Il Concilio Vaticano I e il sinodo del 2014

di Roberto de Mattei

La fase storica che si apre dopo il Sinodo del 2014 esige da parte dei cattolici non solo la disponibilità alla polemica e alla lotta, ma anche un atteggiamento di prudente riflessione e studio dei nuovi problemi che sono sul tappeto.

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Anche per oggi, niente happy end

“Tenendosi per mano al mondo, senza assegnarsi più il compito di insegnare ma solo quello di accompagnare, la Chiesa prosegue senza freni nel processo di liquefazione”.

di Alessandro Gnocchi & Mario Palmaro (12/12/2013)

Se l’urticante “Questo Papa non ci piace” fosse stato l’incipit di un feuilleton per amanti di talari e vecchi merletti con un tocco mondano che piace anche al cattolico che piace, ora potrebbe trovare epilogo in un gagliardissimo “vissero a lungo felici e contenti”. Dopo tanto vociare, giungerebbe puntuale un travolgente happy end per protagonisti, antagonisti, comprimari e comparse, perché il mondo cattolico d’oggi è fatto così: non ama nulla tanto follemente quanto l’unità. Erede, e se non fosse per la fede incrollabile nel divino “non praevalebunt” verrebbe da dire capolinea, di una storia cresciuta rigogliosa nel sangue dei martiri, non vuole percepire neanche l’eco del conflitto. Brama l’unità, non importa in che cosa e per far cosa, purché nessuno turbi l’acqua cheta in riva alla quale stanno tutti a godersi il pallido sole della pentecoste secolare.

Anche i villani malcreati si vorrebbe tenerli nel recinto, persino quelli che, invece di sdraiarsi sul salvettione in riva allo stagno, non riescono a trattenersi dal tirarci il sasso. Così, nel bel mezzo della polemica, quelle canaglie a prescindere che criticavano Papa Francesco, si son sentite suggerire di accomodare la questione con uno scritto su tutto il bello del pontificato in corso. Per non cadere in tentazioni scismatiche, sarebbe bastato incontrarsi a metà strada come al mercato del bestiame, dove ogni sensale stringe sorridendo la mano all’altro, convinto di averlo fregato. Oppure, a dar retta ad altri, sarebbe stata una gran cosa seguire la massima eterna e perbenino del si fa ma non si dice, opportunamente declinata nel clerical-intellettuale si pensa ma non si scrive. E per altri ancora, secondo cui fino a ieri bisognava adottare lo stile razionale e accademico di Ratzinger, oggi sarebbe meglio essere un po’ gesuiti e un po’ tangueri e domani chissà. Tutto, naturaliter, a maggior gloria di quella benedetta unità.

Come se si trattasse di una questione politica: e invece si tratta di una questione di fede. Come se si trattasse di ritirare una mozione al congresso del partito: e invece si tratta di chiarirsi in famiglia. Qui non si fa la conta delle tessere, si mettono a nudo le anime per amore di Nostro Signore, della sua croce, della Chiesa che è il suo Corpo mistico e del suo Vicario che ora si chiama Francesco. Mettere pubblicamente in questione parole e gesti dell’autorità, specie se è tuo padre, è un atto che scuote fin nelle radici dell’anima, anche quando lo si fa in nome di una verità e di una casa di cui lui è il servus servorum.

A un padre si può dire sì per amore, per obbedienza, per riverenza, per convinzione, per convenienza e anche per debolezza o per codardia. Ma gli si dice un no cristiano e virile solo per amore. Dire sì, a volte, può essere doloroso, dire no lo è sempre. Dire sì può costare l’incomprensione si chi sta fuori dalla casa, dire di no costa sempre l’incomprensione anche di chi sta dentro. Dire di no al padre in nome del tesoro di cui è custode non è un atto di ribellione orgogliosa, ma premessa a momenti di solitudine e di dubbio in cui consola soltanto il sentirsi comunque dentro casa.

Onorare l’impegno di viri christiani assunto con il battesimo non è privo di spine. E se le spine sono sempre le stesse, invece che creare abitudine e assuefazione, producono un dolore sempre più penetrante e acuto perché sempre più consapevole e gradito. Può darsi che sia questa la prova affidata oggigiorno ai piccoli di casa che si baloccano con le storie di famiglia fatte di insegnamenti tramandati nei secoli, di riti, di preghiere e di ammonimenti. A questi bambini fa male ma non fa scandalo che il padre non si curi delle loro piccole pene e li chiami, ancora una volta, “profeti di sventura”. Continuano a mostrare le loro spine, anche se sanno di infastidire i grandi, perché questo è tutto ciò che sono capaci di fare.

I bambini sono fatti così, non fa niente se si torna ogni volta da capo e ricomincia la solita storia: «Il Concilio Vaticano II», dice Papa Francesco nella sua esortazione apostolica, «ha affermato che, in modo analogo alle antiche Chiese patriarcali, le conferenze episcopali possono “portare un molteplice e fecondo contributo, acciocché il senso di collegialità si realizzi concretamente”. Ma questo auspicio non si è pienamente realizzato, perché ancora non si è esplicitato sufficientemente uno statuto delle conferenze episcopali che le concepisca come soggetti di attribuzioni concrete, includendo anche qualche autentica autorità dottrinale. Un’eccessiva centralizzazione, anziché aiutare, complica la vita della Chiesa e la sua dinamica missionaria».

Qui giunti, riesce difficile non correre con la mente a certi passi della Sacrosanctum Concilium, la Costituzione del Vaticano II in cui l’autorità liturgica di Roma è stata minata con maliziose infiltrazioni di desistenza a beneficio delle esigenze locali. Si ribadiva l’uso del latino, per esempio, e subito dopo si concedeva mano libera all’introduzione del vernacolo e degli usi regionali. Ma, in tal modo, si ponevano le basi teoriche di una creatività che risponde alle esigenze della latitudine e dell’estro personale invece che alle leggi di Dio. La conseguente deriva subita in questi ultimi cinquant’anni dalla lex orandi non sembra un buon viatico per la lex credendi data in pasto alle Conferenze episcopali.

Le assemblee nazionali e regionali dei vescovi si sono trasformate in veri e propri centri di potere ecclesiale che sottraggono autorità e peso a Roma dopo aver annichilito il ruolo del singolo pastore. Aumentarne il peso in campo dottrinale implicherebbe un vulnus irreparabile per la tradizionale trasmissione della fede dal Papa al vescovo nella sua diocesi fino ai parroci e ai fedeli. Interrotta questa catena, che è a servizio della verità e quindi di ogni uomo, si sta assistendo a una sorta di nazionalizzazione del cattolicesimo: un vero e proprio ossimoro religioso, se si pensa che nazionale significa particolare e cattolico significa universale. Ogni Paese, sui temi più disparati, esprime una sua dottrina: talvolta opposta a quella di altri Paesi, non di rado diversa.

Dietro il paravento dell’inculturazione e della legittima attenzione a stili e culture, prende corpo una sorta di federalismo dottrinale. È difficile pensare a un progetto diverso quando si legge: «Sebbene sia vero che alcune culture sono state strettamente legate alla predicazione del Vangelo e allo sviluppo di un pensiero cristiano, il messaggio rivelato non si identifica con nessuna di esse e possiede un contenuto transculturale». Ma sul legame inscindibile tra cultura biblica e pensiero greco non la pensavano allo stesso modo Giovanni Paolo II nella Fides et ratio e Benedetto XVI nel discorso di Ratisbona.

Il virtuoso adagio che vuole la lex credendi accompagnarsi alla lex orandi, di questi tempi ne fa due spine che non possono stare separate. Se nella dottrina sono stati oscurati il rigore della ragione e l’asprezza del dogma, nella liturgia sono stati censurati l’esigenza del sacrificio e lo scandalo brutale della croce. Nel pregare, come nel credere, il protagonista è diventato l’uomo, che è andato a sostituire la centralità di Dio.

Così, mentre nella Messa preconciliare centrata sulla rinnovazione incruenta del Sacrificio del Calvario, l’uomo è chiamato a partecipare alla passione di Cristo per meritare, anche se indegno, di essere glorificato con Lui, in quella postconciliare diviene commensale di Dio al banchetto in cui celebra la propria gloria fondata sulla libertà. Nel primo caso il cristiano è chiamato a compatire con Gesù, nel secondo è invitato a collaborare con Dio. Se prima adorava, chiedeva perdono e offriva il proprio nulla davanti al Figlio di Dio sacrificato, ora si limita a rendere grazie della libertà che lo rende somigliante a Dio.

