Laurent Ulrich, un moderato progressista a Parigi

Nominato da papa Francesco come nuovo arcivescovo di Parigi, mons. Ulrich proviene dall’arcidiocesi di Lilla dove ha individuato come priorità temi quali la sinodalità e i migranti. Si è schierato contro adozioni e unioni omosessuali. Nell’audizione con la Ciase ha individuato nel “clericalismo” una delle cause degli abusi.

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Curia non immacolata. Nemmeno sa la matematica

di Sandro Magister (31/01/2014)

Al termine della conferenza stampa tenuta in Vaticano il 31 gennaio dal cardinale João Braz de Aviz, prefetto della congregazione per i religiosi, e dal segretario della medesima congregazione José Rodríguez Carballo, sono state consegnate ai giornalisti due brevi note riguardanti i due casi più scottanti del momento: quello dei Legionari di Cristo e quello dei Francescani dell’Immacolata.

Su questi ultimi, commissariati dalla scorsa estate, la nota così esordiva:

“Il commissariamento dei Francescani dell’Immacolata è partito dopo una visita apostolica durante la quale il 74 per cento dei membri ha dichiarato, in forma scritta, un intervento urgente della Santa Sede per risolvere i problemi interni dell’istituto, proponendo o un capitolo generale straordinario, presieduto da un rappresentante del dicastero, o il commissariamento dell’istituto da parte della Santa Sede…”.

Altolà. Stando ai dati del questionario sottoposto ai frati dal visitatore apostolico e resi pubblici lo scorso 19 settembre con l’autorizzazione del Vaticano, il 39 per cento aveva risposto che tutto andava sostanzialmente bene, mentre il 61 per cento aveva lamentato che esistevano dei problemi. Di questo 61 per cento, il 26 per cento aveva affermato che i problemi potevano essere risolti dal capitolo generale ordinario dell’istituto in agenda nel giugno 2014, mentre il 74 per cento aveva risposto che per risolverli era necessario o un capitolo generale straordinario, da convocarsi prima della scadenza naturale, o il commissariamento.

Se la matematica non è un’opinione, quindi, il commissariamento era stato chiesto non dai tre quarti dei frati – come asserito dalla nota – ma dal 74 per cento del 61 per cento, cioè dal 45 per cento del totale, una minoranza, e nemmeno da tutti questi, dato che per vari di essi sarebbe bastato un capitolo generale straordinario.

E non è tutto. La nota diffusa il 31 gennaio dalla congregazione per i religiosi ha aggiunto che la visita apostolica era stata fatta perché “richiesta da 21 membri dell’istituto”.

Su un totale di circa 350 frati, 21 sono una minoranza piccolissima, il 6 per cento.

Eppure è bastato questo sassolino a far partire la frana che sta sgretolando una delle più ferventi congregazioni religiose di recente fondazione, ricca di giovani vocazioni maschili e femminili, di sicura ortodossia dottrinale e di ammirevole obbedienza, inopinatamente punita per volontà dello stesso papa Francesco della facoltà di celebrare la messa in rito antico a norma del motu proprio “Summorum pontificum” di Benedetto XVI, nonostante la nota del 31 gennaio sia ora venuta a dire che “il discorso del rito antico non è assolutamente il motivo principale” – mai precisato – del commissariamento.

© SETTIMO CIELO 

Celibato sacerdotale da rottamare. O no?

cristianesimocattolico:

Mons. Piero Parolin, neo Segretario di Stato Vaticano, intervistato dal quotidiano di Caracas El Universal, si dice cosciente di partecipare “ad un’opera di rinnovamento che (il Papa) vuole fare nella Chiesa Cattolica”.

Tra le altre cose il prelato riflette sul fatto che il celibato sacerdotale non è una “definizione di fede” e, quindi “si può pensare a qualche modifica”. Nulla di nuovo sotto il sole, né di scandaloso, sono secoli che si discute di questa legge ecclesiale, ma, come molti lettori sapranno, questa volontà di cambiamento è stata espressa particolarmente negli ultimi 40-50 anni.

Per farsi un’idea si possono leggere le opere di Hans Kung, per citare un teologo dissidente di un certo spessore, ma si potrebbero ricordare le aperture del domenicano olandese Schillebeeckxv, del gesuita Rahner, giù, giù fino all’odierno Vito Mancuso. Anche il Card. Martini aveva in più occasioni proposto un ripensamento dell’obbligo di celibato dei sacerdoti.

Al di là delle varie posizioni in campo colpisce che specialmente in questi ultimi 40-50 anni il tema è diventato una specie di cavallo di battaglia, soprattutto per cercare di arginare la terribile emorragia di vocazioni e gli abbandoni del sacerdozio. Infatti, anche Mons. Parolin ha spiegato che questa potrebbe essere una soluzione alla scarsità del clero.

