Il meeting di Rimini e l’intervento di Monti. Dove sta andando CL?

cristianesimocattolico:

Leggendo le modalità con cui si è svolto l’incontro con Monti al Meeting, nonché leggendo quanto è stato scritto sul “Quotidiano del Meeting”, sono rimasto colpito e preoccupato, anche perché, per ragioni anagrafiche, conosco il Movimento da quasi cinquant’anni (da quando si chiamava “Gioventù Studentesca”) e ho già visto e vissuto momenti di grande confusione e smarrimento. Sia chiaro: in un evento di grande importanza come il Meeting di Rimini è normale, direi inevitabile, che intervengano politici di ogni parte, alcuni magari con l’onesto intento di confrontarsi, altri per far passerella. Sta poi ai responsabili del Meeting saper operare le opportune distinzioni ed esprimere giudizi, laddove ciò sia utile o necessario. Non avevo ancora visto però un fenomeno di “sponsorizzazione” così smaccato come quello che è accaduto quest’anno con Mario Monti; mi sentirei di dire che non avevo mai visto un abbaglio così clamoroso. Monti, a prescindere dalle modalità con cui è arrivato al potere (più volte su Riscossa Cristiana abbiamo parlato di “colpo di Stato”. Confermo in pieno), è l’attuale Presidente del Consiglio dei Ministri. Bene hanno fatto quindi i responsabili del Meeting ad invitarlo a intervenire. Purtroppo hanno gettato via un’occasione per un serio confronto, fornendoci invece una curiosa beatificazione del personaggio, che non può non lasciare stupiti e smarriti, e suscita una legittima domanda: “Perché?”. Sappiamo tutti che Monti rappresenta, seppur all’italiana (ovvero in modo un tantino pasticcione e superficiale) quei gruppi e quei poteri forti per conto dei quali ha lavorato fino a eri. Goldman Sachs, Bilderberg, Commissione Trilaterale, sono nomi ben noti di enti che raccolgono le più forti concentrazioni finanziarie. Sappiamo tutti che le più grandi concentrazioni di potere finanziario sono in mano alla massoneria, da sempre nemica della Chiesa cattolica. Abbiamo sotto gli occhi quotidianamente i risultati della politica dei cosiddetti “tecnici”, che hanno portato alla perdita della sovranità nazionale e a un impoverimento da dopoguerra, distruggendo in compenso anche il futuro, con l’abolizione de facto della previdenza. Sappiamo bene che Monti è paladino assoluto di questa Unione Europea, che è nata avendo come solo fondamento la moneta unica (da Monti stesso paragonata, con pessimo gusto, alla Madonnina di Milano…). Sappiamo che questa UE ha rifiutato di inserire nella propria costituzione il riconoscimento delle radici cristiane dell’Europa, mentre molto ha speso e fatto per difendere quanto di più anticristiano si possa pensare, come l’aborto, o come la dissoluzione della famiglia, operata attraverso le folli parificazioni delle “unioni di fatto”, anche tra persone dello stesso sesso, all’unica famiglia esistente, quella formata dall’unione feconda di un uomo e una donna. Con tutti questi plateali segnali di decisa cristianofobia, risulta davvero incomprensibile la beatificazione di Mario Monti.

Il meeting di Rimini e l’intervento di Monti. Dove sta andando CL?

Date per morto il Cristianesimo, se ne avete il coraggio

di Giuliano Guzzo, da Campari e de Maistre (25/04/2012)

A Vito Mancuso preoccupa che, nel mondo, sia in forte calo il numero dei credenti. Ad allarmarlo, nello specifico, è un rapporto dell’Università di Chicago che conferma, dalle nostre parti, l’eclissi del sacro. Per la verità la notizia circola da quasi mezzo secolo, ma si vede che alla redazione di Repubblica è giunta solo di recente. Tanto da meritare, per l’appunto, un commento di Mancuso, il quale ha naturalmente colto la palla al balzo per azzannare la Chiesa, che non ne vuole sapere «di guardare in faccia la situazione e correre ai ripari abolendo la legge ecclesiastica e non biblica del celibato sacerdotale, aprendo al diaconato e al cardinalato femminile, rivedendo le leggi anacronistiche in tema di morale sessuale e di disciplina dei sacramenti» (La Repubblica, 20/4/2012, p. 31). 

Ringraziato Mancuso per l’originalissimo sermone, proporrei, per par condicio, di dare la parola a qualcun altro. Tranquilli, non penso al cardinal Ruini, al cardinal Bagnasco e neppure al Santo Padre: penso direttamente a Lui, al Principale, a Gesù Cristo. Il quale, nel suo soggiorno terrestre non ha mancato – a proposito di calo di partecipazione dei fedeli – di impartire una lezione molto interessante. La riferisce il Vangelo di Giovanni, allorquando «molti discepoli, dopo aver udito» quello che Gesù aveva predicato, «dissero:”Questo parlare è duro; chi può ascoltarlo?”» (Gv, 6:60). Curioso: già allora c’era chi si lamentava, chi trovava difficilmente praticabile il messaggio cristiano. Il Figlio di Dio però fece solo una cosa: tirò dritto. Al punto che «da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui» (Gv, 6:66); al punto che perfino i dodici furono sul punto di lasciarlo: «Perciò Gesù disse ai dodici: “Non volete andarvene anche voi?”» (Gv, 6:67).

