Giovanni Paolo II e la deriva dei gesuiti

Papa Giovanni Paolo II aveva ereditato dai suoi predecessori la patata bollente della questione gesuita. Fin dai tempi di Teilhard de Chardin una parte dell’ordine si era messa su una strada divergente da quella del Magistero perenne; si era mostrata desiderosa di novità, di cambiamenti, di aggiornamenti e di riforme, insomma si era mostrata certa che la Chiesa, per riacquistare “credibilità” fra la gente, dovesse rompere con alcuni aspetti del suo modo di porsi tradizionale, e mostrarsi più sensibile e attenta alle nuove richieste dei fedeli, prime fra tutte la questione sociale e quella sessuale.

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Storia dell’autodemolazione del cattolicesimo in Olanda

La Chiesa olandese ha pagato a caro prezzo l’aver seguito negli anni ’60 il mito di una Chiesa del futuro che si adeguasse al mondo. Primo obiettivo: abolire il celibato sacerdotale. Ma la conseguenza è stata il gran numero di preti che hanno abbandonato e il crollo delle vocazioni.

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Altro che continuità, qui c’è una voragine

La vera storia degli undici libretti sulla “teologia” di papa Francesco.

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La desacralizzazione delle chiese? È colpa del gesuita Rahner & Co.

Se si trattasse di sciatteria potrebbero esserci attenuanti, ma le nuove forme di okkupazione delle chiese con eventi profani e di cattivo gusto hanno radici teologiche lontane. Che affondano, guarda un po’, in Karl Rahner e nel suo tentativo di togliere il sacro perché ormai il mediatore tra Dio e l’uomo è il mondo. Invece la chiesa, per la presenza del Santissimo Sacramento dell’altare, è un luogo “metafisico” e non più solo storico.

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Denzinger, e il mondano dimezzato

È durata poco l’intervista volterriana. Francesco contro lo spirito del mondo. Denzinger, pioniere del dogma. Rahner: buona coscienza e libero esame. Si assolvono i peccatori, non i peccati, ecco il punto.

di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro (20/11/2013)

Accolta “con gioia” come si usa nella Chiesa d’oggi, difesa senza “se” e senza “ma”, ermeneutizzata come si conviene e poi, alla fine, ritirata dal sito internet vaticano, dove era rimasta un mese e mezzo: da famosa che era, l’intervista di Papa Francesco a Eugenio Scalfari è stata archiviata con un semplice click. Attendibile nel suo complesso, ha spiegato il direttore della sala stampa padre Lombardi, non lo è in alcune singole parti, anche se il controverso passaggio sulla coscienza sarebbe “del tutto compatibile con il Catechismo della Chiesa cattolica”.

Pur deposta nei faldoni della semplice cronaca, tale vicenda rimane a indicare un tasso di confusione eccessivo persino per un ospedale da campo. È davvero strano che nessuno si sia chiesto, preventivamente e prudentemente, se l’intervistatore della stampa volterriana fosse un malato venuto a farsi curare o un untore neanche troppo mimetizzato. Riconoscere cosa vi sia nell’animo dell’interlocutore mondano è questione che lo stesso Papa Francesco, nell’omelia di Santa Marta di lunedì scorso, ha indicato come essenziale. Commentando un passo del “Libro dei Maccabei” ha messo in guardia dal rischio di fare mercimonio della fedeltà al Signore, poiché lo spirito del mondo negozia tutto. Ma l’istantanea della chiesa postmoderna ritrae da decenni un luogo di mediazione più che una cittadella decisa a resistere. Un posto dove molti agiscono con aria di sufficienza nell’adozione di criteri, metodi e strumenti necessari per comprendere tanto le lusinghe del mondo quanto i lamenti della Chiesa.

La tensione al ragionevole rigore di moda sotto Benedetto XVI, che insieme all’ascesi e alla preghiera mette al riparo dalle sirene del mondo, pare evaporata. Oggi, basta solo richiamare la precisione affilata e caritatevole con cui la chiesa si è sempre espressa su fede, dottrina e morale per passare come ideologizzati specialisti del Logos. Guai a chi osi evocare l’opera di un benemerito pioniere della teologia dogmatica come Heinrich Denzinger: si viene tacciati di voler sostituire il Vangelo con il suo Enchiridion Symbolorum, quel cristallino compendio dei principali testi del magistero che dovrebbe fare da argine là dove il mondo interroga, provoca, negozia, corrompe. Aggiornato costantemente nel corso dei decenni, il “Denzinger”, che ha preso il nome del suo primo autore, è uno dei riferimenti più sicuri per chiunque voglia conoscere e praticare il perenne pensiero della chiesa: ma non piace più, irrita, infastidisce. Per scoprire la ragione di tale avversità basterebbe andare su Wikipedia, dove, in un’impietosa, sinteticissima riga, si legge: «Il grande teologo fondamentale gesuita Karl Rahner ha tuttavia messo in guardia studenti e studiosi sul rischio riduzionistico di una “teologia del Denzinger”». Se si considera che, nella Chiesa contemporanea, l’inventore della teoria dei “cristiani anonimi” ha sostituito san Tommaso come doctor communis, diviene comprensibile l’universale avversione per il “Denzinger”, severo giudice di chiunque ami abbandonarsi a un qualunque incontro personale con il Vangelo. In qualche modo, ritorna in superficie il tema della coscienza personale che Rahner, confratello di Papa Francesco, ha descritto nella Fatica di credere in termini che hanno indubbiamente fatto scuola, e che scuola:

“Chiunque segue la propria coscienza, sia che ritenga di dover essere cristiano oppure non-cristiano, sia che ritenga di dover essere ateo oppure credente, un tale individuo è accetto e accettato da Dio e può conseguire quella vita eterna che nella nostra fede cristiana noi confessiamo come fine di tutti gli uomini”.