Non è un caso se, tra le molte parti della Messa antica eliminate nel nuovo messale, c’è quella in cui prima di salire all’altare il sacerdote si inchina a chiedere perdono come il pubblicano della parabola del Vangelo di San Luca. Lui, che presta il suo corpo a Cristo, confessa a Dio Onnipotente, alla Beata Maria sempre Vergine, al beato Miche Arcangelo, al beato Giovanni Battista, ai Santi apostoli Pietro e Paolo, a tutti i Santi, al chierichetto inginocchiato al suo fianco, al sacrestano che ha preparato l’altare e a tutti i fedeli compresi i più barabba che ha molto peccato in pensieri, parole e opere “mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa”. E ha l’umiltà di farsi confortare anche dall’ultimo dei barabba che gli risponde: “Il Signore abbia misericordia di te e, rimessi i tuoi peccati, ti conduca alla vita eterna”. Se questi, secondo i nuovi canoni, sono farisei che “dicono preghiere”, viene da chiedersi cosa sia il cristiano d’oggi, privo del senso del peccato e indotto dal nuovo rito a considerare compiaciuto: “O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano”.

Poi, una volta uscito di chiesa, il fariseo felice di non essere come gli altri peccatori si avvia a patteggiare con lo spirito mondano: sufficiente e orgoglioso al punto giusto. Questa spina, che i cattolici infanti hanno colto sulla pianta del Vaticano II, ha ridefinito l’antico rapporto Chiesa-mondo. Fino al Concilio, la Chiesa sapeva di dover insegnare una dottrina ostica al vasto campo dell’umanità, che una scrittrice cattolica come Flannery O’Connor chiamava significativamente il territorio del diavolo. Era il mondo come spazio da evangelizzare, ma anche come nemico dichiarato della Chiesa, pericoloso perché impegnato da sempre a combatterla. Lo schema evocava naturalmente la militanza come categoria feriale e ineluttabile del cattolico fervente. Era un modello semplice e lineare, durato quasi duemila anni: la Chiesa insegna, il mondo in parte accoglie, in parte respinge, e così fino alla fine dei tempi. Oggi le posizioni si sono capovolte. La Chiesa si dichiara “in ascolto” del mondo, benigna al cospetto delle sue istanze, bisognosa di imparare, di capire, di comprendere, di cambiare pelle pur di seguire la mondanità in tutte le sue evoluzioni. Scopre di possedere lo stesso sguardo, di avere lo stesso sangue e, fatalmente, si accontenta di fare un po’ di strada insieme.

Così, tenendosi per mano al mondo, senza assegnarsi più il compito di insegnare ma solo quello di accompagnare, la Chiesa prosegue senza freni nel processo di liquefazione. Intimidita da ciò che sta fuori le mura, risulta completamente inerme anche al cospetto dei tradimenti interni. Una vittima perfetta per la collaudata strategia modernista descritta da San Pio X, che non aggredisce frontalmente la dottrina, ma la erode attraverso la tecnica della diluizione. Le verità morali o dogmatiche vengono lasciate decadere e sottaciute, svuotate di significato oggettivo, svaniscono sullo sfondo in dissolvenza, mentre pastori e teologi parlano, parlano, parlano: parlano d’altro e parlano in altro modo. Diffondono il niente sostenuto da un linguaggio approssimativo, evocativo, emozionale che ha esautorato il tradizionale e faticoso linguaggio definitorio, didattico, assertivo. Nulla è dimenticato, ma in realtà tutto è tradito in un limbo un po’ pelagiano e un po’ luterano senza essere mai veramente cattolico.

Spine come questa non sono spuntate improvvisamente con il pontificato di Papa Francesco, ma sarebbe ingenuo tacere che troppi oggi le colgono come fossero i primi fiori di un’altra primavera promessa. In un libro di quarant’anni fa, Jean Madiran definiva fin dal titolo questo fenomeno come “L’eresia del XX secolo”. Una debacle teologica che «si basa sull’immaginario. È una mitologia. Non parte da una concezione falsa di natura e grazia ma da un disconoscimento radicale dell’ordine naturale, il quale porta con sé anche un disconoscimento dell’ordine sovrannaturale. Non si fonda su un aspetto della realtà svalorizzandone o sfigurandone altri aspetti: essa si trova tutta intera fuori da ogni realtà, sta in un limbo ideologico verbale. Non disconosce la realtà naturale e non si inganna: la respinge, distoglie da essa le anime per indirizzarle altrove, verso il nulla».

Il modernismo e i suoi derivati, pur dichiarando l’obiettivo prossimo di una nuova teologia, in realtà, come ha mostrato Karl Rahner, mirano all’impossibilità della teologia. Se attaccano il termine “consustanziale” del simbolo di Nicea non lo fanno per affermare un’altra teologia della Trinità, ma per negarla e sprofondare di conseguenza in un vortice nichilista negando l’intelligibilità del reale. Se i concetti di natura, sostanza e persona cambiano a seconda delle mode filosofiche, la legge naturale finirà per non avere alcuna consistenza immutabile, diventerà espressione della coscienza collettiva. E il cerchio anticristico si sarà chiuso: niente più discorso su Dio e, di conseguenza, niente più discorso sull’uomo e niente più ordine nel mondo. Il programma della rivoluzione.

«La filosofia moderna», dice Madiran, «non è in essenza una filosofia, è un atteggiamento religioso al livello della religione naturale, una contro-religione naturale, l’opposto dei primi quattro comandamenti del Decalogo. Essa contesta ogni dipendenza del soggetto pensante e lo stabilisce in una aseità e in una autarchia. E se la filosofia moderna si è sempre più sviluppata nel senso di una prassi, è che non si trattava soltanto di credere o di pretendere, ma, mostruosamente, di “far sì” che il soggetto pensante si facesse autonomo e indipendente. (…) la praxis moderna equivale a dire che le cose dovrebbero essere solo ciò che il soggetto pensante vuole che siano».

Prima ancora dei fedeli, le vittime di una tale deriva della coscienza nelle lande dell’autonomia sono stati i sacerdoti. Gettati in pasto al mondo senza poterlo abbracciare del tutto per quel Tu es sacerdos in aeternum, quel carattere sacramentale impresso una volta per sempre, si sono trovati improvvisamente fuori posto. Fuori sincrono finanche nell’abbigliamento che è andato scimmiottando quello secolare mantenendo un che di clericale che si percepisce anche a occhio laico. Da qui discende la crisi drammatica, fatta di copiosi abbandoni, di gravi e diffusi problemi morali, di crollo verticale delle vocazioni, di smarrimento di identità e di passione.

Non sarà certo impregnandosi dello stesso odore delle pecore che i pastori riprenderanno a guidare il gregge e a difenderlo dai lupi. Il pastore che sa di pecora, al più, può essere un onest’uomo. Ma i fedeli non possono accontentarsi di parroci che siano solo onest’uomini. L’abate Giovanni Battista Chautard in aureo libretto intitolato «L’anima di ogni apostolato», diceva impietosamente: «A sacerdote santo, si dice, corrisponde un popolo fervente; a sacerdote fervente un popolo pio; a sacerdote pio un popolo onesto; a sacerdote onesto un popolo empio».

Anche per oggi, niente happy end. Ma non fa niente, i bambini ci riprovano, sono fatti così.

© – FOGLIO QUOTIDIANO

L’opzione federalista del vescovo di Roma

Più autonomia alle conferenze episcopali nazionali. E più spazio alle diverse culture. I due punti su cui la “Evangelii gaudium” maggiormente si distingue dal magistero dei precedenti papi.

di Sandro Magister (03/12/2013)

Nella fluviale esortazione apostolica Evangelii gaudium resa pubblica una settimana fa, papa Francesco ha fatto capire di volersi distinguere su almeno due punti dai papi che l’hanno preceduto. Il primo di questi punti è anche quello che ha avuto più risonanza sui media. E riguarda sia l’esercizio del primato del papa, sia i poteri delle conferenze episcopali.

Il secondo punto riguarda il rapporto tra il cristianesimo e le culture.

1. SUL PAPATO E LE CHIESE NAZIONALI

Circa il ruolo del papa, Jorge Mario Bergoglio riconosce a Giovanni Paolo II il merito di aver aperto la strada verso una nuova forma di esercizio del primato. Ma lamenta che “siamo avanzati poco in questo senso” e promette di voler procedere con più slancio verso una forma di papato “più fedele al significato che Gesù Cristo intese dargli e alle necessità attuali dell’evangelizzazione”. Ma più che sul ruolo del papa – dove Francesco resta sul vago ed anzi ha finora operato concentrando in sé il massimo delle decisioni – è sui poteri delle conferenze episcopali che la “Evangelii gaudium” fa presagire una svolta.