Nessun cambio di rotta, tuttavia: anche a costo di restar solo, Gesù rimase sulle sue posizioni, sul suo «parlare duro». Non concesse neppure mezza “apertura” alle critiche dei discepoli. Forse per testardaggine, forse perché non aveva letto Mancuso o forse perché quanto aveva da dire – e da testimoniare – aveva, ed ha, un prezzo “non trattabile”. Del resto, che Cristo non fosse così interessato alla popolarità lo dimostra anche il fatto che la gente, quando fu il momento, non seppe preferirlo non dico ad un brav’uomo, a qualcuno che faceva beneficienza o a un cittadino modello, ma a Barabba: rendiamoci conto. E dire che il Figlio di Dio, specie quando la situazione, dopo l’Ultima, cena stava per precipitare, avrebbe potuto anch’egli «guardare in faccia la situazione e correre ai ripari». Ma non lo fece e continuò a vivere, più scomoda che mai, la sua missione. 

Se questo, dunque, fu l’atteggiamento del Capo, perché mai oggi la Chiesa dovrebbe, dinnanzi al calo della fede, «correre ai ripari»? Ai ripari, se avessero a cuore il destino della loro anima, dovrebbero correre coloro che abbandonano la fede per l’idolatria (magari spacciandola per agnosticismo o ateismo) e magari anche Vito Mancuso, mica altri. Quanto a Repubblica, è da un pezzo che insistono. Ad accusare la Chiesa di essere poco popolare, intendo. Ricordo che giusto qualche anno fa – era il 25 marzo 2009 – in prima pagina, in alto a destra, il quotidiano di Ezio Mauro, con la solita inchiesta-sondaggio, spiegava che le posizioni di Benedetto XVI sul testamento biologico e sul profilattico sarebbero condivise solo da una esigua minoranza di italiani. Benissimo, e allora? Perché a Repubblica, dove sono tutti perbene e “laici”, seguitano ciclicamente a preoccuparsi della scarsa attenzione sociale al Magistero della Chiesa? Evitino certe pagliacciate, per favore. E festeggino. Suvvia, avanti: diano pure il Cristianesimo per morto. Tempo tre giorni e potrebbero avere delle sorprese.

Cristianesimo Cattolico: Tra Cristo e Marx non c’è parentela

cristianesimocattolico:

di Marcello Veneziani, da Il Giornale (27/03/2012)

Il vecchio papa della vecchia religione va a trovare il vecchio e malato lìder della morta rivoluzione. Spera di convertirlo a credere che gli unici paradisi sono quelli promessi dopo la vita, e non durante.

E lui, Fidel, che viene da…

Cristianesimo Cattolico: Tra Cristo e Marx non c’è parentela

Cristianesimo Cattolico: I cattolici che discutono sempre

cristianesimocattolico:

“Un abissale sfasamento con il nostro secolo”… “Chrétiens sans frontières scrive al cardinal Ricard riguardo a Saint-Éloi, il rifugio burdigalense dei tradizionalisti”, definiti come “i cattolici che discutono sempre”.

Questi il titolo e sottotitolo di un articolo pubblicato il 28 febbraio scorso…

Cristianesimo Cattolico: I cattolici che discutono sempre

Cristianofobia, a qualcuno proprio non piace parlarne

Il 13 marzo scorso, BQ pubblicava un editoriale di Massimo Introvigne che rispondeva a un articolo del mensile gesuita “Popoli” in cui si criticavano quanti parlavano con insistenza di cristianofobia, a cominciare dallo stesso Introvigne. L’editoriale ha suscitato una risposta piccata da parte del direttore di “Popoli”, Stefano Femminis, che qui vi proponiamo, seguita da una nostra replica.

A Massimo Introvigne, fondatore del Cesnur (Centro Studi sulle Nuove Religioni) e fino al 31 dicembre scorso rappresentante Osce per la lotta contro il razzismo, la xenofobia e la discriminazione, non è piaciuto un articolo pubblicato da Popoli.info, a firma di Michele Ambrosini, sulle informazioni false o distorte che circolano in rete a proposito dei cristiani perseguitati nel mondo.

Dispiace che Introvigne – che tra l’altro nel suo articolo riconosce a Popoli il merito di «pubblicare spesso notizie e testi di grande interesse» – non abbia creduto opportuno comunicare il suo disappunto direttamente alla redazione: avremmo pubblicato volentieri il suo contributo. Ha preferito invece scrivere un articolo sul blog La Bussola Quotidiana, dove da alcuni giorni fa bella mostra di sé la copertina di Popoli, sotto l’occhiello «Polemiche» e accompagnata dal titolo “Chi ha paura dei cristiani uccisi”. Polemico, e non poco, è anche il sommarietto dell’articolo di Introvigne: «Il mensile missionario gesuita Popoli obietta sulla cristianofobia. Ma 105mila morti all’anno non sono vittime per caso. Qualcuno li ha uccisi».

Le «polemiche» non ci appassionano, tuttavia alcune precisazioni sono doverose.

La prima «accusa» riservata a Popoli è di avere «attaccato» in modo «alquanto ingeneroso» l’Ong Open Doors. Non è così. Abbiamo semplicemente sollevato obiezioni sul modo in cui il concetto di cristianofobia, con le relative «classifiche» che ne derivano, viene applicato ad alcuni Paesi.

Ma ciò che sembra maggiormente infastidire Introvigne sono le nostre perplessità sulla stima secondo cui nel mondo ogni 5 minuti un cristiano viene ucciso in odio alla sua fede. Ambrosini scriveva: «Risulta difficile trovare sulla rete una spiegazione del metodo con cui è stata calcolata tale cifra». Introvigne dedica una lunga parte della sua piccata risposta a raccontare in quali convegni internazionali ha presentato tale stima, a spiegare da quali fonti l’ha tratta, a dare lezioni di giornalismo ad Ambrosini, senza affrontare il punto da lui sollevato, ovvero la difficoltà di reperire in rete – a fronte di una messe di denunce, appelli, statistiche – un’informazione adeguata e chiara sul metodo con cui si è arrivati a tale calcolo. Su questo Introvigne si limita a citare un volume del 2001 in cui l’autore «spiega con dovizia di particolari i criteri con cui calcola annualmente il numero dei martiri». Il volume è effettivamente disponibile anche online, ma solo chi avesse un’ottima conoscenza dell’inglese, molto tempo a disposizione e approfonditi studi di statistica e di storia alle spalle ci capirebbe qualcosa. A conferma di quanto scriveva Ambrosini: «Risulta difficile trovare sulla rete una spiegazione del metodo con cui è stata calcolata tale cifra».