E’ innegabile che il crollo dei costumi verificatosi negli ultimi decenni ha rappresentato una variabile non indipendente rispetto alla tenuta di questa legge ecclesiale e al calo del numero di sacerdoti. Qui però viene da domandarsi se sia la legge a doversi adattare al vento di cambiamento o, piuttosto, è la tempesta che deve essere sedata.

Secondo Paolo VI, e siamo nel 1967, “la causa della rarefazione delle vocazioni sacerdotali va ricercata altrove, principalmente, per esempio, nella perdita o nella attenuazione del senso di Dio e del sacro negli individui e nelle famiglie, della stima per la Chiesa come istituzione di salvezza, mediante la fede ed i sacramenti, per cui il problema deve essere studiato nella sua vera radice”. Mi pare che qui ci sia già una risposta decisiva: il problema non è la legge del celibato ecclesiale, ma l’apostasia della fede.

Il principio del celibato sacerdotale deve essere ricercato nell’idea di purezza, quella purezza che se non si fonda in una fede salda si sbanda con grande facilità. E’ una esperienza che, in altro senso, possono fare anche gli sposati: come restare fedeli al proprio marito o alla propria moglie se non si crede fermamente nella bontà del matrimonio? Come fare se non si ha un controllo superiore sui propri istinti? Operazione, oggi più che mai, veramente ardua, visto che le distrazioni sempre più facili e frequenti. Insomma, purezza, celibato e castità, sono valori in disarmo su tutta la linea.

Ma qui torna la domanda di prima: sono i valori che devono essere abbandonati, oppure è la prassi attuale che non li rispetta?

Per tornare alla questione del celibato ecclesiastico giova ricordare che l’attuale prefetto della Congregazione del Clero, il Card. Piacenza, ha scritto che “alla luce del magistero pontificio bisogna anche superare la riduzione, in taluni ambienti molto diffusa, del celibato a mera legge ecclesiastica”. Tra i vari interventi dei Papi appare particolarmente significativo quello di Giovanni Paolo II, il quale, in un esortazione post-sinodale del 1992, scriveva parole inequivocabili: “Il Sinodo non vuole lasciare nessun dubbio nella mente di tutti sulla ferma volontà della Chiesa di mantenere la legge che esige il celibato liberamente scelto e perpetuo per i candidati all’ordinazione sacerdotale nel rito latino”.

Il celibato è certamente un grande segno di radicalismo evangelico, di quella fede oggi allo sbando, come ricordava Paolo VI; segno di un Regno che non è di questo mondo, il quale, invece, appare ormai piegato alle logiche della carne. Facciamo nostra una domanda che si pone il Card. Piacenza: Una comunità che non avesse in grande stima il celibato, quale attesa del Regno o quale tensione eucaristica potrebbe vivere?

(di Lorenzo Bertocchi, da “La Voce di Romagna”, 13/09/2013)

Don Camillo (e Guareschi) prete pre-conciliare alle prese col prete post-conciliare

Guareschi morì nel 1968 – il mitico ’68, l’anno che ritengo il più nefasto della storia dell’umanità – tre anni dopo la chiusura del Vaticano II. Prima di morire si dedicò alla stesura del quarto libro della saga, che fu pubblicato l’anno seguente, il 1969, in cui Guareschi racconta gli immediati anni del post-concilio e riesce a descrivere con sorprendente lucidità che tipo di sacerdoti sarebbe usciti fuori dai seminari in cui sarebbe stata applicata quella che Benedetto XVI ha definito “l’ermeneutica della rottura”. Il libro fu intitolato “Don Camillo e i giovani d’oggi” ed è stato ripubblicato nel 1996 col titolo più appropriato “Don Camillo e don Chichì”. In questo libro, infatti, l’antagonista di Don Camillo non è Peppone, ma il suo vice-parroco, il giovane don Francesco, soprannominato dai parrocchiani don Chichì.

Don Camillo (e Guareschi) prete pre-conciliare alle prese col prete post-conciliare

Don Camillo e Don Chichì

Guareschi aveva chiamato l’ultimo suo libro “Don Camillo e i giovani d’oggi“, da cui fu tratto anche un film senza la coppia Cervi – Fernandel, ma poi il titolo cambiò come sopra. E’ un libro poco conosciuto. Don Chichì è il diminutivo – vezzeggiativo di Don Francesco, giovane prete con il quale il vecchio parroco non va molto d’accordo.

Don Chichì si è fatto prete subito dopo il Concilio Vaticano II o giù di lì, lo è diventato per ragionamento, per adempiere alla missione di aiutare i poveri, che “sono i prediletti di Gesù”, etc.. E dice che i ricchi sono, perché tali, dei peccatori incalliti, in quanto, o hanno rubato o sono i fruitori di un furto perpetrato dai loro maggiori. Don Chichì afferma che la proprietà è sempre un furto.