Scrive il papa, nel paragrafo 32 del documento:

“Il Concilio Vaticano II ha affermato che, in modo analogo alle antiche Chiese patriarcali, le conferenze episcopali possono ‘portare un molteplice e fecondo contributo, acciocché il senso di collegialità si realizzi concretamente’. Ma questo auspicio non si è pienamente realizzato, perché ancora non si è esplicitato sufficientemente uno statuto delle conferenze episcopali che le concepisca come soggetti di attribuzioni concrete, includendo anche qualche autentica autorità dottrinale. Un’eccessiva centralizzazione, anziché aiutare, complica la vita della Chiesa e la sua dinamica missionaria”.

In nota, Francesco rinvia a un motu proprio di Giovanni Paolo II del 1998, riguardante proprio “la natura teologica e giuridica delle conferenze episcopali”:

> Apostolos suos

Ma se si va a leggere quel documento, si scopre che esso riconosce alle conferenze episcopali nazionali una funzione esclusivamente pratica, cooperativa, di semplice corpo ausiliare intermedio tra il collegio di tutti i vescovi del mondo assieme al papa da un lato – unica “collegialità” dichiarata teologicamente fondata – e il singolo vescovo con autorità sulla sua diocesi dall’altro.

Soprattutto, il motu proprio “Apostolos suos” limita fortemente quella “autentica autorità dottrinale” che papa Francesco dice di voler concedere alle conferenze episcopali. Prescrive che se proprio vogliono emettere delle dichiarazioni dottrinali, lo devono fare con approvazione unanime e in comunione col papa e l’insieme della Chiesa, o almeno “a maggioranza qualificata” con il previo controllo e autorizzazione della Santa Sede.

Un pericolo da cui il motu proprio “Apostolos suos” mette in guardia è che le conferenze episcopali emettano dichiarazioni dottrinali in contrasto tra loro e con il magistero universale della Chiesa.

Un altro rischio che vuole scongiurare è che si creino separazioni e antagonismi tra singole Chiese nazionali e Roma, come avvenne in passato in Francia con il “gallicanesimo” e come avviene tra gli ortodossi con alcune Chiese nazionali autocefale.

Quel motu proprio porta la firma di Giovanni Paolo II, ma deve il suo impianto a colui che era il suo fidatissimo prefetto della dottrina, il cardinale Joseph Ratzinger.

E Ratzinger – si sapeva – era da tempo molto critico dei superpoteri che alcune conferenze episcopali si erano attribuite, soprattutto in alcuni paesi tra i quali la sua Germania.

Nella sua intervista-bomba del 1985, edita col titolo “Rapporto sulla fede”, Ratzinger si era opposto risolutamente a che la Chiesa cattolica diventasse “una sorta di federazione di Chiese nazionali”.

Invece che “un deciso rilancio del ruolo del vescovo” come voluto dal Concilio Vaticano II, le conferenze episcopali nazionali – accusava – hanno “soffocato” i vescovi con le loro pesanti strutture burocratiche.

E ancora:

“Sembra molto bello decidere sempre insieme”, ma “la verità non può essere creata come risultato di votazioni”, sia perché “lo spirito di gruppo, magari la volontà di quieto vivere o addirittura il conformismo trascinano la maggioranza ad accettare le posizioni di minoranze intraprendenti, determinate ad andare verso direzioni precise”, sia perché “la ricerca del punto di incontro tra le varie tendenze e lo sforzo di mediazione danno luogo spesso a documenti appiattiti, smorti”.

Giovanni Paolo II e dopo di lui Benedetto XVI giudicavano modesta la qualità media dei vescovi del mondo e della gran parte conferenze episcopali. E agirono di conseguenza. Facendo essi stessi da guida e da modello e in alcuni casi – come in Italia – intervenendo risolutamente per mutare le leadership e le direzioni di marcia.

Con Francesco le conferenze episcopali potrebbero invece vedersi riconosciuta un’autonomia maggiore. Con i prevedibili contraccolpi di cui è fresco esempio la Germania, dove vescovi e cardinali di primo piano si stanno pubblicamente scontrando sulle questioni più varie, dai criteri di amministrazione delle diocesi alla comunione ai divorziati risposati, in quest’ultimo caso anticipando e forzando soluzioni su cui è stato chiamato a dibattere e decidere il doppio sinodo dei vescovi del 2014 e del 2015.

2. SUL CRISTIANESIMO E LE CULTURE

Quanto all’incontro tra il cristianesimo e le culture, papa Francesco ha molto insistito, nei paragrafi 115-118 della “Evangelii gaudium”, sulla tesi che “il cristianesimo non dispone di un unico modello culturale” ma fin dalle origini “si incarna nei popoli della terra, ciascuno dei quali ha la sua cultura”.

In altre parole:

“La grazia suppone la cultura, e il dono di Dio si incarna nella cultura di chi lo riceve”.

Con questo corollario:

“Sebbene sia vero che alcune culture sono state strettamente legate alla predicazione del Vangelo e allo sviluppo di un pensiero cristiano, il messaggio rivelato non si identifica con nessuna di esse e possiede un contenuto transculturale”.

Dicendo ciò, papa Bergoglio sembra andare incontro a chi sostiene che l’annuncio del Vangelo abbia una sua purezza originaria rispetto a qualsiasi contaminazione culturale. Una purezza che dovrebbe essergli restituita, liberandolo principalmente dai suoi rivestimenti “occidentali” di ieri e di oggi, per consentirgli ogni volta di “inculturarsi” in nuove sintesi con altre culture.

Ma posto in questi termini, questo rapporto tra il cristianesimo e le culture trascura quel nesso inscindibile tra fede e ragione, tra rivelazione biblica e cultura greca, tra Gerusalemme e Atene, al quale Giovanni Paolo II ha dedicato l’enciclica “Fides et ratio” e sul quale Benedetto XVI ha focalizzato il suo memorabile discorso di Ratisbona del 12 settembre 2006:

> Fede, ragione e università

Per papa Ratzinger il legame tra la fede biblica e il filosofare greco è “una necessità intrinseca” che si manifesta non solo nel folgorante prologo del Vangelo di Giovanni: “In principio era il Logos”, ma già nell’Antico Testamento, nel misterioso “Io sono” di Dio nel roveto ardente: “una contestazione nei confronti del mito con la quale sta in intima analogia il tentativo di Socrate di vincere e superare il mito stesso”.

Questo incontro “tra spirito greco e spirito cristiano” – sosteneva Benedetto XVI – “si è realizzato in un modo che per la nascita del cristianesimo e la sua divulgazione ha avuto un significato decisivo”.

Ed è una sintesi – argomentava ancora papa Benedetto – che va difesa da tutti gli attacchi che nel corso dei secoli, fino ai giorni nostri, hanno mirato a romperla, in nome della “deellenizzazione del cristianesimo”.

Ai giorni nostri – faceva notare Ratzinger a Ratisbona – questo attacco si produce “in considerazione dell’incontro con la molteplicità delle culture”:

“Si ama dire oggi che la sintesi con l’ellenismo, compiutasi nella Chiesa antica, sarebbe stata una prima inculturazione, che non dovrebbe vincolare le altre culture. Queste dovrebbero avere il diritto di tornare indietro fino al punto che precedeva quella inculturazione per scoprire il semplice messaggio del Nuovo Testamento ed inculturarlo poi di nuovo nei loro rispettivi ambienti. Questa tesi non è semplicemente sbagliata, è grossolana ed imprecisa. […] Certamente ci sono elementi nel processo formativo della Chiesa antica che non devono essere integrati in tutte le culture. Ma le decisioni di fondo che, appunto, riguardano il rapporto della fede con la ricerca della ragione umana, queste decisioni di fondo fanno parte della fede stessa e ne sono gli sviluppi, conformi alla sua natura”.

Su questo tema capitale, la Evangelii gaudium non necessariamente contraddice il magistero di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI. Ma sicuramente ne è distante.

Anche qui con una evidente simpatia per una pluralità di forme di Chiesa, modellate sulle rispettive culture locali.

© www.chiesa

Sinodo o collegio? Il traduttore corregge il Papa

di Sandro Magister (30/06/2013)

Nella terza e ultima parte dell’omelia pronunciata nella festa dei santi Pietro e Paolo, alla presenza di rappresentanti del patriarcato ecumenico di Costantinopoli, Francesco ha citato tre volte la “Lumen gentium”, la costituzione del Concilio Vaticano II sulla Chiesa.