“In altre parole: la grazia e la giustificazione, l’unione e la comunione con Dio, la possibilità di raggiungere la vita eterna, tutto ciò incontra un ostacolo solo nella cattiva coscienza di un uomo”.

Posto davanti al Vangelo, un pensiero simile non può che rifuggire il cogente rigore del “Denzinger”, che è il cogente rigore della Chiesa. Ma la fede cattolica non può risolversi nel semplice incontro personale con il Vangelo. Lo spiega il domenicano padre Roger-Thomas Calmel nella Breve apologia della Chiesa di sempre: «Che ci sia dunque un andirivieni frequente dalla lettera della Scrittura alle formule dei Concili e del Catechismo e viceversa. Passiamo dalla lettera dell’Antico o del Nuovo Testamento alle definizioni conciliari o pontificie per meglio coglierne il contenuto esatto, il vero significato del testo sacro. Poi ritorniamo dai Concili e dal Catechismo al semplice testo scritturale per non perdere mai di vista il dato vivo, concreto, soprannaturale, inesauribile, del quale le formulazioni del magistero ecclesiastico esprimono, con tutta la precisione necessaria, la profondità e il mistero».

La guerra al “Denzinger”, e quindi all’armonioso dipanarsi e manifestarsi della dottrina perenne della Chiesa, viene da lontano. Non a caso Rahner spiega che «gli enunciati della fede tradizionale sono inadeguati, in buona parte, per lo meno per quanto concerne ciò che è necessario prima di ogni altra cosa: l’annuncio della fede (…) Proposizioni come “vi sono tre persone in Dio”, “noi siamo salvati dal sangue di Gesù Cristo” sono puramente e semplicemente incomprensibili per un uomo moderno (…) esse fanno la stessa impressione della pura mitologia di una religione del tempo passato».

Secondo il teologo gesuita, dunque, al palato dell’uomo contemporaneo, Gesù che resuscita Lazzaro ha lo stesso sapore di Ercole che sconfigge l’Idra o di Teseo che uccide il Minotauro. Quindi non rimane che riformare l’annuncio e sintonizzarsi sulla lunghezza d’onda della modernità, trarre le parole dai desideri del nuovo uditorio.

Giuseppe Siri, un cardinale che rischiò di diventare papa, coglie lucidamente la questione, quando in Getsemani scrive: «Il grande principio di morte è il principio di secolarizzazione: il mondo contiene la forza della plenaria realizzazione degli uomini e ne è anche l’ambiente, in cui lo scopo della vita dell’uomo deve essere raggiunto; occorrerebbe dunque abolire ogni distinzione tra sacro e profano, tra chiesa e mondo». Diagnosi confermata da quanto Edward Schillebeeckx andava dicendo nel 1970: «In Cristo è ora possibile dire “Amen” alla realtà mondana e considerarla come culto poiché, dopo l’apparizione di Gesù, sulla terra abita la pienezza di Dio».

Se l’oggetto del nuovo culto è il mondo, diventa impossibile entrarvi in conflitto. I vescovi americani che contestano Barack Obama, evidentemente, non seguono Rahner o Schillebeeckx. Ma centinaia di gesuiti con le loro università cattoliche e centinaia di suore in rivolta dicono “Amen” al presidente e rendono culto al mondo. Il vero problema dell’ospedale da campo è distinguere chi vi distribuisce la medicina buona e chi fa eutanasia al paziente.

Se è vero che lo spirito mondano induce a negoziare finanche la fedeltà a Dio, come ha detto il Papa nell’omelia del 18 novembre, bisognerebbe avere anche il coraggio di denunciare chi, nell’accampamento cattolico, si macchia di intelligenza col nemico. Non è possibile additare le lusinghe del mondo e tollerare un Rahner che dice: «Con il progredire della storia della grazia, il mondo diviene sempre più indipendente, maturo, profano, e deve pensare ad auto-realizzarsi. Questa crescente mondanità storica (…) non è una sventura che si contrappone ostinatamente alla grazia e alla chiesa, ma è invece il modo nel quale la grazia si realizza a poco a poco nella creazione».

Sulla scia dell’ambiguo e ossessivo “primato della Parola” e del “sola fide” di matrice luterana, la chiesa ha finito per specchiarsi nell’orizzonte ribaltato di un pelagianesimo che nega il senso del peccato e osanna il mondo. L’esito è comunque il depotenziamento della tradizione e della funzione di mater et magistra. Il libero esame, il soggettivismo, la “sola scriptura” prendono la scena svuotando di significato il ruolo dei vescovi e del Papa. Ma l’orizzonte logico di tale operazione è debolissimo poiché è la tradizione a precedere e definire la parola: è la chiesa a stabilire quali siano i testi sacri e come vadano interpretati. Fatto che determina l’impossibilità di parlare di “religione del libro”, posto che i testi sacri sono oggettivamente diversi nella lettera e nella loro interpretazione. La chiesa precede storicamente e logicamente la scrittura e per questo, spiega il cardinale Siri, «colui che relativizza la Tradizione relativizza la Scrittura».

La bellezza perenne e unica del cattolicesimo sta nella capacità di comporre e armonizzare tutti questi elementi. Sta nella continua tensione tra ragione e mistero, tra anelito terreno e risposta celeste che, pazientemente, crea un calco nel quale la creatura si adagia, magmatica e informe, per risorgerne solida e levigata, come la farfalla da una crisalide. Perché conoscere la dottrina significa amarla e pregarla assecondandone forme e definizioni. È come un dire le preghiere secondo formule dettate da altri con precisione ispirata e insondabile. Allora, lontano dai sentimenti, dalle divagazioni, dagli inutili discorsi, senza uno iota di troppo, sgorga quel che della beatitudine è concesso su questa terra, che è un dire sottovoce, un fare e un vivere invece che un discorrere: «I molti discorsi non appagarono l’anima», insegna l’Imitazione di Cristo, «ma la vita buona dà ristoro alla mente».