A costo di fare nuovamente arrabbiare Massimo Introvigne, non possiamo poi non ribadire che la cifra ci appare inverosimile. Inverosimile non solo per la sua entità, ma perché siamo convinti che nessuna statistica (come quelle del sito di Open Doors, corredate da indici Paese per Paese, ranking e top ten dei persecutori) potrà mai misurare con tanta precisione un fenomeno così complesso come quello della cristianofobia. Sappiamo infatti quanto sia difficile ricostruire anche un singolo caso, considerando l’intreccio di motivazioni personali, politiche, economiche, etniche e certo anche religiose. Immaginiamo cosa possa voler dire, da un punto di vista puramente scientifico, monitorare a livello planetario un fenomeno così complesso e purtroppo così ampio.

Per questo, pensare di ridurre questa complessità a una cifra – e presentare questa cifra come certa e indubitabile – significa mancare di rispetto alle stesse vittime della cristianofobia, fenomeno di cui Popoli non intende certo negare la preoccupante gravità e la crescente diffusione.

Facciamo un’umile proposta a Massimo Introvigne. Oltre a dirci che nel mondo, ogni giorno, 288 cristiani vengono uccisi per la loro fede (è questa la media che si ottiene in base ai calcoli citati), ci racconti, ogni giorno, la storia di una vittima, una sola. Ci dica il suo nome, dove e come viveva, ci faccia vedere la faccia di questa persona, dei suoi familiari, dei suoi amici, ci racconti perché è stata uccisa e chi è accusato del suo omicidio. Non facile, anche nell’era delle nuove tecnologie, ma certo non impossibile per chi afferma di avere sotto osservazione con tanta precisione il fenomeno. Come Popoli saremo i primi a dare il massimo risalto a queste storie, e del resto spesso già lo facciamo.

Perché, per citare Paolo VI, il mondo ha bisogno di testimoni (e di chi ci racconta le loro storie) più che di maestri (e di studiosi che ci offrono stime, medie e calcoli logaritmici).

Una parola, infine, sulla «predica» finale del fondatore del Cesnur. Delle due l’una: o Introvigne è andato clamorosamente fuori tema (cosa inusuale per un consumato opinionista come lui) oppure dobbiamo pensare che il messaggio sia rivolto (anche) a Popoli. Se le cose stessero così, Introvigne non meriterebbe una replica, solo l’invito a leggere con più attenzione e rispetto le 800 pagine di articoli che Popoli pubblica ogni anno e le decine di contributi della nostra versione web.

Un saluto cordiale

Stefano Femminis

Direttore di Popoli

Caro Femminis,

la ringrazio della sua lunga lettera, a cui mi permetterà di rispondere con alcune osservazioni.

1. Lei rimprovera Introvigne di non aver scritto direttamente a Popoli riguardo alle critiche nei suoi confronti. Devo dire che trovo questo appunto francamente curioso: visto che in Italia la famosa statistica del “cristiano ucciso ogni 5 minuti” è stata pubblicata per primo su La Bussola Quotidiana, dovrei essere io a chiedere a lei come mai non avete scritto alla nostra redazione invece di farci un articolo su “Popoli”.

2. Lei poi sostiene che Introvigne non affronta il punto sollevato da Ambrosini riguardo alla difficoltà di reperire in rete un’informazione chiara sul come si arriva a calcolare certe cifre. Forse dovrebbe rileggersi l’editoriale di Introvigne, perché elenca gli articoli (in italiano) dove ha già spiegato il tutto. Comprendo il desiderio di verificare le fonti da parte di Ambrosini, sicuramente meritorio, ma non si può affermare che certi dati sono inverosimili solo perché per capire le fonti è richiesta un’ottima conoscenza dell’inglese e dei metodi statistici. Non è certo obbligatorio conoscere l’inglese, ma nel 2012 se non si ha una buona conoscenza di questa lingua è meglio astenersi dallo scrivere su questioni internazionali. Né è consigliabile spiegare come si fanno le statistiche a chi di statistica vive, come i sociologi. Screditare le fonti solo perché non si conosce la lingua e il metodo statistico fa anche cadere nel ridicolo, perché con questo criterio non potremmo neanche più leggere il Vangelo (a meno di non avere un’ottima padronanza del greco e dei metodi di esegesi).
Resta però vero che Ambrosini non aveva scritto che sulla rete le informazioni sulla fonte della statistica c’erano ma lui non era in grado di capirle perché non legge l’inglese e non si intende di statistica. Aveva scritto che le informazioni non c’erano, il che semplicemente non è vero.

3. Comprendo che a Popoli piacciano i casi individuali di cristiani uccisi per la loro fede, debitamente certificati. Per questo le consiglierei una collaborazione stretta con Open Doors o con l’Aiuto alla Chiesa che Soffre, sicuramente saranno lieti di aiutarvi. Più semplicemente, se ogni giorno voleste raccontare la storia di un cristiano ucciso potreste seguire le notizie che arrivano dalla Nigeria, dove nel 2012 (così come nel 2010 e nel 2011) troveranno purtroppo ben più di un morto al giorno.