La prima citazione era tratta dal paragrafo 18, che “come oggetto certo di fede” ripropone “la dottrina della istituzione, della perpetuità, del valore e della natura del sacro primato del romano pontefice e del suo infallibile magistero”.

La seconda era tratta dal paragrafo 19, che ricorda come Gesù costituì gli apostoli “dando loro la forma di collegio, cioè di un gruppo stabile, del quale mise a capo Pietro, scelto di mezzo a loro”.

La terza era tratta dal paragrafo 22, che ribadisce che “il collegio o corpo episcopale non ha autorità, se non lo si concepisce unito al pontefice romano, successore di Pietro, quale suo capo, e senza pregiudizio per la sua potestà di primato su tutti, sia pastori che fedeli”.

Nell’intera costituzione “Lumen gentium” non si fa menzione dell’istituzione denominata sinodo dei vescovi. Anzi, la stessa parola “sinodo” quasi neppure c’è. Vi ricorre una sola volta, come sinonimo del concilio ecumenico stesso.

Del sinodo dei vescovi, in tutti i documenti del Vaticano II si parla brevemente: soltanto nel paragrafo 5 del decreto “Christus Dominus” sulla missione pastorale dei vescovi. Dove si legge:

“Una più efficace collaborazione al supremo pastore della Chiesa la possono prestare, nei modi dallo stesso romano pontefice stabiliti o da stabilirsi, i vescovi scelti da diverse regioni del mondo, riuniti nel consiglio propriamente chiamato sinodo dei vescovi. Tale sinodo, rappresentando tutto l’episcopato cattolico, è un segno che tutti i vescovi sono partecipi in gerarchica comunione della sollecitudine della Chiesa universale”.

È accaduto però che papa Francesco, nel pronunciare la terza parte della sua omelia, sia sia distaccato in tre punti dal testo scritto. E abbia preferito dire “sinodo dei vescovi” invece che “collegio dei vescovi”, e “sinodalità” invece che “collegialità”.

Ecco qui di seguito la trascrizione integrale di questa terza parte dell’omelia, con sottolineate le aggiunte orali al testo scritto:

“Confermare nell’unità. Qui mi soffermo sul gesto che abbiamo compiuto. Il Pallio è simbolo di comunione con il Successore di Pietro, ‘principio e fondamento perpetuo e visibile dell’unità della fede e della comunione’ (Conc. Ecum Vat. II, Cost. dogm. sulla Chiesa Lumen gentium, 18). E la vostra presenza oggi, cari Confratelli, è il segno che la comunione della Chiesa non significa uniformità. Il Vaticano II, riferendosi alla struttura gerarchica della Chiesa afferma che il Signore ‘costituì gli Apostoli a modo di collegio o gruppo stabile, a capo del quale mise Pietro, scelto di mezzo a loro’ (ibid., 19). Confermare nell’unità: il Sinodo dei Vescovi, in armonia con il primato. Dobbiamo andare per questa strada della sinodalità, crescere in armonia con il servizio del primato. E il Concilio continua: ‘questo Collegio, in quanto composto da molti, esprime la varietà e universalità del Popolo di Dio’ (ibid., 22). Nella Chiesa la varietà, che è una grande ricchezza, si fonde sempre nell’armonia dell’unità, come un grande mosaico in cui tutte le tessere concorrono a formare l’unico grande disegno di Dio. E questo deve spingere a superare sempre ogni conflitto che ferisce il corpo della Chiesa. Uniti nelle differenze: non c’è un’altra strada cattolica per unirci. Questo è lo spirito cattolico, lo spirito cristiano: unirsi nelle differenze. Questa è la strada di Gesù! Il Pallio, se è segno della comunione con il Vescovo di Roma, con la Chiesa universale, con il Sinodo dei Vescovi, è anche un impegno per ciascuno di voi ad essere strumenti di comunione”.

Non è la prima volta che papa Jorge Mario Bergoglio fa capire d’essere intenzionato a rafforzare il ruolo del sinodo dei vescovi.

Ma questa volta si è espresso oralmente in una forma che – se messa per iscritto in anticipo – avrebbe fatto alzare il sopracciglio a qualche revisore della congregazione per la dottrina della fede. Perché un sinodo dei vescovi, istituto parziale e transeunte, non è la stessa cosa del collegio episcopale universale, costitutivo da sempre e per sempre della struttura della Chiesa.

Così, quando il traduttore ufficiale in francese dell’omelia di papa Francesco, arrivato all’ultima riga della terza parte si è imbattuto in questa approssimazione, gli è scappato di… correggere il papa, mettendo tra parentesi la traduzione letterale accompagnata da un punto interrogativo:

“… avec le Collège (Synode?) des évêques…”.

Ai giornalisti accreditati presso la sala stampa vaticana, la prima versione in francese dell’omelia del papa è arrivata così come sopra, poco dopo la fine della celebrazione.

Solo più tardi, quando l’omelia è comparsa nel sito del Vaticano, la versione francese è apparsa pulita, senza più la glossa del traduttore.

“… avec le Synode des évêques…”.

Continuità e rinnovamento nel Primato di Pietro

cristianesimocattolico:

INOS BIFFI

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Gesù Cristo ha affidato il governo della sua Chiesa a tutto il Collegio degli Apostoli, costituendo in essa Pietro quale roccia e fondamento.

Non per volontà di Pietro la Chiesa è apostolica; allo stesso modo non per la decisione dei Dodici Pietro detiene il primato: esso, infatti, non consegue a un loro accordo di eleggere Simone come primo tra di loro e come loro rappresentante; deriva invece da una esclusiva e precisa determinazione di Gesù, che sempre singolarmente a Simone ha affidato l’ufficio di Pastore, con il mandato il pascere il suo gregge.

Una Chiesa che non fosse apostolica non sarebbe la Chiesa di Cristo, come non lo sarebbe una Chiesa dove non vi fosse il primato di Pietro.

L’ha ricordato ancora Papa Francesco, nella festa dei santi Pietro e Paolo, spiegando che il Vescovo di Roma deve «confermare nell’unità: il Sinodo dei Vescovi, in armonia con il primato» e con il suo «servizio». Per una chiara disposizione di Gesù Cristo la Chiesa è apostolica e petrina.

Ed esattamente con questa essenziale identità e configurazione la ritroviamo nella Tradizione. In virtù del sacramento dell’episcopato, al Collegio apostolico è succeduto il Collegio dei Vescovi, come a Pietro è succeduto il suo vicario, cioè il Vescovo di Roma.

Il Vaticano II ripropone la dottrina di fede del Vaticano I: rimane cioè intatto quanto dichiarava la costituzione Pastor Aeternus a proposito del Romano Pontefice, che ha «la piena e suprema potestà di giurisdizione su tutta la Chiesa», potestà «ordinaria e immediata», «sia su tutte e su ciascuna delle Chiese sia su tutti e su ciascuno de! i pastori» (Denzinger, 3064).

Con la conseguenza dell’infallibilità – la stessa «di cui il divino Redentore ha voluto dotata la sua Chiesa» –, nel caso in cui il Romano Pontefice parli «ex cathedra», cioè quando, adempiendo il suo ufficio di pastore e maestro di tutti i cristiani, in virtù della sua suprema autorità apostolica definisce che una dottrina riguardante la fede o i costumi dev’essere ritenuta da tutta la Chiesa».

Quindi queste definizioni sono irreformabili per virtù propria, e non per il consenso della Chiesa.

Lo stesso Vaticano I non mancava di ricordare il collegio dei Vescovi, e citava le parole di Gregorio Magno: «Mio onore è l’onore della Chiesa universale. Mio onore è il solido vigore dei miei fratelli. Allora io mi sento veramente onorato, quando ad ognuno di essi non si nega l’onore dovuto».

Il Vaticano II, tuttavia, con la dottrina relativa al Collegio dei Vescovi, completa ed esplicita ampiamente la dottrina del Vaticano I, in particolare rilevando che essi sono preposti al governo della Chiesa universale per istituzione divina, quindi per la potestà ricevuta immediatamente da Cristo e con un «potere loro proprio» (Lumen gentium, n.22). Riconosciuto questo, non è fuori luogo osservare, sulla scia della storia, che la maniera concreta di esercizio del primato può mutare, assumendo, per esempio, una forma maggiormente collegiale.