L’annuncio a Maria narrato da San Luca non produrrebbe nelle anime oranti la stessa tensione verso il “partorire Dio” predicato da sant’Ambrogio se il Concilio di Efeso, nel 431, non avesse affilato la lama della dottrina definendo la Vergine Theotokos, Madre di Dio: «Se qualcuno non Confessa che l’Emmanuele è Dio nel vero senso della parola, e che perciò la Santa Vergine è madre di Dio perché ha generato secondo la carne il Verbo che è da Dio, sia anatema». Non vi è nulla di più amato dalla gente cristiana aliena al mondo che un tale rigore. «Tutto il popolo della città rimase in attesa dal mattino alla sera, aspettando il giudizio del santo sinodo», racconta san Cirillo d’Alessandria, che fu l’artefice di quella decisione. «(…) Alla nostra uscita dalla Chiesa, fummo ricondotti fino alle nostre dimore. Era la sera, tutta la città si illuminò, donne camminavano innanzi a noi con incensieri. A coloro che bestemmiavano il suo Nome, il Signore ha dimostrato la sua onnipotenza».

A saperlo leggere, a studiarlo in amorevole andirivieni con la Scrittura, il “Denzinger” racconta queste storie e alimenta la vita buona che, a sua volta, nutre la mente. È la vita della Chiesa che corre lungo i secoli dandovi forma, è la tradizione che bussa imperiosamente alle anime chiamandole a scegliere. Non vi è alternativa nella guerra allo spirito mondano: alla tentazione di negoziare persino sulla fede si può opporre solo l’immutabilità e l’irreformabilità del magistero. Per tutta la sua vita, la chiesa lo ha fatto, contendendo al mondo il tempo e lo spazio, le due dimensioni in cui si espande la tradizione. Le definizioni raccolte dal “Denzinger” si sono tramandate senza mutare nel corso dei secoli e, senza mutare, hanno raggiunto gli avamposti più remoti della fede. Quelle stesse pagine che ora si trovano facilmente a stampa in libreria, hanno corso il mondo in itinerari avventurosi che Harold Innis ha raccontato nel suo epico Impero e comunicazioni. Hanno viaggiato su pergamena, “supporto pesante” adatto al permanere della verità religiosa irreformabile e perenne, a differenza di ciò che viaggiava su papiro e su carta, “supporti leggeri” che alimentavano la burocrazia civile caduca e fallace.

Così, la Chiesa di Roma ha propagato il regno di Cristo e ha conquistato, anima per anima, le intelligenze più semplici e quelle più laboriose, tutte bisognose dello stesso nutrimento. Se John Henry Newman non si fosse trovato al cospetto di verità e pronunciamenti immutabili nello spazio e nel tempo, non avrebbe mai avuto la forza e l’esigenza di lasciare la comunione anglicana per entrare nella chiesa di Roma. Nell’Apologia pro vita sua, il cardinale spiega che compì il gran passo verso casa solo quando si rese conto che gli argomenti degli anglicani contro i padri del Concilio di Trento erano gli stessi di quelli contro i padri del Concilio di Calcedonia, che condannare i Papi del Sedicesimo secolo voleva dire condannare anche quelli del Quinto: «Il dramma della religione, il combattimento della verità e dell’errore erano sempre gli stessi. I principi e i procedimenti della chiesa d’oggi erano identici a quelli della Chiesa d’allora; i principi e i procedimenti degli eretici di oggi erano quelli dei protestanti di oggi. Lo scopersi quasi con terrore».

Ma la Chiesa non lascia da sola anima alcuna davanti a una verità che possa atterrire. A ciascuno porge la carezza rigorosa e soave del rito. La tradizione si presenta sempre all’uomo attraverso un poema sacro che nel cattolicesimo, come scrive Domenico Giuliotti, ha la sua espressione celeste nella celebrazione eucaristica: «La Messa, e non già la Divina Commedia, è il “poema” veramente “sacro al quale hanno posto mano e cielo e terra”. (…) Dio, la Trinità e tutti gli Angeli ne formano l’argomento. La Consacrazione, che rinnova l’Incarnazione, è il punto culminante di questo immenso mistero. E il Prete n’è, al tempo stesso, il taumaturgo e il poeta».

Emanazione del Cielo in terra, tradizione e liturgia sono quasi consustanziali persino nel metodo con cui gli uomini hanno contribuito alla loro formazione. Mentre una è il repertorio di pensieri da cui è decaduto tutto, tranne ciò che dice definitivamente il divino, l’altra è la composizione di gesti e di parole immutabili depurati da ciò che è solo umano. Sono due ingressi allo stesso mondo, dove ciascuno riceve perennemente ciò che gli spetta, in qualunque luogo si trovi e in qualunque tempo viva. Sulla terra non vi è nulla di più equo. Lo racconta con soave precisione Newman nel romanzo Perdita e guadagno, là dove descrive i pensieri e le sensazioni del giovane protagonista che, per la prima volta, assiste a una celebrazione cattolica: «Quello che lo colpì più di tutto fu che, mentre nella chiesa d’Inghilterra l’ecclesiastico oppure l’organo erano tutto e la gente non era niente, salvo che veniva rappresentata al funzionario laico, qui era esattamente il contrario. Il prete diceva poco o niente, almeno in modo da farsi sentire, invece l’assemblea era come un solo vasto strumento un panharmonicum che suonava insieme; cosa ancora più mirabile, pareva che suonasse da solo. (…) Le parole erano in latino, ma tutti le capivano benissimo, e offrivano le loro preghiere alla Santissima Trinità, e al Salvatore incarnato, e alla grande Madre di Dio, e ai santi nella gloria del Paradiso, con nel cuore un’energia pari a quella con cui davano voce al suono. Vicino a lui c’era un ragazzino, e una povera donna, che cantavano a squarciagola. No, qui non ci si poteva sbagliare, Reding disse fra sé e sé: “Questa sì che è una religione popolare”».