Però mi permetta di notare una stranezza. Proprio nei giorni scorsi è stato ricordato il primo anniversario della morte di Shabhaz Bhatti, sul cui martirio per la fede credo che neanche lei abbia dubbi, tanto che gli stessi vescovi pakistani vogliono aprire una causa di beatificazione. Ebbene, mi sono detto, visto che a Popoli piacciono i casi individuali sicuramente troverò sul sito abbondanti particolari su questa straordinaria figura di cattolico ucciso. Ho perciò scritto Pakistan sul motore di ricerca, e dal vostro archivio mi sono usciti 30 articoli, in molti dei quali il Pakistan era soltanto citato all’interno. In ogni caso solo uno riguardava Bhatti, ed era in inglese, ripreso dalla rivista gesuita americana “America”, neanche tradotto (peraltro è del 21 marzo 2011 e raccoglieva perciò soltanto le prime reazioni all’assassinio). In compenso però ho trovato un articolo della vostra redazione sicuramente più interessante dal titolo “Pakistan: perché i sufi sotto attacco?”, in cui ci si chiede: “Ce la farà il sufismo a opporsi ai talebani?”.
Certamente, pensando al Pakistan, questa sarà sicuramente la domanda più urgente a cui rispondere, così come notare che “grazie alla passione di tanti immigrati dell’Asia meridionale, il cricket si fa strada anche nel nostro Paese” (è l’argomento di un altro articolo presente nell’archivio del vostro sito).
Per quanto ci riguarda, noi riteniamo invece che la sorte dei cristiani, in tutto il mondo, sia il problema fondamentale e non solo per la fratellanza nella fede, ma perché laddove non c’è libertà per i cristiani non c’è libertà per nessuno e laddove i cristiani vengono scacciati c’è guerra. Ed è per questo che noi ci interessiamo sia dei casi singoli sia del fenomeno in generale.

4. Sul tema dei casi individuali mi permetta un’ulteriore osservazione. La nozione secondo cui interessano solo i casi individuali, e le statistiche sono irrilevanti, è assolutamente da respingere. Le testimonianze sono certamente importanti, ma ciò non toglie che il dato statistico sia fondamentale per chi deve impostare risposte politiche. Sapere se i cristiani uccisi sono dieci, cento o centomila non cambia di uno iota il dramma della singola vittima, ma cambia molte cose sul tipo di risposta politica e diplomatica da dare (un po’ come per i preti pedofili: ce ne fosse anche uno solo sarebbe uno di troppo, ma sapere se sono cento o centomila è importante per capire le cause del fenomeno e la risposta che la Chiesa deve dare).

5. Citare poi Paolo VI per “colpire” i sociologi è un’operazione decisamente rischiosa. Come mostrano gli studi, tra gli altri, di Émile Poulat, fu proprio il servo di Dio Paolo VI a “sdoganare” la sociologia nella Chiesa, servendosi di sociologi e tenendo in gran conto i loro numeri.

Cordiali saluti

Riccardo Cascioli

Chi ha paura dei cristiani uccisi

Il mensile missionario gesuita POPOLI obietta sulla cristianofobia. Ma 105 mila morti all’anno non sono vittime per caso. Qualcuno li ha uccisi. Dove c’è una vittima c’è un assassino. E chi non vuole nominare gli assassini non è solidale con le vittime.

di Massimo Introvigne, da La Bussola Quotidiana (13/03/2012)

Sul sito del mensile missionario gesuita Popoli, che peraltro pubblica spesso notizie e testi di grande interesse, è apparso un articolo a firma di Michele Ambrosini dal titolo «Quando la cristianofobia fa comodo» che, se da una parte riconosce la persecuzione e discriminazione dei cristiani come «problema noto e gravissimo», dall’altra denuncia le «vere e proprie truffe» da parte di chi manipolerebbe le cifre per raccogliere offerte o per ragioni politiche.

L’autore ha certamente la sua parte di ragione. Molti lettori avranno ricevuto la nuova versione delle famose «mail nigeriane» che un tempo promettevano guadagni mirabolanti a chi aiutasse funzionari della Nigeria a esportare capitali all’estero e oggi chiedono aiuto per famiglie più o meno immaginarie di cristiani perseguitati. Inutile dire che chi risponde alle mail finisce solo per trasferire fondi alla criminalità organizzata nigeriana. E non si tratta delle uniche truffe.

Tuttavia, l’autore esagera quando sembra mettere sullo stesso piano la truffa – che c’è – e quelle che in modo più nebuloso denuncia come speculazioni politiche. Alquanto ingeneroso appare l’attacco all’organizzazione protestante Open Doors, la cui azione a favore dei cristiani perseguitati ha ricevuto importanti riconoscimenti internazionali, da ultimo dal Consiglio d’Europa. Ambrosini scrive che Open Doors pubblica liste annuali dei Paesi dove le «persecuzioni dei cristiani sono più dure; scorrendo la lista però ci si rende conto che in diversi casi si tratta di Paesi con governi comunisti come la Corea del Nord, il Laos o Cuba, che non hanno come bersaglio il cristianesimo, ma la religione in generale». Ora, o le cifre di Open Doors sono vere – e non mi risulta che alcuno le abbia seriamente contestate – o sono false. Se sono vere, non so quanto aiuti i cristiani mandati a morire nei campi di concentramento della Corea del Nord sapere che il loro governo non ce l’ha tanto con il cristianesimo quanto con «la religione in generale».