Già il Concilio di fatto ha istituito il Sinodo dei Vescovi; allo stesso modo può essere diverso, quasi meno “giuridico”, il linguaggio con cui tale primato viene espresso. Occorre, in ogni caso, che resti invariato e si riconosca imprescindibile il suo contenuto dogmatico, dovuto all’istituzione di Cristo, per la quale non esiste Collegio dei Vescovi in cui non sia presente e operante quale Capo il Vicario di Pietro (cum Petro et sub Petro).

Ecco perché – di là dagli orientamenti o preferenze di scuole teologiche (se così si possono chiamare) o dalle simpatie e dalle buone intenzioni – non è affatto conforme con la dottrina di fede, riproposta dal Vaticano II, parlare, secondo un uso che si va diffondendo, del Sommo Pontefice semplicemente come di un «primo tra pari (primus inter pares)», proprio perché il Vicario di Pietro non è “pari”. 

E, ugualmente, non è consono al dogma riconoscergli un primato solo d’onore, dovuto all’origine petrina e paolina della Sede romana, restando indubbio che la sostanza di quel presiedere e governare del successore di Pietro consiste nell’amare e nel servire.

D’altronde, la Chiesa è una realtà unica e originale; una realtà di grazia, che non ha modelli di paragone tra i vari generi di società umana, e che si può comprendere e accogliere unicamente per fede.

© Copyright Avvenire, 30 giugno 2013

Che n’è del Primato di Pietro?

I prodromi

Il 21 novembre 1964, per la chiusura del terzo periodo del Concilio ecumenico, Paolo VI afferma: « La realtà della Chiesa non si esaurisce nella sua struttura gerarchica, nella sua liturgia, nei suoi sacramenti, nei suoi ordinamenti giuridici » …il che segna sostanzialmente il passaggio da una Chiesa, vista come gerarchica, come società perfetta, a una Chiesa vista come comunione di fratelli. Da una Chiesa sempre tesa a difendere i suoi spazi e i suoi diritti, a una Chiesa che vuole essere solo lievito nella pasta. Lievito all’interno delle sue strutture, lievito all’interno delle altre religioni. Da una Chiesa vista come chiusa in se stessa preoccupata della sua conservazione – ma così era realmente? –  a una Chiesa come comunità aperta al mondo, popolo di Dio in cammino. Un principio che gli sembrò doversi esplicare in quanto fin allora implicito nell’ecclesiologia cattolica fu quello della collegialità, divenuto uno dei maggiori criteri di riforma della Chiesa.

Il problema nasce dalla contraddizione tra la democratizzazione che scaturisce da questa nuova visione di Chiesa e la sua costituzione divina. Viene inadeguatamente applicato alla Chiesa il principio che regola le comunità civili, ignorando la differenza tra esse e Chiesa di Cristo: le comunità civili prima si pongono in essere e poi si danno e formano il proprio governo. In ciò esercitano la loro libertà, mentre in esse stesse si fonda originariamente e fontalmente ogni giurisdizione comunicata alle autorità sociali. Al contrario, la Chiesa non si è data da se stessa né ha formato da sé stessa il suo governo, ma è stata fondata in toto da Cristo il cui disegno preesiste all’esistenza stessa dei fedeli. La Chiesa è dunque una società sui generis in cui il capo è anteriore alle membra e l’autorità viene prima della comunità.[1]

Quindi una dottrina che ponga la sua base nel popolo di Dio democraticamente concepito e nel sentimento e nell’opinione del popolo di Dio, è antitetica a quella della Chiesa dove l’autorità non è chiamata ma chiama, e dove tutti i membri sono servi di Cristo, obbligati al precetto divino.

Sui poteri del Pontefice e sul suo rapportarsi alla collegialità dunque molto influisce l’ambiguità della Lumen Gentium  alla quale Paolo VI, messo sull’avviso dai Padri del Coetus Internationalis Patrum, cercò di rimediare con la Nota Praevia stesa sotto la supervisione del Cardinal Ottaviani. E tuttavia tale nota, con molta coerenza progressista posta in calce alla Costituzione, viene sistematicamente “saltata” essendo, appunto, “praevia”…

La Chiesa è per sua natura gerarchica. E il Papa (CIC, can.331), in virtù della sua funzione di Vicario di Cristo, ha nella Chiesa un potere ordinario supremo, pieno, immediato e universale, che può sempre esercitare liberamente. Il potere gli deriva dalla sua funzione e non da una sorta di presidenza del collegio episcopale. Del resto, il can. 1404 recita: Prima Sedes a nemine iudicatur.

La dottrina del Vaticano I e del Vaticano II nella Nota praevia definisce il Papa principio e fondamento dell’unità della Chiesa, giacché è conformandosi a lui che i vescovi si conformano tra di loro. Non è possibile poggino la loro autorità su un principio immediato che sarebbe comune alla loro potestà e a quella papale. Ora con l’istituzione delle Conferenze episcopali e con gli organismi Sinodali la Chiesa è un corpo policentrico a vari livelli nazionali o provincie locali. Conseguenza immediata è un allentamento del vincolo di unità che si manifesta con ingenti dissensi su punti gravissimi.

La nuova ecclesiologia conciliare sancita da Lumen Gentium si armonizza con la “Pastor æternus” circa la giurisdizione universale del Romano Pontefice (n.18), però azzarda un avventuroso allargamento di questa mediante la dottrina della collegialità vescovile come organo di governo accanto e analogo a quello del Sommo Pontefice (nn.19, 22). Nonostante la “Nota esplicativa previa”, mons. Gherardini osserva che « dottrina della Chiesa è quanto la sua Tradizione, dagli Apostoli sino ad oggi, presenta e propone come tale: la collegialità non ne fa parte ».

Lumen Gentium, al n.19 dichiara: « Il Signore Gesù, dopo aver pregato il Padre, chiamò a sé quelli che egli volle, e ne costituì dodici perché stessero con lui e per mandarli a predicare il regno di Dio (cfr. Mc 3,13-19; Mt 10,1-42); ne fece i suoi apostoli (cfr. Lc 6,13) dando loro la forma di collegio…»

Non mancano perplessità, nelle posizioni più tradizioniste, se si pensa che il termine “collegio” per designare l’episcopato non ricorre né nella Sacra Scrittura né nella Tradizione della Chiesa antica. Apostoli vuol dire ‘mandati’: il Signore li manda due a due non in “collegio”… C’è anche da osservare che il “collegio” si fonda su una potestà giuridica e morale, mentre si diviene vescovi per via sacramentale, ovvero mediante un quid che è nel contempo fisico e mistico come lo è l’unità della Chiesa.

La collegialità, per effetto della creazione di strutture sovra diocesane come le Conferenze Episcopali, rischia di diminuire non solo l’autorità del pontefice ma anche quella dei singoli vescovi nelle loro diocesi. Inoltre non è peregrina l’osservazione che se i vescovi, per diritto divino, costituiscono un vero e permanente collegio in senso stretto, con a capo il romano pontefice, ne deriva come prima e non unica conseguenza che la chiesa in modo abituale dovrebbe essere governata dal Papa con il collegio episcopale. In altre parole, il governo della Chiesa, per diritto divino, non sarebbe monarchico e personale, ma collegiale. È Giovanni Paolo II che ha inserito la collegialità nel nuovo Codice di Diritto Canonico trasformandola così in legge (Costituzione Apostolica Sacrae disciplinae leges, 25 gennaio 1983).

In effetti si manifesta una duplice inconciliabilità nel principio del rapporto tra Primato e collegialità. Basti pensare alla tesi dell’unico soggetto (collegio dei vescovi e romano pontefice) e i dati del magistero che, pur senza posizioni dichiarative parlano di due distinti soggetti (LG 22). All’interno stesso di questa suddivisione, la stessa inconciliabilità si coglie tra le esigenze metafisiche dell’autorità nella vita sociale e la realtà ecclesiale compresa alla luce della rivelazione cristiana.

Lumen Gentium, al n. 22 evidenzia una tensione che, ultimamente, manifesta la difficoltà di « collocare all’interno di una concezione collegiale  del ministero episcopale che scaturisce da un’ampia prospettiva storico-salvifica della Chiesa come communio la dottrina del Vaticano I, la quale si distingue per una visione della Chiesa apologetica, giuridica  e astorica ed inoltre concentrata sul Papa ».

La Chiesa in tutte le epoche risente di -ismi di vario genere, dai quali la sua, che è anche la nostra, storia terrena non è mai esente. Ma assolutizzare certi aspetti per giustificare la rivoluzione Copernicana operata dal concilio è stata un’operazione prevenuta e ideologica. Di certo era necessario aggiornare ciò che era rinnovabile e meglio organizzabile, non rifondare la Chiesa.

