabile lo tradiranno, come tradirono Paolo VI, e Cristo) con questa loro programmata, delirante, inarrestabile rivoluzione a piccola marcia? Marcia verso che?.. quali ennesime “magnifiche sorti e progressive”? Probabilmente quelle di ogni rivoluzione clericale: il suicidio di massa, la resa incondizionata alla mondanità trionfante, la dissoluzione della dottrina nel solvente del pensiero unico dominante. L’irrilevanza. Come una qualsiasi residuale confessione protestante europea, che bene gli vada è ridotta a una corrente minore di un qualche partito liberal-radicale. E non necessariamente la corrente più moderata, anzi! Il destino della Chiesa al termine di questo anno sembra segnato, non c’è scampo: o si cede a questo disegno teologico e si decide di morire in santa pace, o si andrà incontro a un enorme scisma con le chiese germaniche, scisma che esiste già nei fatti ma che a questo punto diventerebbe effettivo anche di diritto. Perché una cosa è certa: l’episcopato tedesco, comunque vada, le sue “riforme”, ossia la sua rivoluzione sul piano morale e poi sacramentale e dottrinale, la farà con o senza Roma. Del resto, non è una novità la cosa, le avvisaglie c’erano da immemorabili: quando una rivoluzione infine scoppia è perché è già terminata.
© PAPALE PAPALE
Tsunami spirituale: apostasia conclamata
di Giovanni Zenone (05/02/2013)
La Chiesa italiana si prostituisce a Monti. L’Osservatore Romano anche. Famiglia Cristiana fa pubblicità agli invertiti. La Cei fa grandi piani pastorali per offrire le chiese ai nemici di sempre (nostri e della nostra fede), per trasformare le nostre parrocchie in moschee. Spende centinaia di milioni di euro in bubbole o per aiutare gli invasori mentre i suoi figli languiscono in difficoltà spaventose. Il mio Vescovo mi licenzia dall’insegnamento cattolico perché la fedeltà alla retta fede è incompatibile col “dialogo” e perché dirigo Fede & Cultura (hanno messo per iscritto che una delle mie colpe è proprio la mia attività “pubblicistica” sic), la nota casa editrice cattolica troppo “integralista” nella fedeltà ai principi non negoziabili e alla Fede Cattolica così com’è. La Cei spaccia una nuova traduzione della Bibbia e stampa nuovi testi liturgici – che tutte le parrocchie devono comperare a carissimo prezzo – con gravi errori di traduzione che, guarda caso, vanno nella direzione del politicamente e teologicamente corretto, cioè dell’eresia. (Avete visto come hanno ridotto il Padre Nostro? Con quel gravissimo errore “non ci abbandonare nella tentazione” che fa a pugni con la traduzione tradizionale rigorosamente conforme al greco e al latino. Persino le traduzioni protestanti non sono arrivate a tanto!). La Messa è diventata un cabaret di basso bordo. I preti e vescovi omosessuali si coprono e sostengono a vicenda emarginando il clero sano, e occupano quasi tutti i posti di potere nella Chiesa (Verona docet). Dal pulpito si sentono bestialità per le quali in tempi migliori si veniva arsi al rogo. I Vescovi “si arrangiano” calando le braghe davanti al mondo e alle sue ideologie, tranne 5 o 6 in tutta l’Italia. Come salvare la nostra fede? Come salvare quella dei miei figli? Signore, da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna, ma non le sentiamo più, perché chi ce le dovrebbe annunciare è figlio e padre di don Abbondio.