Che Ambrosini abbia scritto il suo articolo un po’ frettolosamente risulta poi da questo passaggio, che mi riguarda direttamente: «Inoltre sono diversi i siti che riportano una stima, attribuita al fondatore del Cesnur Massimo Introvigne, secondo cui nel mondo lo scorso anno sarebbe stato ucciso a causa della fede un cristiano ogni 5 minuti, per un totale di più di 105mila morti l’anno. Tuttavia risulta difficile trovare sulla rete una spiegazione del metodo con cui è stata calcolata tale cifra, cifra che appare obiettivamente inverosimile».

Con tutto il rispetto dovuto alla rivista che lo ospita, non posso non rilevare che quello che appare «obiettivamente inverosimile» è che qualcuno si permetta tanto alla leggera frasi di questo genere. Ambrosini mi cita come «fondatore del Cesnur», che è il Centro Studi sulle Nuove Religioni. Avrebbe potuto citarmi anche come sociologo, redattore de La Bussola Quotidiana o padre di famiglia. Una brevissima ricerca via Google lo avrebbe indotto a precisare che ho citato quella statistica in una sede istituzionale, in un intervento del 3 giugno 2011 alla «Conference on the Christian-Jewish-Muslim Interfaith Dialogue» organizzata al Castello Reale di Gödöllo, presso Budapest, dalla Presidenza ungherese dell’Unione Europea cui partecipavo nella mia veste di Rappresentante dell’OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa) per la lotta al razzismo, alla xenofobia e all’intolleranza e discriminazione contro i cristiani e i membri di altre religioni, mandato che ho svolto dal 5 gennaio al 31 dicembre 2011.

Non risulta affatto «difficile trovare sulla rete» le fonti dei miei dati. Se Ambrosini fosse un lettore de La Bussola Quotidiana avrebbe potuto facilmente trovare un mio articolo in proposito dello scorso 8 giugno 2011. Naturalmente, nessuno è obbligato a leggere La Bussola Quotidiana. Poiché però Ambrosini afferma di conoscermi per la mia attività nel CESNUR, aprendo il relativo sito avrebbe trovato nella pagina di benvenuto il richiamo a un testo, pubblicato sia in italiano sia in inglese, «Cristiani uccisi nel mondo: uno ogni cinque minuti», che fornisce gli stessi dati e fonti. Se, usando Google, Ambrosini avesse poi incrociato le parole «Introvigne» e «cinque minuti» avrebbe trovato, come primo riferimento, lo stesso articolo. «Difficile trovare sulla rete»? Solo per chi non cerca.

Da tutte queste fonti Ambrosini avrebbe facilmente ricavato: (1) che la fonte delle mie statistiche è David B. Barrett (1927-2011), pacificamente riconosciuto come il maggiore esperto di statistica religiosa del secolo XX; (2) che nel monumentale volume scritto con il collaboratore Todd Johnson, «World Christian Trends AD 30 – AD 2200» (William Carey Library, Pasadena 2001), Barrett spiega con dovizia di particolari i criteri con cui calcola annualmente il numero dei martiri; (3) che Barrett nella sua rivista «International Bulletin of Missionary Research» ha continuato a pubblicare stime e proiezioni dei martiri cristiani, anno per anno; (4) che da una media di circa 160.000 martiri all’anno del primo decennio del XXI secolo la proiezione di Barrett indicava un dato migliore per il 2011, circa 100.000 cristiani uccisi per la loro fede; (5) che nel corso del 2011 altri autorevoli studiosi avevano indicato il dato come almeno lievemente sottostimato per difetto; (6) che, lievemente riapprezzando la proiezione di Barrett – dico lievemente, perché altri studiosi parlano di una cifra fra i 130.000 e i 170.000 – e immaginando 105.000 martiri all’anno, si arriva con una semplice divisione a un morto ogni cinque minuti.

Tutte cose molto semplici, e molto facili da capire. Senza volere assolutamente arrischiare un giudizio su Ambrosini, che non conosco, osservo che queste cifre danno talora fastidio non quanto alle vittime – le vittime sono sempre simpatiche – ma quando dalle vittime si passa a nominare i persecutori, i cui nomi magari fanno scattare antiche simpatie ideologiche (i regimi comunisti) o timori che qualcuno possa risentirsi e tagliarci il petrolio (il mondo islamico) o l’acquisto di buoni del tesoro di cui abbiamo tanto bisogno (la Cina). Tuttavia, questi 105.000 morti all’anno non sono vittime d’incidenti automobilistici né di terremoti. Qualcuno li ha uccisi. Dove c’è una vittima c’è un assassino. Chi non vuole nominare gli assassini non è veramente solidale con le vittime. E nel frattempo – se avete dedicato dieci minuti a leggere questo articolo – altri due cristiani sono stati uccisi da qualche parte del mondo. Perché la strage continua. Un morto ogni cinque minuti.

Apologia del cattolico senza aggettivi

Il mondo trabocca di cattolici a propria immagine e somiglianza che sentono il bisogno di prendere le distanze a prescindere. È ora di ridare semplicità a quella parola sublime, “cattolico”, che già è bella e ricca di suo senza bisogno del nostro intervento.

di Marco Respinti, da La Bussola Quotidiana (12/03/2012)

“Cattolicone”, “supercattolico”, addirittura “cattolico talebano”. Se ne sente di ogni tipo, e soprattutto di ogni genere se ne legge sui nostri media, quelli che se la notizia non c’è la creano, quelli che la via più breve tra una persona è una cultura è un’etichetta contundente, quelli che fingendo d’informare sformano.