Si pretende dunque che la visione Chiesa-comunione sia la scoperta del Vaticano II e vada a sostituirsi a quella di società perfetta ed oggi appare dominante come se più vicina alle assonanze bibliche  specificamente neotestamentarie, come se potesse finalmente sintetizzare alla perfezione tutto il rapporto con Dio fino al concilio non esattamente compreso. Ma il rischio più grande è quello di ricondurre tutto ad un’interpretazione puramente psico-sociologica, ai bisogni e alle attese umane. Acquista valore la Chiesa locale, come se l’universalità della Chiesa e tutto il suo mistero prima del concilio non le appartenesse a pieno titolo.

Possibile che nessuno abbia mai detto a costoro che la Chiesa, fin dal suo nascere ad opera del Salvatore, se non fosse stata e rimasta “comunione” dei Suoi in Lui, non sarebbe mai stata LA Chiesa?

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1. Romano Amerio. Iota unum, Lindau 2009, 470

Bergoglio e la caccia all’untore….

cristianesimocattolico:

( I puntata ) Strano paese il nostro! Se qualcuno  grida su internet : “ All’untore ! all’untore ! ” tutti , persino gli antichi datori di lavoro, dichiarano per iscritto :  ” non conosco quell’uomo ” . Così il malcapitato viene accusato del più tremendo dei delitti : ” essere  tradizionalista ” ( anche se NON lo è )”  e ” reo  di lesa maestà pontificia ” … Ma noi siamo testardi. Abbiamo notato “ qualcosa” di strano in questa gigantesca “ caccia all’untore”  ripresa anche da alcuni siti stranieri . In sede dipartimentale infatti non è stato mai mostrato l’unico corpo del reato : un articolo comparso su Il Foglio il 19 aprile scorso. Eccolo ! Non è contagioso… e possiamo anche dissentire ( totalmente o in parte ) sul suo contenuto . L’articolo non parla di morale, ne’ di dogmi di fede e neppure dei curricula dei  Chierici … cita il Concilio Vaticano II e altri atti del Magistero : c’era allora bisogno di gridare ai quattro venti ” all’untore! all’untore! ” con il serio  pericolo  di rovinare il futuro di un ragazzo venticinquenne musicista liturgico ? Cerchiamo di capire, per poter reagire di conseguenza,  se l’Autore dell’articolo “incriminato”, Mattia Rossi, è un individuo socialmente pericoloso perché quando si alza dalla consolle dell’Organo per mettersi davanti al computer si tramuta in una specie di Dott. Jekyll …  Noi sappiamo come vanno a finire queste cose  … dopo questa condanna mediatica ci sarà in futuro qualche Chierico che farà suonare l’Organo al  ”meschino calunniato”? A.C. 

Quella che è stata salutata come il primo segnale verso la tanto bramata riforma della Curia, la nomina da parte di Francesco di una commissione di otto “saggi” – i quali, per inciso, non hanno mai avuto esperienza alcuna della Curia: una sorta di “grillismo” vaticano (ma, a proposito, sapranno i cardinali riformatori-curiali trovare i bagni del Vaticano?) –, porta con sé una novità epocale: mai, nella storia della Chiesa, un Sommo Pontefice si era avvalso di un organo consultivo. Da più parti, nel mondo tradizionalista, è stato messo in evidenza come anche quest’ultimo atto di Papa Francesco vada nell’esatta direzione di ennesimo tentativo demolizione del concetto di papato – inteso come divina istituzione di un “primus super pares” – in favore di una collegialità episcopale all’interno della quale il Papa, che diventa nientemeno che il “vescovo di Roma” e basta, è un “primus inter pares”. Certo, il Papa rimarrebbe come decisionista ultimo, è vero, epperò è altrettanto vero che tale nuovo organismo viene a rappresentare una palude di sabbie mobili per la stabilità della gerarchia apostolica e del primato petrino. La fonte legittimatrice di tale dottrina di collegialità orizzontale è il numero 22 della costituzione Lumen gentium partorita dal Concilio Vaticano II: “L’ordine dei Vescovi (…) insieme col suo Capo il Romano Pontefice, e mai senza questo Capo, è pure soggetto di suprema e piena potestà su tutta la Chiesa”. Secondo le più innovatrici interpretazioni di tale passo (che, si dice, fece piangere amaramente Paolo VI), appunto, il Papa non dovrebbe più conservare un primato verticale sugli altri vescovi, ma solamente un primato orizzontale, onorifico, nel quale egli sarebbe un vescovo e le varie conferenze episcopali altro non sarebbero che organi consultivi. Ora, è evidente che con la creazione della commissione degli otto cardinali, esplicitamente chiamati per “affiancare” il “vescovo di Roma” nel governo della Curia, non si fa altro che istituzionalizzare i sospetti che arrivano da destra circa la nuova teoria di collegialità. E lo ha anche dichiarato, sul Corriere della Sera di lunedì, monsignor Marcello Semeraro, segretario del gruppo degli otto, il quale ha definito il neonato consiglio “uno strumento che si aggiunge, in aiuto al Pontefice”, “un piccolo sinodo di comunione che riunisce vescovi di tutto il continente (…) Non c’è solo collegialità, c’è comunione”. Se i timori di quanti paventano un ridimensionamento, più che della Curia, del papato, saranno fondati, lo si potrà definire solamente nel tempo. Intanto, la dottrina cattolica è quella del Magistero di sempre. Il Papa è papa, sì, perché è vescovo di Roma, ma proprio perché Roma, da sempre, sin dal cristianesimo primitivo, conserva un primato di universalità, Egli è Papa perché regge l’Orbe cattolico con un governo assoluto. Il Papato, al netto della scomparsa del triregno, è un’istituzione monarchica assoluta di derivazione divina, prima di essere “una comunione” con il collegio episcopale. Se la de-sacralizzazione dell’istituzione, con il consiglio degli otto, portasse il papato a una banalissima democrazia episcopale rappresentativa con il vescovo di Roma quale portavoce, avrebbe, come già evidenziava De Mattei (Il Foglio del 28 marzo scorso), tremende ricadute teologiche: “il Papa prima di essere un uomo è un’istituzione divina: prima di essere il Papa è il papato”. 

Mattia Rossi 

© IL FOGLIO, 19 aprile 2013

«Il gruppo dei cardinali? Una decisione “figlia” del Concilio» – Vatican Insider

L’arcivescovo Marchetto commenta l’istituzione del mini-sinodo di otto porporati chiamati a consigliare il Papa e a collaborare alla riforma della Curia.

«Il gruppo dei cardinali? Una decisione “figlia” del Concilio» – Vatican Insider

Il colpo di grazia alla Cristianità Occidentale?

Continua, purtroppo, la disputa rigorosamente mediatica sulle recenti vicende della evoluzione (o involuzione?) del Papato, che non possono non suscitare interrogativi finanche nelle persone indifferenti distratte e lontane. Figuriamoci nei credenti più attenti, che passano dalla sorpresa alla sconcerto, allo sgomento.

Oggi leggiamo su Il Foglio, un articolo dal titolo Se il Papa regni o no, che riporta la confutazione delle dichiarazioni di Roberto De Mattei da parte del teologo Andrea Grillo, docente presso il Pontificio Ateneo Sant’Anselmo.

È un dato secondario l’iniziale confutazione ad uno storico di fare il teologo, perché De Mattei non ha parlato solo da storico ma da credente. E la teologia non può non essere il linguaggio del credente che esprime concetti basati su una lettura sapienziale di eventi che toccano le fibre più profonde e più fondanti della Fede professata che lo anima e forgia la sua spiritualità e quindi anche il suo essere-nel-mondo (ma non del mondo).

L’affermazione davvero significativa, e francamente allarmante del “teologo” Grillo è, invece, la seguente, incastonata nella conclusione dell’articolo:

Grillo, che di mestiere [il “mestiere” non garantisce l’infallibilità, ndR] studia ciò che è più vivo del mistero cristiano, la liturgia, sostiene che “quello che cambia oggi con Papa Francesco non è il personaggio ma l’istituzione”. Proprio questo spaventa De Mattei e i suoi amici che, dopo l’ipoteca lanciata sul pontificato di Ratzinger (il quale peraltro li ha spiazzati con la sua rinuncia), temono il peggio. “Invece questo è ciò che dobbiamo accogliere docilmente come novità dello Spirito, non irrigidendoci su modelli che nel passato hanno giocato un ruolo importante ma che da almeno un secolo meritano di essere adeguatamente e pacatamente riformati”.