A quei tempi, nella Chiesa, la stessa dottrina e la stessa liturgia erano buone per tutti, per i santi e per i peccatori, per i vivi e per i morti, per i romani e per i barbari. Per questo la religione cattolica era equanime e misericordiosa: era popolare. Ancora non risuonava il lamento che più tardi avrebbe vergato Nicolás Gómez Dávila: «La Chiesa un tempo assolveva i peccatori, oggi ha deciso di assolvere i peccati».

© – FOGLIO QUOTIDIANO

Il complotto dell’idealismo contro la Chiesa

di P. Giovanni Cavalcoli, OP, da Riscossa Cristana (27/10/2012)

Oggi il Magistero della Chiesa parla raramente di “idealismo” come pericolo per la fede. Ne fanno cenno Pio XII nella Humani Generis, e S. Pio X nella Pascendi sotto il nome di “immanentismo”, nonché il Beato Giovanni Paolo II nell’enciclica Fides et Ratio. Ne accennò un documento della CDF in preparazione della beatificazione di Antonio Rosmini, per ribadire il carattere idealistico della famose 40 proposizioni condannate da Leone XIII ut littera sonat, ma per precisare che esse non riflettevano l’ispirazione di fondo del grande e santo Roveretano. L’idealismo è una forma di razionalismo assoluto (“il reale è razionale e il razionale è reale”, come dice Hegel); e sotto questo nome certamente è colpito anche dal Papa attuale, il quale riprende la condanna pronunciata dal  Beato Pio IX nel Sillabo.

Qui uso il termine “idealismo” in senso ampio, e penso non senza ragione, che poi spiegherò, e senza escludere i meriti dello stesso idealismo, del quale, lo dico subito, esistono due forme fondamentali: quella platonico-agostiniana, che riappare in S.Bonaventura, e questa è di tutto rispetto, anche se non priva di difetti, e quella, veramente pericolosa, che nasce con Cartesio e culmina con Hegel e seguaci sino ai nostri giorni, presente oggi persino all’interno della Chiesa, per cui si sta oggi diffondendo per esempio una cristologia di tipo panteista sotto l’influsso di Hegel. Vedi per esempio Küng e Rahner. L’idealismo è come la razza dei funghi: bisogna cogliere quelli sani ed evitare quelli velenosi.

Ciò che accomuna le due forme di idealismo e che fà sì che si usi lo stesso temine nei due casi è l’esaltazione dell’ideale, come ente mentale, visto come modello immutabile di perfezione, intimo alla coscienza, in qualche modo ipostatizzato, come fine e principio dell’agire morale e come superiore al reale, il quale ne è immagine o partecipazione.

Se questo ideale, come in Platone, è divino e trascendente, nessun pericolo per la verità e la salvezza dell’uomo. Ma se l’idea diventa un principio originario costitutivo della coscienza umana, idea che nega l’esternità dell’essere al pensiero e risolve il reale nell’ideale, e il pensare umano  così può innalzarsi da sé (“autotrascendenza”) alla coscienza della propria divinità in forza di questa strutturale, implicita, “preconcettuale” ed originaria divinità, allora nascono i guai e la salvezza dell’uomo falsamente inebriatosi della propria divinità, è in realtà condannata al fallimento.

La Chiesa non ha mai condannato anzi ha lodato la prima forma di idealismo, soprattutto quello agostiniano, anche se ne ha condannato certe deformazioni come in Lutero e Giansenio – sappiamo quanto il Papa attuale abbia simpatia per Agostino e Bonaventura. Tuttavia bisogna dire con franchezza che la Chiesa – un’infinità di documenti lo attestano[1] – preferisce S.Tommaso, col suo realismo legato ad Aristotele, più consono al realismo biblico.

Invece ha nettamente condannato la seconda forma di idealismo, il cosiddetto “idealismo trascendentale”, per riprendere il titolo stesso di un’opera programmatica dello Schelling, appunto uno dei massimi esponenti di questo idealismo.

È a questa seconda forma di idealismo, peraltro in un significato esteso, che intendo riferirmi in questo articolo. Allora: idealismo perché e in che senso? Avrei potuto parlare più genericamente di “modernismo” o forse anche di massoneria, per rifarmi a quell’articolo del Codice di Diritto Canonico che scomunica chi fosse affiliato ad un società segreta che “complotta contro la Chiesa”. Nel precedente Codice si faceva esplicito riferimento alla massoneria. Nel nuovo il termine è scomparso, ma non perché oggi non ci siano associazioni che complottano contro la Chiesa, ma perché non c’è solo la massoneria.

Il mio venerato docente di diritto canonico, il Padre Antonino Berizzi, OP, ci diceva spesso: nessun canone del Diritto Canonico è una mera astratta precauzione, ma ciascuno di essi è motivato dal fatto che ciò a cui si riferisce è un caso effettivamente esistente o esistito. Per questo è semplicemente ingenua per non dire ipocrita l’osservazione di certi buonisti per la quale oggi non esisterebbero società che “complottano contro la Chiesa”, atteso il fatto che essa, secondo loro, da tempo sta dialogando tranquillamente col mondo e la cultura moderna, per cui il parlare di Chiesa perseguitata o sofferente o minacciata sarebbe un discorso da guastafeste o l’apparire di una  spaventosa strega nel bel giardino, come avviene nella favola Il Mago di Oz, si tratterebbe di un arretrato “profeta di sventura”, contro il quale, come si sa, se la prese a suo tempo il Beato Giovanni XXIII.