Il “cattolico con l’aggettivo” lo usano per mettere alla berlina quel fedele che, magari persino in politica – horribile auditu -, sa che vi sono princìpi non negoziabili cui appunto non si può rinunciare nemmeno se, per paradosso, lo si volesse; sa che quel che insegna il Magistero è irrinunciabile; sa che la verità o tutta o niente. “Cattolico d’altri tempi”, “cattolico démodé”, “cattolico integralista”: perché, qualcuno pensa che si possa restare davvero cattolici rinunziando ai pezzi sgraditi e imbarazzanti della verità cristiana? No, di certo. Un “cattolico a metà” (o anche meno) non viene del resto preso sul serio nemmeno dagli anticattolici, che per tipi così non sprecano una goccia d’inchiostro.

Volendo infatti intervenire sul cattolico a gamba tesa, dire solamente “cattolico” non basta. È disadorno, essenziale, troppo nudo. Non si riesce a fargli fare la figura del mostro sbattuto in prima pagina. E così scatta il concorso a chi la spara più grossa, a chi inventa gli abbinamenti più funambolici, a chi stupisce con gli effetti sonori più stravaganti. La caricaturizzazione, l’esagerazione e l’eccentricità servono prima per sgomentare, poi – una volta com-mossa la folla, come impongono le regole della rettòrica di Marco Fabio Quintiliano – per colpire. Vi era un tempo in cui bastava dire “cattolico”, e quel gioco era fatto. Ma oggi, che tutto è noia, serve un supplemento di spiritosaggine.

Gli è però che talvolta in questo infido tranello ci cascano pure “i buoni”, ci caschiamo anche noi che certamente siamo, se non altro, animati da intenzioni ben diverse da quelle degli “anti”. Perché, nel nostro mondo insipidito e scolorito, anche a noi sembra, purtroppo, che dire solo “cattolico” non sia sufficiente. Dovendo difenderci dai “taglia-e-incolla”, dai molti che (a sinistra e a destra) pensano di dover definire loro cosa vuol dire “cattolico”, dai troppi che non sperano più che il nome – proprio, di persona – “cattolico” basti a salvare, ci affidiamo pure noi al tocco magico di una qualifica, all’effetto taumaturgico di un marchietto, alle virtù benefiche di un adesivo appiccicato sul grugno. Come se l’essere cattolico avesse necessità di essere definito, commentato, glossato. Sbagliamo tutti. Il mondo trabocca già di “cattolici fai-da-te” senza che vi sia il bisogno di altri cattolici a propria immagine e somiglianza. Quindi è ora di smetterla. Affinché questa parola sublime, “cattolico”, profumata e saporosa, bella e ricca, smetta di essere uno spicciolo da scialacquare in quisquilie. Dire “cattolico” deve tornare a bastare. Dev’essere una carta d’identità e un biglietto da visita. Deve servire da solo, e smettere di mendicare ausili improponibili da altri.

Il cattolico e basta è un cattolico senza aggettivi. Il malcostume di aggettivare la pienezza della verità come se senza il nostro aiuto essa non bastasse, senza il nostro contributo deficitasse, senza il nostro intervento zoppicasse va lasciato volentieri a chi ha sempre qualcosa – un aggettivo – da frapporre tra sé e quelle pienezza che non ha bisogno di rabbocchi né di rincalzi. A quelli, cioè, abituati a lasciare che il Magistero infallibile della Chiesa – donde si è cattolici – vada da una parte mentre loro se ne vanno sereni da un’altra. Ricordate quei “cattolici” bisognosi di aggettivarsi con “adulti”?

“Vita Pastorale”: lettera di un parroco che disdice l’abbonamento alla rivista

Pubblichiamo la mail di un sacerdote, nostro lettore, che ha inviato a VitaPastorale per esporre le sue critiche con parole chiare e per chiedere quindi di non ricevere più la rivista. Noi non possiamo che sottoscrivere e condividere appieno il punto di vista e le considerazioni del sacerdote! Se molti altri sacerdoti e fedeli abbonati seguissero l’esempio, forse la Redazione (su cui scrive don Sirboni!) inizierebbe a farsi delle domande, e a rendersi conto forse di aver preso una bella sbandata che dura ormai da troppo tempo.

Gentilissimi redattori del blog “messainlatino”,

vorrei segnalarvi la mail che ho mandato poco fa alla redazione di vita pastorale in cui chiedo di disdire l’abbonamento (che non ho mai effettuato tra l’altro…)
spero possa esservi utile come incoraggiamento e, se ne ritenete utile la pubblicazione, anche di esempio per altri. [certamente! speriamo che moltri altri sacerdoti seguano il suo esempio! N.d.r.] Credo che se ci si sforza tutti insieme possiamo diminuire la tiratura di questo mostro cartaceo.

W la Tradizione!
un parroco.

Ecco il testo della lettera:

Gentile redazione di “Vita pastorale”

la nostra parrocchia, anzi le nostre parrocchie dato che sono parroco di tre, riceve ogni mese “Vita pastorale”. Con la presente mail vorrei disdire questo abbonamento da noi mai sottoscritto (forse lo mandate a tutti i parroci?) perchè, per dirla senza giri di parole, lo riteniamo un vero e proprio spreco di carta. E non solo perchè ne arrivano tre copie per un solo sacerdote, ma proprio per i contenuti. È da mesi che vorrei scrivervi ma finora non sono riuscito, anche perchè ritenevo utile leggere ciò che gli altri pensano,anche se questo non corrisponde (per niente) al mio pensiero. Poi avendo tra le mani l’ultimo numero (n° 3 marzo 2012) mi sono convinto che la misura sia colma, e che per me non ci sia più niente di istruttivo nel leggervi, dato che certi articoli e lettere mi causano ogni volta rabbia e delusione. Mi piacerebbe spiegarvi che la Chiesa non è ferma agli anni ‘70, che i veri nostalgismi non sono più quelli tridentini ma i vostri della nuova chiesa del postconcilio (che non ha assolutamente nulla a che vedere con la vera Chiesa del Concilio nè tantomeno con la tradizione bimillenaria) e che, a Dio piacendo, arriverà il tempo di vedere chi ha ragione e chi torto. La rabbia che provo a leggere certe cose pubblicate (ne citerò poi alcune) viene poi mitigata dal sorriso, sapendo che almeno il 70% dei seminaristi di qualunque diocesi e di qualunque istituto comincia a ridere delle vostre teorie liturgiche. Che è più grande la vostra rabbia e il vostro livore verso la Tradizione che la nostra nel leggervi. Che è chiaro che si tratti del vostro “canto del cigno” che, spero, un giorno sarà solo un (brutto) ricordo.