Intanto cominciamo col distinguere tra teologo e teologo: non è scontato che un teologo, cioè colui che approfondisce lo studio sulla fede e sulle cose sacre e lo esprime, sia sempre inserito nell’alveo della teologia nutrita dal Magistero perenne e non corra il rischio di scadere in discorsi spuri e svianti. 

Nell’affermazione citata noto che il termine “riforma”, dagli echi infaustamente sinistri, appare ormai definitivamente sdoganato e intronizzato nella vulgata della cultura egemone in luogo dell’apparentemente innocuo roncalliano  aggiornamento e degli altri eufemismi tipo ermeneutica della continuità, usati nell’ultimo cinquantennio per addormentare i cuori e le coscienze dei credenti. Salvo poi scoprire che si tratta della “riforma nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa…” (famoso discorso alla Curia del 22 dicembre 2005), di stampo prettamente storicista, che sostituisce l’oggetto-Rivelazione che la Chiesa incarna e trasferisce in ogni epoca.

A questo punto si impone una domanda, in seguito ad una riflessione già fatta qui: Il primato petrino e i segni dei tempi. Un papa che rifiuti consapevolmente e volutamente di fare il Papa, nel senso di non esercitare nella sua pienezza l’alta funzione assegnatagli dal Signore che contestualmente fonda la Sua Chiesa, dove la sta portando? La vera Chiesa può essere spogliata e snaturata in questo modo? Possibile che non ci sia un cardinale, un vescovo, un sacerdote che dia delle indicazioni cattoliche? È davvero così prematuro farlo?

Noi non ci fermiamo al sentimentalismo ed alla superficialità della demagogia o alla moda del tempo. Vogliamo una Chiesa docente da una cattedra perenne da parte di maestri reggitori e santificatori (il triplice munus sacerdotale, appunto) e non da guitti protagonisti di rappresentazioni sceniche di segno pauperistico e in definitiva profanatorio.

La profanazione delle cose sacre potrà continuare senza avere effetti devastanti? La dissoluzione che riscontriamo nella politica e nel resto-del-mondo non ha forse le sue radici nei risvolti metafisici e corrispondenti ripercussioni sulla realtà di quanto accade nella Chiesa? A che prezzo dunque si potrà continuare su questa china di “fatti compiuti” senza spiegazioni – peraltro dovute ai credenti – da parte di chi li compie?

Se dei credenti hanno ravvisato una profanazione = trasferimento in luogo-non-consacrato di cose che appartengono al fanum = luogo consacrato, anzi al suo Sancta Sanctorum (mi riferisco alla Lavanda dei piedi – [vedi anche]), possono essi contentarsi delle giustificazioni demagogiche di un Ufficio-stampa tarato sulle aspettative del mondo nonché su alcune sbrigative parole apodittiche senza alcun supporto teologico da parte del Papa?

Concludo col messaggio di un lettore che ritengo focalizzi il problema che ci si pone e che mette in questione un primo tentativo di riscontro alle perplessità qui espresse con le prediche indubbiamente cattoliche del nuovo Papa.

Purtroppo non posso parlare con cognizione di causa, ma vi propongo, anche per verificarla, un’ipotesi che mi pare non venga considerata. Qualcuno, ha detto che la società sudamericana è meno secolarizzata di quella europea e che lì il problema del cattolicesimo sono piuttosto i famosi “lupi famelici”, le denominazioni protestanti di stampo pentecostale che gli sottraggono fedeli – e nelle quali immagino che i concetti di peccato, diavolo ecc. siano piuttosto frequentati. Se è così, probabilmente in America latina parlare di queste cose è meno inusuale e “fuori moda” che da noi. Che Francesco lo faccia quindi potrebbe non essere indice di retta dottrina, ma, unito a tutto quello che sappiamo, potrebbe integrare un quadro di dottrina distorta in un modo diverso da come siamo abituati qui in Europa. Non è detto che non ci sia comunque qualcosa di positivo, ma forse non tanto positivo quanto può sembrare.

Occorre semplicemente una verifica che alle belle parole non seguano fatti e atti divergenti.  

Germania, Chiesa separata in casa

Tra i problemi che papa Francesco dovrà affrontare c’è sicuramente quello della tendenza di alcuni episcopati a “regionalizzare” la Chiesa, dando maggiori poteri alle Conferenze episcopali. È il caso della Germania e più in generale dei paesi europei di lingua tedesca, dove la maggioranza dell’episcopato spinge ad allontanare la Chiesa locale dalla sede di Pietro.

di Michele Poropat (La Bussola Quotidiana, 27-03-2013)

In questi giorni circola con insistenza sul web un breve video tratto dalla telecronaca diretta dell’emittente polacca TV TRWAM della visita di Papa Benedetto XVI in Germania risalente al settembre 2011, e che mostrerebbe – così affermano coloro che fanno circolare questo video – una presunta umiliazione subita dal Papa da parte dei vescovi tedeschi, la maggioranza dei quali non gli stringerebbe la mano.

In realtà le cose stanno diversamente. A un’attenta analisi delle immagini si vede bene come il Papa alzi la mano non per stringere la mano ai vescovi, bensì per presentare i membri della delegazione vaticana e i vescovi tedeschi all’allora Presidente Christian Wulff – tra l’altro, al primo posto tra i dignitari ecclesiastici in fila, si vede il Cardinal Bertone. Trae in inganno il fatto che alcuni vescovi stringano comunque la mano al Papa, gesto che non faceva parte del protocollo. Il Papa viene ‘disturbato’ nella presentazione proprio dalle strette di mano impreviste, e il Presidente, di confessione cattolica e che quindi conosceva molto bene i vescovi che gli venivano presentati, va avanti per conto suo, quasi senza aspettare il Papa. Da qui l’immagine del Papa un poco spaesato e in ritardo rispetto alle strette di mano di Wulff.

Ma un motivo per cui è stato facile equivocare quelle immagini è nel fatto inconfutabile che Papa Benedetto XVI non sia stato particolarmente amato nel suo Paese. Primo Papa tedesco da un millennio a questa parte (Adriano VI, eletto nel 1522, era infatti originario di Utrecht, e quindi olandese), ha subito trovato l’ostilità dei suoi connazionali. Le voci piuttosto contrariate dei commentatori della rete televisiva tedesca ZDF al momento dell’annuncio della sua elezione, il viso teso e sconsolato dei cardinali Lehmann e Kasper intervistati la sera stessa dalla medesima ZDF, il saluto assai poco deferente rivoltogli nel 2005 nel Duomo di Colonia quale «vescovo di Roma alla sua prima visita pastorale al di fuori dei confini della sua diocesi», il fatto che tra i suoi connazionali, fedeli laici ma anche sacerdoti, il Papa sia stato comunemente chiamato Herr Ratzinger, fanno comprendere con quale scarso amore buona parte della Chiesa tedesca abbia accolto l’elezione al soglio di Pietro di questo grande figlio della terra bavarese.

Dalla maggioranza dei vescovi dell’area linguistica tedesca Benedetto XVI è stato fatto oggetto di una malcelata ostilità personale, poiché considerato come il continuatore delle politiche dei suoi predecessori, da Paolo VI a Giovanni Paolo II, che avrebbero affossato le riforme del Concilio Vaticano II. Il Papa è stato considerato come il massimo rappresentante di un’esecrabile visione conservatrice, per non dire reazionaria, della Chiesa e della sua azione nel mondo, e caratterizzata da una forte chiusura alla modernità e alle vere esigenze del popolo di Dio.

Questa ostilità si è tradotta, già durante il pontificato di Giovanni Paolo II, ma in modo ancora più marcato con Benedetto XVI, in un progressivo allontanamento della Chiesa locale tedesca dalla giurisdizione della Santa Sede e quindi della Chiesa universale. Con il pretesto di instaurare un ‘processo di dialogo’ tra la componente più conservatrice e fedele al Papa, in Germania decisamente minoritaria, e quella che rappresenta posizioni più liberali, i vescovi hanno di fatto istituito uno pseudo Concilio locale destinato a ridisegnare le posizioni della Chiesa tedesca su quelli che vengono considerati i temi ecclesiali più bollenti e attuali: il cosiddetto sacerdozio femminile, l’abolizione del celibato dei sacerdoti, un allentamento della morale sessuale e la liceità dell’utilizzo dei contraccettivi, l’accettazione dell’omosessualità, l’ammissione alla Comunione dei divorziati risposati e dei protestanti, quindi gli stessi temi su cui insistono i ribelli austriaci della Pfarrerinitiative guidati da Helmut Schüller.