I tradimenti, le inadempienze, gli scandali, le eresie, gli abusi liturgici, i vizi morali, le ingiustizie e le persecuzioni di fratelli contro fratelli che si ripetono da decenni, questi buonisti non li vedono, perché per loro, per riprendere una frase del Card. Martini, mai la Chiesa è andata così bene come oggi, salvo poi l’osservazione del medesimo Cardinale – pace all’anima sua – negli ultimi giorni della sua vita, che “la Chiesa è rimasta indietro di duecento anni”, manifestando chiaramente, se non voleva contraddirsi, che per lui esistono due Chiese: la sua, moderna, e aggiornata e tranquilla e un’altra Chiesa (quella del Papa?), piagnucolosa e brontolona, rimasta indietro non solo rispetto al Vaticano II, ma anche al Vaticano I e che non ha ancora recuperato – come commentò argutamente un giornalista della BBC – il messaggio liberatorio dell’illuminismo appunto di due secoli fa, come invece ha fatto la Chiesa del card. Martini.

Così, sotto il termine “idealismo” vorrei mettere quelle dottrine che in vario modo possono essere ad esso collegate, per avere in comune con esso la medesima anima: non solo quello che da tempo si è convenuto di chiamare “antropocentismo” (la “svolta antropologica” di Karl Rahner, estrema conseguenza dell’antropocentrismo rinascimentale), ma anche più esplicitamente tutte le forme di panteismo antiche o moderne, dai Veda indiani al parmenidismo che giunge fino ai nostri giorni, dall’antica sofistica all’ermetismo, allo gnosticismo, al razionalismo assoluto, alla mistica protestante, ebraico-kabbalistica e ed islamico-sufista, all’apofatismo buddista o zen ed alla teosofia di Elena Blavatsky, fino a New Age ed alla stessa massoneria esoterica.

Nella sua lunga storia, i pericoli più gravi la Chiesa li ha subìti non tanto da parte del materialismo, facilmente individuabile da chi ha un minimo di sensibilità per la dignità dell’uomo, quanto piuttosto dal falso spiritualismo, che inganna anche i pastori, i teologi e le anime votate alla perfezione. Il cristianesimo è anelito al divino, per cui il cristiano è ingannato più da ciò che appare sublime che da ciò che è volgare. Inganna più il falso teismo che l’ateismo aperto. Ora, sta proprio qui la pericolosità dell’idealismo rispetto a tutte le altre ideologie di tipo sensista, edonista, empirista, positivista, evoluzionista, materialista, ateo.

Per tale motivo, per riferirmi a questo complotto internazionale potrei parlare semplicemente di “modernismo”, ma preferisco citare l’idealismo nel suddetto senso, perché, mascherato com’è da misticismo, biblicismo e spiritualità, sotto le vesti, come ha detto qualcuno, di un’“audace speculazione”, è l’insidia più pericolosa e ad un tempo più fascinosa per la Chiesa soprattutto riguardo alla sua classe dirigente, o, se vogliamo usare l’espressione tradizionale, “Chiesa docente”, ossia la gerarchia e i teologi.

Infatti nel modernismo di oggi, ben più complesso di quello dei tempi di S.Pio X, è possibile constatare la presenza di molte altre tendenze, come lo scientismo, il positivismo, il marxismo, l’esistenzialismo, la fenomenologia, l’empirismo, il protestantesimo, i dissidenti ortodossi, che non mi sembrano costituire il pericolo che invece viene dall’idealismo.

È comunque, nel suo insieme, questa complessa, intricata e potente rete di personaggi, tendenze, gruppi, associazioni, movimenti a livello internazionale che oggi in forme ora aperte ora soprattutto nascoste, complottano contro la Chiesa, mediante elementi infiltrati che sono i modernisti. E il loro piano non è più quello dello scontro globale frontale, ossia quello dell’ateismo e materialismo sette-ottocentesco platealmente anticlericale, apertamente, duramente, spavaldamente e sfacciatamente empio e bestemmiatore – pensiamo per esempio a un  Voltaire, a un Reimarus, a uno Strauss, a un Feuerbach, a un Marx, a un Renan, a un Comte, a un Freud o un Nietzsche. E oggi gli eredi di costoro sono legione.

In sostanza, quali sono le mire del suddetto complotto? Si possono riassumere nel progetto di una nuova Chiesa, in rottura con la precedente, e quindi una falsificazione della Chiesa così come è stata voluta da Gesù Cristo ed è conservata dalla Chiesa Cattolica sotto la guida del Papa.

E in che consiste tale falsificazione? Nel mantenimento delle strutture giuridico-esterne, compreso il Papa riveduto e corretto, poi l’organizzazione ai vari livelli e nelle diverse forme dell’autorità nel campo della gerarchia, degli istituti accademici, culturali, educativi, religiosi e laicali, nonché la prassi sacramentale e liturgica dovutamente reinterpretata, le opere sociali, assistenziali e missionarie della Chiesa.

Tutto ciò avviene sulla base di una “fede” intesa non come conoscenza o dottrina, ma come “esperienza atematica” o un vago ed equivoco “incontro con Cristo”, dove, bene che vada, la fede è confusa con la carità. L’emotività irrazionale sostituisce la volontà (nihil volitum nisi cognitum). Siccome tuttavia la mente umana non può fare a meno dei concetti, sotto il manto dell’“esperienza trascendentale”, i concetti ortodossi vengono sostituiti con concetti eretici, che risultano o da decurtazioni o da sincretismi con altre ideologie e altre religioni.

Contemporaneamente a questo svuotamento dei contenuti dottrinali e quindi comportamentali, si riduce la Chiesa, pur conservando a parole i suoi titoli di fede, ad una collettività semplice umana, e si abbandona l’idea di Chiesa come società fondata sulla Rivelazione divina secondo l’interpretazione della medesima Chiesa.

In tal modo, eliminando o relativizzando o reinterpretando la dogmatica, la Chiesa diventa una semplice associazione filantropica basata su di un’etica meramente naturale, razionale o scientifica, insomma una specie di entità politica, sociologica  o umanitaria tra le altre, senza alcuna pretesa di possedere verità divine obbligatorie per tutti, con la sostituzione di un ideale umanistico a quello della santità, insomma una società meramente umana alla pari di tutte le altre sotto l’autorità dello Stato, al quale soltanto spetta in ultima istanza e al di sopra di ogni altra istanza la cura del bene e del progresso dell’umanità. Lo Stato si sostituisce alla Chiesa nell’intento di procurare all’uomo il massimo bene possibile.