Vorrei citare alcune bestialità contenute nel nuovo numero:
1_ la lettera di mons. Papamanolis: trovo stridente che da un lato ci sia da parte sua un grande interessamento verso il baratro economico della Grecia e il tempo di scrivere certe idiozie (parlavamo di livore? come volevasi dimostrare). Che senso ha il suo intervento? perchè ha ricevuto un tale avvallo solo perchè è un vescovo? come si permette di criticare le liturgie romane? Come si permette di giudicare 1500 anni di storia liturgica?
2_ l’elogio a “don” Gallo: parliamoci chiaro, quello è un vecchio eretico. La sua età ci può solo rassicurare che tra poco sarà tutto finito.

Solo due esempi, se avessi tempo ne troverei decine. Preciso: liberissimi di scrivere ciò che volete, i soldi e la carta sono vostri. Liberissimo io di non leggervi, chiaramente. Però ritengo che le tre copie che ricevo mensilmente non debbano più far parte della vostra tiratura.

Ho sconsigliato e sconsiglierò i periodici S. Paolo dalla mia parrocchia, molti parroci ormai sono convinti di ciò. Se don Alberione potesse parlare!

cordialmente,
lettera firmata

Cristianesimo senza Cristo? Complotto oscuro!

Si parla troppo di Cristianesimo e troppo poco di Cristo. Su giornali, riviste, rotocalchi, in discorsi politici, in conferenze accademiche, nell’attività pastorale, si possono ascoltare o leggere considerazioni, studi sulla morale cristiana, sulla sociologia cristiana, sulla filosofia cristiana, sull’arte e sulla civiltà cristiana. Ora tutto questo va bene, ma a un patto, che sia collegato alla fede in Cristo; se no, va male, molto male. Perché tutte queste cose stanno in piedi se c’è quel fondamento di cemento armato che è la certezza della divinità di Cristo, diversamente diventano delle enormi sfasature, delle verità deragliate, della vuota retorica.

E la prova l’abbiamo esattamente in quei giornali, in quelle riviste, in quei discorsi che, volendo presentare un Cristianesimo avulso dalla fede, finiscono per offrircene invece una parodia, o quasi. Alcuni presentano, infatti, il Cristianesimo come la prima forma di socialismo, altri invece come una forma di alienazione; vi è chi lo definisce un abietto servilismo e chi lo presenta come un tipo di anarchia. Tutta questa confusione è inevitabile quando si vuole prescindere dall’imprescindibile. Così perfino Benedetto Croce non ha potuto non dirsi cristiano. Ma il Cristianesimo è essenzialmente Gesù Cristo, è credere nella sua identità divina, credere alla sua professione di unico Salvatore dell’umanità.

Cristianesimo è non soltanto ammirare e accettare la verità della sua dottrina, ma affermare che Gesù Cristo è la Verità in persona, e che fuori di Lui tutto è polvere e ombra; che Lui è l’assoluto e tutto il resto è relativo. Sicché non un qualunque filosofema è l’assoluto, non un qualunque sistema sociologico, non un qualunque sistema scientifico; no, l’assoluto è Lui. Il punto di partenza non è, come purtroppo ripetono stupidamente anche alcuni cristiani, la rivoluzione francese, né la rivoluzione industriale, né quella sociale; l’unica rivoluzione è avvenuta duemila anni fa, quando il Verbo si fece uomo ed elevò l’uomo fino a Dio. Il punto di partenza non è Kant, Hegel, non è Newton, né Einstein, non è Marx né Gandhi, il punto di partenza è l’Incarnazione del Verbo. In quel giorno si è levato il sole della storia ed è iniziata l’era nuova. Tutto il resto è vicenda. Che sarebbe la storia senza Cristo? Shakespeare ha risposto per tutti: sarebbe una favola narrata da un pazzo. Cos’è la morale Cristiana senza Cristo? Un funerale della vita o un formalismo farisaico. Non la pensano così gli uomini senza fede? Dal loro punto di vista essi hanno ragione, perché le rinunce, che la morale impone, fatte per amore di Dio sono una gioia, ma fatte per amor di rinuncia sono un suicidio. La sottomissione per amor di Dio è comprensibile, ma la sottomissione per la sottomissione è ripugnante, è etica da caserma, è disciplina da reclusorio. La morale per la morale potrà essere il risultato di un funambolismo cerebrale, non sarà mai una norma di vita. Il bene si fa per amore o non si fa. Se lo si fa per forza, è ipocrisia, e se lo si fa per l’utile è egoismo. Inutile dunque insegnare la morale se non si insegna ad amare Cristo; inutile predicare la Legge se non si predica Cristo.