Constatando che la soluzione di questi problemi a livello di Chiesa universale avverrebbe con eccessiva lentezza, la Chiesa tedesca ha deciso di intraprendere un cammino che rappresenta in pratica la sua trasformazione in Chiesa autocefala, con il ridimensionamento del ruolo del Papa, da quello di detentore della giurisdizione e del primato sulle realtà temporali e spirituali dell’intera Chiesa universale (e quindi anche della sua porzione operante entro i confini della Repubblica Federale Tedesca) a quello di primus inter pares, che può vantare una vaga autorità spirituale e una scarsa, se non nulla, potestà giuridica.

Non si tratta di un piano segreto, bensì di un progetto attuato passo dopo passo alla luce del sole. In un’intervista concessa lo scorso dicembre all’agenzia tedesca di informazione cattolica KNA, l’arcivescovo di Friburgo e Presidente della Conferenza Episcopale tedesca, Mons. Robert Zöllitsch, ha auspicato l’avvio di un processo di ‘regionalizzazione’ nell’applicazione di soluzioni dei problemi della Chiesa, vale a dire che con riferimento ai temi scottanti menzionati in precedenza, cominciando dall’ammissione alla Comunione dei divorziati risposati, la Chiesa tedesca sarebbe andata per conto suo senza tenere conto delle regole stabilite dal magistero ordinario del Santo Padre. Se questo non è uno scisma, poco ci manca.

In questa direzione va anche intesa anche la risposta dello stesso Mons. Zöllitsch alla lettera che Benedetto XVI ha inviato ai vescovi tedeschi chiedendo la modifica della traduzione del passo in latino del canone della Santa Messa pro multis da für alle (per tutti) a für viele (per molti). Per il vescovo di Friburgo la missiva del Papa rappresentava «un importante contributo al dibattito in corso», formulazione un poco singolare se vista dall’ottica di chi considera il Papa il pastore supremo della Chiesa universale, quindi in possesso della facoltà di stabilire un tale cambiamento, ma perfettamente lineare per chi lo vede come un’autorità le cui indicazioni non sono vincolanti.

Del resto, questa tendenza è confermata apertamente dal Card. Kasper, il quale, in una recente intervista ha affermato che serve «una nuova modalità nell’esercizio del governo della Chiesa», la cosiddetta collegialità, che andrebbe a suo dire nella direzione richiesta dal Concilio Vaticano II, e sarebbe una manifestazione «dell’unità nella diversità tra tutti i credenti nel Vangelo e di un maggiore dialogo con le altre religioni». Tale ‘collegialità’, secondo Kasper, «deve estendersi dai vescovi a forme di rappresentanza di tutte le componenti del popolo di Dio». Lo stesso Card. Lehmann, durante una Messa di suffragio di Papa Giovanni Paolo II nel 2005, ha lamentato la scarsa capacità di dialogo del defunto pontefice all’interno della Chiesa.

Abbandonando il clericalese, due tra le maggiori personalità ecclesiali tedesche reclamano appunto un ridimensionamento dell’autorità del Papa (la presunta ‘collegialità’), e sotto il pretesto del ‘dialogo’, l’annacquamento dei principi su cui si fonda la fede cattolica a motivo di un falso sentimento di unità con le altre confessioni cristiane e le altre religioni, un pericolo denunciato da Paolo VI già nel 1968 e fondato sullo stravolgimento dei principi fondanti il Concilio Vaticano II.

In Germania, e più in generale nei Paesi di lingua tedesca, sta avvenendo con metodicità l’attuazione, passo dopo passo, dei desiderata della Pfarrerinitiative. Del resto, i vescovi austriaci hanno iniziato a dare qualche buffetto – ma nessun provvedimento restrittivo serio – a Schüller e ai suoi seguaci solamente quando questi hanno lanciato il cosiddetto ‘Appello alla disobbedienza’. Non è apparsa inaccettabile la sostanza delle richieste dei ribelli, bensì il fatto che essi abbiano usato la parola tabù: disobbedienza, appunto.

Bisogna purtroppo notare come in questi Paesi l’azione pastorale dei vescovi abbia ormai assunto i tratti di un’inestricabile babele, una cacofonia di voci che distolgono i fedeli dal cammino verso la salvezza.

Abbiamo così due cardinali arcivescovi (Schönborn di Vienna e Woelki di Berlino) che pubblicamente hanno mostrato comprensione verso le unioni omosessuali, mentre altri due cardinali (Lehmann, vescovo di Magonza e l’ex curiale Kasper), col pubblico plauso di Schüller, si dichiarano favorevoli al diaconato femminile, richiesta di natura esclusivamente tattica, e che rappresenta il tentativo di aprire il terreno a una futura ‘ordinazione sacerdotale’ delle donne. A quest’ultima si sono detti pubblicamente favorevoli Iby di Eisenstadt in Austria (ora dimissionato), Büchel di San Gallo in Svizzera e Fürst di Rottenburg-Stoccarda in Germania. Il cardinale Meisner di Colonia, tra l’altro millantando un presunto via libera del Papa attraverso Mons. Georg Gänswein,  ha invece aperto la strada all’autorizzazione a somministrare la ‘pillola del giorno dopo’ alle donne vittime di stupro, misura che con sorprendente rapidità è stata in seguito presa dall’intera Conferenza Episcopale tedesca.

C’è chi, come il vescovo di Salisburgo Kothgasser, nel corso di un incontro con i sacerdoti della sua diocesi ha affermato che la pedofilia nel clero rappresenta una diretta conseguenza dell’imposizione del celibato  – un sacerdote presente a quell’incontro ha dichiarato: «Io, che vivo il celibato, mi sono sentito accusare di essere un pedofilo o potenziale pedofilo» -. Nella Diocesi di Linz, il vescovo Schwarz ha mantenuto per tre anni Josef Friedl nel suo incarico di parroco di Ungenach, prima che questi si ritirasse per motivi di salute, nonostante egli avesse pubblicamente ammesso di convivere con una donna – oltre a constringerlo a dimettersi da decano, l’unico rimprovero fatto dal vescovo al suo sacerdote, è stato quello di averne parlato in pubblico-. Da notare anche che proprio il parroco Friedl è stato uno dei più violenti oppositori alla nomina di mons. Gerhard Wagner a vescovo ausiliare di Linz, opposizioni che hanno costretto Wagner a rinunciare alla nomina.

Il vescovo di Hildesheim, in Germania, Mons. Robert Trelle, lo scorso anno ha avuto la brillante idea di festeggiare la fine della ristrutturazione della locale cattedrale organizzando in essa un pranzo con le maestranze che avevano svolto i lavori a base di porchetta allo spiedo e fiumi di birra. Come fosse normale, la stessa Diocesi ha posto le fotografie del pranzo sul proprio sito Internet, salvo poi ritirarle una volta scoppiate le polemiche per una tale profanazione del luogo sacro.

Nella Cattedrale di Bamberga, in Baviera, in occasione dei 1000 anni dalla sua costruzione, nel marzo dello scorso anno si è tenuta una mostra di arte moderna. Le immagini ‘moderne’, presunte rivisitazioni di passi della Sacra scrittura, poste accanto alle immagini sacre, e che definire blasfeme è davvero poco sono chiamate Hortus conclusus, ed è il modo in cui l’autore vede la Vergine Maria (richiamata dal Cantico dei Cantici appunto come orto chiuso), hanno trovato l’entusiastica lode del vescovo locale, Mons. Ludwig Schick, secondo il quale questa mostra ha rappresentato un invito a vivere di nuovo le opere d’arte del Duomo in modo più intenso, nonché a osservare e valutare l’arte contemporanea. Secondo Schick, con la mostra si dà un segno che l’«arte non è alla fine, bensì continua, continua a essere creata, anche l’arte religiosa. Ciò che è di religioso nell’uomo, lo spirituale, il meditare su ciò che Dio dà agli uomini, può essere stimolato attraverso il confronto con l’arte contemporanea» (per vedere quale ‘stimolo’ religioso sia esercitato dal confronto con l’arte contemporanea vedi qui)

Al contrario, i vescovi fedeli al Papa senza tentennamenti subiscono emarginazione e dileggio: un esempio di tale situazione è rappresentato da mons. Vitus Huonder, vescovo di Coira in Svizzera, malvisto dai media, ma anche dai suoi confratelli vescovi e dagli stessi sacerdoti della sua diocesi – pochissimi parroci lo accolgono nelle proprie parrocchie per il conferimento della Cresima.