Sempre secondo questo progetto, tutt’al più ciò che la Chiesa crede o fa diventa una semplice figura, un simbolo, un segno o una metafora di ciò che effettivamente lo Stato divinizzato compie. Per esempio, i sacramenti non sono più segni del potere di un Dio trascendente, ma del potere divino dell’uomo-Dio. Quindi praticamente si cade nella magia.

L’opera missionaria non è più l’annuncio perentorio del Vangelo con l’intento di convertire i popoli a Cristo, purificandoli dall’errore e dal peccato, ma è la serena convivenza delle varie “fedi”, tra le quali, una tra le altre, c’è anche la fede cattolica. Ognuno deve seguire la propria “fede”. Nessuna esortazione, nessun richiamo, nessun avvertimento, nessuna correzione, che saprebbe di sopruso o violenza, ma soltanto “dialogo” e pacifico “confronto”, così come si confronta con piacere la differenza tra le rose, le viole o i ciclamini. Infatti tutti si salvano, quale che sia la religione alla quale appartengono e i peccati che hanno commesso. Pretendere che tutti si facciano cattolici sarebbe come pretendere che tutti i fiori si adeguino alla forma delle rose o dei papaveri.

Questo progetto che non esiterei a definire “diabolico”, tanto è falso rispetto al vero Vangelo, tanto è dannoso ed insieme insidioso, sopprime nel dato rivelato soprattutto la protologia, l’Incarnazione del Verbo e l’escatologia, le quali diventano semplici miti o figure di forze o dinamismi operanti all’interno della storia: lo stato d’innocenza e il peccato originale diventano rispettivamente l’originaria bontà o divinità dell’uomo; il peccato diventa il polo negativo della dialettica dell’evoluzione storica o dell’apparire dell’Assoluto.

L’Incarnazione e la parusia non sono più la venuta di un Dio trascendente nella storia, ma diventano il progetto della finale divinizzazione dell’uomo. La figura di Gesù Cristo è mantenuta (ecco l’insidia), ma è falsificata (i “falsi cristi”!). Essa o è ridotta a dimensioni meramente umane (il “profeta escatologico” di Schillebeeckx), se si ammette il teismo o, nel caso dell’antropologia panteista (“trascendentalista”), appare come il vertice sommo della divinità dell’uomo (la “cristologia trascendentale” di Rahner).

Tutto in fondo si potrebbe riassumere in quell’errore devastante, preso da alcuni troppo alla leggera, che il Magistero denuncia ormai da decenni sotto il nome di “secolarismo”, che si associa al liberalismo, all’indifferentismo religioso e al relativismo morale, mentre nel contempo nega ogni autorità infallibile del Magistero della Chiesa, e quindi la credibilità del dato rivelato. Come Rahner stesso teorizza, non c’è più distinzione tra sacro e profano, ma il sacro è la “radicalità del profano” e il “profano si autotrascende nel sacro”.

In questo quadro, le istituzioni ecclesiastiche, le credenze, le dottrine teologiche e la guida dei pastori compreso il Papa diventerebbero nei loro contenuti e nelle loro direttive pratiche semplici simboli, figure o immagini soprattutto a livello popolare, della suprema verità o della “scienza” assoluta custodita dal nuovo clero: i filosofi e i sapienti laici, eredi di Hegel. L’antica mistagogìa o anagogìa cristiana è sostituita dall’esoterismo gnostico e dalla falsa mistica dell’“esperienza trascendentale preconcettuale ed atematica” di Karl Rahner, desunta dalla filosofia di Heidegger.

Infatti, in questo progetto che sta diventando sempre più palese ed acquistando credibilità nella Chiesa, mano a mano che i suoi esecutori si sentono sicuri di poterlo realizzare, il Magistero della Chiesa dovrebbe perdere la sua pretesa di infallibilità e di definitività, e servirebbe solo ad interpretare e ad avallare la direzione vera della compagine ecclesiale, che spetterebbe – come sostiene Rahner – allo stesso popolo credente che si esprimerebbe in una classe di dotti – i ministri del culto (uomini e donne), i teologi e i biblisti -, ai quali soli spetterebbe la guida dottrinale e morale dell’insieme dei credenti, mentre i vescovi, sempre secondo la proposta di Rahner, avrebbero un compito solo pastorale e non dottrinale, limitando il loro campito a recepire e a registrare le decisioni del popolo di Dio che è ispirato da Dio. Dunque non una forma di ateismo aperto, invece un apparente teismo che in realtà è ateismo, che mette l’uomo al posto di Dio.

Infatti, il nome di Dio, come specchietto per le allodole o acchiappacitrulli, verrebbe mantenuto, ma indubbiamente si avrebbe o un Dio meramente naturalistico, come nella teologia di Schillebeeckx, dove la “grazia” è solo un nome per significare una generica benevolenza divina, che si trova anche nell’Ebraismo (hesed) o nell’Islam o nell’Induismo, oppure un Dio come “orizzonte della trascendenza umana”, di un’umanità che è già aprioristicamente divina (l’“esistenziale soprannaturale”), secondo il progetto panteistico rahneriano, o una cristologia “cosmica”, “punto Omega” del mondo come materia che evolutivamente “si autotrascende”, secondo il progetto teilhardiano, tutte idee che sono già state sistematizzate o accolte dalla massoneria illuministica ed esoterica. Nessun contrasto con la massoneria: la pace è fatta!