Vi meravigliate che i giovani trovino spesso la religione troppo triste, arida e rinunciataria. Ma è evidente: non sentono parlare che di sacrifici, di proibizioni, di precetti, di abnegazione, di punizioni e di vendette divine. E’ chiaro che essi fuggono atterriti. Accendete prima il loro cuore, la loro fede, potenziate le loro convinzioni, parlate dell’amore di Cristo, fatelo conoscere col Vangelo alla mano, non anatomizzato da una minuziosa esegesi, ma presentato nella sua divina semplicità. Fate risplendere questo sublime ideale dinanzi ai loro occhi, e poi vedrete se i giovani non sono pronti ad accettare anche la morale, se non sono disposti anche alle rinunce e ai sacrifici. Neanche i santi accettano di vivere senza amore, e lo dicono: vivere senza amare è peggio che morire.

Finché la gente si limiterà a considerare Cristo un personaggio storico, nutrendo solo ammirazione, per tale gente il Cristianesimo sarà soltanto un rudere. Se vogliamo farne invece una fede viva, occorre mettere in moto anche il cuore.

Azione filantropica o carità?

Meglio un incredulo altruista che un credente egoista. Diciamo subito che questo è un luogo comune di chiaro effetto propagandistico, di non dubbia provenienza. L’affermazione non è esatta, perché tutti e due i casi sono due grandi disgrazie. Sarebbe come dire: meglio un cieco che un mutilato. Qui non si tratta di meglio, l’una e l’altra sono sventure che provocano pietà, non preferenza. Il meglio sta nell’essere completo: credente e caritatevole. Il fondo della questione è nella svalutazione della fede a vantaggio delle opere, nella svalutazione della preghiera a vantaggio dell’azione. Infatti si aggiunge che è più cristiano chi si occupa del prossimo, anche a scapito della pratica religiosa, anziché colui il quale riduce il suo cristianesimo alle formalità del culto, trascurando la fraternità, che è il più grande precetto di Cristo.

Chi parla così ha evidentemente dimenticato che il primo comandamento di Cristo è di amare Dio sopra tutte le cose e con tutte le forze. L’amore del prossimo è il secondo. La fraternità senza la fede non fa il cristiano. Il cristianesimo prima di essere una morale, è una religione. Anzi l’amore di Dio è la radice da cui germina un sano e autentico amore del prossimo. Senza Dio si diventa o succubi del prossimo o tutt’al più umanitari romantici. Vi potrà essere qualche raro caso di sensibilità sociale o istintiva generosità, ma non un amore consapevole e soprattutto imparziale. Una fraternità esclusivamente umana risulta in ultima analisi inumana. Perché si ridurrà a portare il soccorso ai corpi sofferenti e bisognosi, rimanendo sorda ai più angosciosi appelli dello spirito, alle più imperiose esigenze dell’anima. Un uomo senza fede non potrà nè confortare ma neppure comprendere il prossimo afflitto nello spirito; chiuso com’è nelle realtà terrestri e nella sua limitata concezione della natura umana.

La filantropia non ha mai potuto sostituire la carità perché, anche se può dare un tozzo di pane a un affamato, una casa a un senza tetto, un impiego a un disoccupato, non saprà dare mai nulla a un disperato, nulla a uno smarrito, nulla a un peccatore, nulla a chi è tormentato dalla delusione, dal lutto, o dalla solitudine. La miseria morale e spirituale è molto più diffusa che non quella materiale. Si crede che la fraternità consista solo nello sfamare, nel vestire e nell’alloggiare la gente; invece l’uomo ha bisogno di mille altre cose che non si possono procurare con il lavoro, né con la tecnica, né col commercio, né con le invenzioni. L’uomo ha bisogno di verità per la sua mente, di giustizia per la sua coscienza, di un amore infinito ed eterno per il suo cuore, di una speranza per il suo dolore, di uno scopo per la sua esistenza. Tutto ciò un uomo senza fede, non solo non può darlo, ma non può nemmeno indicarlo. E questo non è certamente umano. Non è più importante occuparsi degli altri che andare a Messa? Il che si traduce in parole più chiare: non è più importante il servizio dell’uomo del servizio di Dio? Qui è la vera radice dell’obiezione di spirito di marcatamente laicista. Spirito che forma il sottosuolo della mentalità moderna, anche di molti cattolici, che vogliono sostituire il primato di Dio col primato dell’uomo. Questo non è Cristianesimo ma idolatria.

Il Cristianesimo ci insegna a prostrarci solo davanti a Dio: Adorerai il Signore Iddio tuo e a Lui solo servirai. L’umanesimo laicista invece ha voluto fare dell’uomo un idolo, ma col risultato di creare la mistica della razza, la mistica del regime, la mistica del denaro, la mistica del piacere e la mistica della tecnica.

Ma quando si assolutizza l’uomo, se ne fa un mostro come la storia insegna. Non si può assolutizzare ciò che di sua natura è relativo e limitato. È errato limitare la religione agli atti più importanti della vita o ad alcune tradizionali solennità religiose dell’anno liturgico.

È certo ben poca cosa. Non si può approvare una condotta del genere. Ma sarebbe anche da disapprovare ugualmente chi, in nome di un massimalismo cristiano male inteso, volesse troncare anche quest’ultimo legame con la salvezza. È sbagliato spegnere il lucignolo che fumiga e spezzare la canna piegata. Attraverso le povere pratiche religiose fatte con frequenza tradizionale, si insinua l’ossigeno della grazia che può da un momento all’altro riattizzare quella fiamma moribonda. Certo è doloroso vedere il Cristianesimo ridotto in alcuni casi a un rudere; ma se abbattessimo tutti i resti antichi, nessun contatto rimarrebbe più col passato. La fede senza le opere è morta, ma le opere senza la fede non salvano. La fede e la carità sono inseparabili nel cristiano autentico. Trovare l’una senza l’altra è un caso patologico. Facciamo dunque leva sulla fede per provocare la carità, e facciamo leva sull’altruismo per disporre alla fede.