Addirittura, poi, dall’inizio del secolo scorso, per chi lo desidera e non riesce a digerire S.Tommaso d’Aquino ad litteram, è in atto un addomesticamento della teologia del Dottore Angelico, per il quale sarà possibile dirsi tomisti, o secondo un “tomismo” kantiano, come fece Maréchal, o hegeliano-heideggeriano, come tentò Rahner, o come hanno tentato altri, cosa che potrebbe andar bene con la pizza napoletana (alle acciughe, al salmone, alla cipolla, ecc.), ma che è semplicemente disonesta e pericolosissima se fatta col Dottore Comune della Chiesa.

Il Catechismo Olandese e il Corso Fondamentale sulla Fede di Rahner sono poi la magna carta di questa nuova Chiesa, chiaramente in contrasto col Catechismo della Chiesa Cattolica. Questi novatori, come è noto, si richiamano al Concilio Vaticano II, ma del tutto a torto, come i Papi stanno gridando sgolandosi da cinquant’anni, eppure tanti grulli ci credono.

Che cosa fare? Tenere gli occhi aperti e non lasciarsi imbonire, non lasciarsi spaventare dalle minacce, fossero anche quelle di persone costituite in autorità. La somma autorità è il Papa col Collegio dei vescovi unito a lui e chi osa comandare senza questa comunione col Magistero, comanda illegalmente ed invano e sarebbe colpa morale obbedire. Infatti in questo caso il disobbediente non è il suddito ma l’autorità che disobbedisce al supremo Magistero e con ciò stesso disobbedisce a Dio.

Certo è paradossale che la persecuzione oggi venga da fratelli di fede, da coloro che per primi dovrebbero sostenerci ed aiutarci nella fede e nella confutazione delle false dottrine. Ma Gesù lo aveva previsto ed Egli stesso del resto è stato respinto dalle autorità religiose del suo tempo.

Occorre che i vescovi dei paesi di antica tradizione cristiana, oggi compromessa, prendano in mano coraggiosamente la situazione, senza temere critiche, impopolarità, derisioni, emarginazione, e guardando a quei vescovi che sono in prima linea in mezzo ai non credenti, per esempio nei paesi islamici. I Francescani da ottocento anni abitano insieme con ebrei e musulmani in Terra Santa: come hanno fatto senza farsi ebrei o senza farsi musulmani?

Un vescovo che da noi ha paura di passare per sorpassato, integrista o conservatore, che rinuncia a correggere gli erranti e rifugge dal sostenere i pochi fedeli normali, che farebbe nelle circostanze nelle quali a Mons. Padovese è avvenuto che un fanatico gli tagliasse la gola? Sarebbe capace di affrontare un situazione simile? Ma la debolezza favorisce la prepotenza dell’avversario.

Esiste un complotto all’interno della Chiesa ma c’è anche l’avanzata dell’Islam, il quale non nasconde certo i suoi propositi come fanno i modernisti, ma ce li sbatte in faccia con arrogante e spavalda sicumera, presentandosi apertamente, in alternativa al cristianesimo, come vera salvezza e come nemico di Cristo e della Chiesa. Se qualche infedele offende Maometto si scatena la rivoluzione. Se qualche sciagurato tra di noi cattolici insulta la figura di Nostro Signore, si invoca, sempre tra di noi, magari con l’intervento di qualche vescovo,  la libertà di pensiero o di espressione artistica. I modernisti temono di più di offendere Maometto che non Gesù Cristo.

Tuttavia bisogna riconoscere che almeno l’Islam ammette la  religione  naturale.  Allora l’ideale sarebbe, come prescrive il Concilio, e come fanno alcuni saggi sull’esempio del Papa, di poter dialogare con l’Islam su questo comune terreno della religione naturale, nella speranza della sua conversione. Ma col fideismo su questo punto di tanti teologi su entrambi i fronti, l’impresa pare difficilissima, anche per la ritrosia degli islamici a convertirsi e la fiacchezza con la quale i cattolici propongono la loro fede, quando la propongono. Tuttavia non dobbiamo perderci d’animo. La Chiesa, con la forza divina del suo Signore e Sposo, continua a mantenere il timone della storia. Restiamo tra i flutti nella barca di Pietro!

Infatti, questo progetto diabolico potrà essere sventato solo con una fedele interpretazione ed applicazione del Concilio, che ci è stato dato dallo Spirito Santo per intercessione della Beata Vergine Maria. Nessuno dunque si lamenti del Concilio per qualunque motivo, ma lo veda come luce ed ancora di salvezza per i terribili pericoli che Satana ha escogitato per il nostro tempo.

[1] Uno storico domenicano della metà del secolo scorso raccolse la testimonianza di 82 Papi, senza evidentemente poter aggiungere quelle successive sino ad oggi.

Schillebeeckx e il Concilio Vaticano II

di P. Giovanni Cavalcoli, da Riscossa Cristiana (30/05/2012)

L’Osservatore Romano del 30 maggio scorso pubblica un articolo di Riccardo Burigana “La versione di Schillebeeckx”, per presentare la recente pubblicazione di un “Diario” del teologo olandese da lui redatto quando lavorò come perito del Concilio Vaticano II. La recensione ha un tono molto distaccato, meramente informativo, senza entrare nel merito dei temi e delle questioni trattati dall’Autore. Si limita solo a dire che egli lavorò per la revisione dello schema preparatorio esprimendo la posizione di “teologi del centro-nord Europa”.

Credo che l’idea di pubblicare tale articolo su l’Osservatore sia stata senz’altro buona, data la notorietà di Schillebeeckx. Tuttavia l’operazione, secondo me, è tale da destare qualche perplessità o qualche punto interrogativo. Si sa come il teologo domenicano olandese più volte negli anni ’80 fu confutato da Roma su punti della fede senza che poi egli abbia dato alcun segno di ravvedimento. Il fatto che Roma non abbia ulteriormente insistito nelle critiche ha dato a molti la falsa impressione di poter liberamente assumere le sue dottrine. E forse questo è stato un segno di debolezza pastorale da parte di Roma.

Certamente Roma non prese provvedimenti disciplinari nei suoi confronti, ma resta sempre il giudizio negativo. In tal senso è vero che Schillebeeckx “non è stato condannato”. Ma il fatto che Roma non prende provvedimenti disciplinari contro un teologo ribelle, non vuol dire che il giudizio negativo che dà su quel teologo circa le sue dottrine non sia vincolante per la coscienza del credente. Altrimenti che cosa ci stanno a fare le sentenze della Congregazione per la Dottrina della Fede? Per esprimere le opinioni private del Card. Ratzinger?

In realtà, ad un attento esame non è troppo difficile elencare tutti i punti dove il pensiero dello Schillebeeckx si trova in contrasto con la dottrina della Chiesa e lo stesso dogma cattolico: nel concetto di teologia, di dogma e di Rivelazione, nella sacramentaria, in cristologia, nella liturgia, in ecclesiologia, in escatologia, nella stessa concezione del cristianesimo[1].

Nessuno negherà i meriti teologici dello Schillebeeckx, evidenti soprattutto nel periodo giovanile: e questo è certamente stato uno dei motivi che gli hanno meritato la chiamata ad essere perito del Concilio. Lo Schillebeeckx eterodosso si è rivelato successivamente.

Oggi che ferve il dibattito sull’interpretazione del Concilio e che sempre più appaiono evidenti gravi difficoltà nelle quali si trova la Chiesa sia in campo dottrinale, che morale e pastorale, citare Schillebeeckx certo può essere interessante e importante. Ma il limitarsi ad una specie di annotazione bibliografica come ha fatto Burigana non può portarci a chiederci se questo atteggiamento anodino non voglia in qualche modo nascondere una segreta approvazione per la teologia di Schillebeeckx? Vorremmo non pensarlo, data l’autorevolezza del Quotidiano nel quale scrive.

Tuttavia, non era questa l’occasione buona per ricordare, con tutta delicatezza e discrezione ma anche con franchezza e chiarezza, i gravi errori del teologo, oggi in cui appaiono evidenti le false interpretazioni del Concilio che tanto danno hanno fatto e stanno facendo da cinquant’anni a questa parte nel Popolo di Dio?

E Schillebeeckx non è per nulla esente da responsabilità in questo campo, a cominciare dalla sua stessa gnoseologia, di impronta kantiana ed empiristica, per la quale, secondo le sue stesse parole, il concetto “non coglie la realtà”, ma la “indica soltanto” come “interpretazione” mutevole, simbolica e metaforica della originaria “esperienza atematica della realtà”, nella quale soltanto sarebbe contenuta la verità, che però nel momento in cui viene tradotta nel concetto, perde la sua oggettività, immutabilità ed universalità, per trasformarsi in una veduta soggettiva, relativa e storicamente mutevole. Si capisce bene che cosa diventano il dogma e la dottrina della Chiesa, espresse in concetti, in una visione del genere.

Schillebeeckx è uno di quei teologi che hanno frainteso l’aggiornamento conciliare. Giovanni XXIII aveva voluto un mutamento nel linguaggio della Chiesa perché il messaggio evangelico fosse più comprensibile agli uomini del nostro tempo, ma non certo un mutamento nei contenuti della fede. Schillebeeckx, invece, col pretesto dell’aggiornamento del linguaggio, ha cambiato anche i contenuti e ciò per una falsa teoria del concetto, il quale, secondo lui, non può essere una fedele rappresentazione del reale, ma è una specie di “modello interpretativo” contingente, mutevole e relativo di una precedente “esperienza atematica” della realtà in se stessa ineffabile, secondo quanto ho già detto sopra.

È evidente a cosa porta una simile teoria della conoscenza: il progresso dottrinale nella Chiesa non suppone alcuna continuità perché i dogmi mutano, ed anzi Schillebeeckx parla esplicitamente di “discontinuità” della dottrina odierna della Chiesa con quella dei secoli passati, portando esempi che, per la verità, ad un attento esame, non tengono assolutamente.

Il Papa, dal canto suo, come sappiamo bene, sul solco dei Papi che lo hanno preceduto, insiste nell’affermare che le dottrine del Vaticano II non sono in “rottura”, ma in “continuità” con quelle del Magistero precedente, benchè indubbiamente si tratti di dottrine nuove che ci fanno conoscere meglio il perenne patrimonio della fede.

Ebbene uno Schillebeeckx ci presenta invece, come ho detto, una gnoseologia fatta apposta per affermare la rottura e negare la continuità. E non sarebbe bene ricordarle queste cose? Altrimenti il Papa non sembra forse parlare al vento? Vogliamo liberarci una buona volta dei gravi equivoci dei quali stiamo soffrendo da cinquant’anni, equivoci i quali tra l’altro hanno condotto alcuni, benchè ingiustamente ma comprensibilmente, ad incolpare il Concilio di un “modernismo” che in realtà è quello dei suoi falsi interpreti come Schillebeeckx?

Finchè soggetti come Schillebeeckx saranno presentati come i grandi protagonisti del Concilio e modelli di teologo, speriamo forse di far chiarezza e di rispondere adeguatamente alle obiezioni dei lefevriani? Speriamo che le trattative con loro possano aver successo?

E che cosa all’Osservatore Romano dovrebbe stare a cuore maggiormente che sostenere gli insegnamenti del Santo Padre contrastando e confutando ciò che ad essi si oppone, non importa se di teologi di fama mondiale che passano per essere le punte avanzate della Chiesa?

NOTE

[1] Studi critici su Schillebeeckx: Luigi Iammarrone, “La cristologia di E. Schillebeeckx”, Edizioni Quadrivium, Genova 1985; Giovanni Cavalcoli, IL CRITERIO DELLA VERITA’ SECONDO SCHILLEBEECKX, Sacra Doctrina, 2, 1984,pp.188-205; LA CRISTOLOGIA DI SCHILLEBEECKX, Sacra Doctrina, 1, 1987, pp.65-80.