Lui non si è fatto prete per vocazione, ma per scelta autonoma di coscienza, per denunziare, da prete, le ingiustizie del mondo e porvi rimedio. Contrasta Don Camillo sul piano di una teologia pratica, dell’assistenza e della solidarietà: la sua è la pastorale dell’intervento continuo. Quando gli viene chiesto che cosa farebbe se finissero le emergenze, resta senza parole.

Don Chichì ama l’emergenza, il bisogno (degli altri). Li soccorre, viaggiando veloce sullo spiderino che si è comprato, ricusando la bicicletta del vecchio parroco.

E’ un confronto/scontro fra due visioni, due mondi. Don Camillo è legato al mondo di prima, moralista, un po’ classista, col senso della colpa e del peccato, ma anche della misericordia e del perdono di Dio. Confida nella grazia sanante e santificante, e sa che c’è una natura umana e una legge morale naturale inscritta nel cuore dell’uomo, che dice così: “Bonum faciendum (est), malum vitandum (est)“, cioè “Bisogna fare il bene ed evitare il male”. Un bene e un male comprensibili, distinti, intuibili, prevedibili, visibili.

Don Chichì, invece, parla di “opzione fondamentale”, sull’onda delle nuove teologie dinamiche, personaliste, esistenzialiste. Come per Eraclito, per Hegel, per Sartre e per Rahner, per Don Chichì l’uomo è un fascio di nervi e sensazioni in divenire, che non può essere mai definito secondo il concetto (fissista, lui dice) di natura, ma solo come soggetto e oggetto di cultura e cambiamento.

Il primo, il vecchio Don Camillo ascolta il secondo perplesso, quando esprime le opinioni sul mondo, sulla chiesa, e dice che il dialogo con il mondo, l’ascolto del mondo è prioritario, che tutto (o quasi) è socio – politico, psicanalitico, critico.

Il secondo accusa il primo di moralismo bacchettone, e di volere lo status quo per sempre, per poter continuare a imbonire impunemente la povera gente.

Vi è grande attualità nei due profili descritti dallo scrittore romagnolo. Sono due “tipi” ben visibili anche oggi, magari il vecchio un poco in declino, relegato dall’anagrafe e da studi un poco “datati” (?). Il secondo, invece, è pimpante e vibrante di iniziative. Don Chichì è dappertutto, come Figaro, nella città e fuori città, per radio e per televisione, sulla stampa e nelle scuole. Quasi ubiquo, o perlomeno bilocato. Mah (forse sto invecchiando), chissà perché il canonichetto mi inquieta, non mi convince.

Don Chichì, che ama i poveri, ma solo perché gli permettono di essere un campione della solidarietà, va prete perché lo decide razionalmente, invece di “amare i poveri”, perché “ogni cosa che avrete fatto a uno di loro l’avrete fatto a me”.

Don Camillo sa che il male, l’ingiustizia sono prodotti dell’agire umano responsabile, Don Chichì socializza e sociologizza tutto, annacquando la dimensione della responsabilità personale dell’agire morale.

Don Chichì guarda negli occhi la folla, le masse, diventando pian piano astigmatico; Don Camillo guarda negli occhi la singola persona, condividendo, se del caso, una lacrima furtiva.

Conosco diversi “Don Camillo”, con cui parlo anche se spesso non siamo d’accordo. Conosco anche qualche “Don Chichì”, con cui invece non parlo perché sa (sanno) già tutto.

RENATO PILUTTI

Il card. Bagnasco al funerale di don Gallo. Tutto secondo copione

di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro (29/05/2013)

I cattolici più avveduti, ormai ridotti a una riserva indiana fatta in larga parte di semplici fedeli, avevano cominciato a tremare quando larcivescovo di Genova, il cardinale Angelo Bagnasco, manifestò il desiderio di celebrare i funerali di don Andrea Gallo. Con un pò di sensus fidei e un po’ di conoscenza del mondo, i poveri semplici fedeli avevano intuito come sarebbe andata a finire.

Tutto secondo un copione scritto dal mondo, in un sapiente climax culminato nella comunione data dal cardinale al signor Vladimiro Guadagno, meglio conosciuto come il “transgender” Vladimir Luxuria, una persona con un evidente problema morale noto a tutti, una persona che non solo sbaglia, come tutti i peccatori di questa terra, ma che teorizza e ostenta da anni la legittimità morale del suo errore oggettivo.

Il silenzio imbarazzato di molti non riesce a nascondere lo scandalo che questa vicenda sta suscitando tra i fedeli. E la stampa cattolica ufficiale, così poco libera da non poter criticare nemmeno se capisse che c’è da criticare, con la sua versione rassicurante non riesce a diradare le nuvole nere prodotte dal malcontento che serpeggia tra i credenti.

È difficile essere rassicuranti davanti a quanto accaduto durante la cerimonia funebre del prete genovese. E il cardinale Bagnasco è persona troppo intelligente per non aver calcolato quali sarebbero state le conseguenze implicite nella sua decisione. Celebrare i funerali di don Gallo ha voluto dire, innanzitutto, accettare preventivamente uno scenario liturgico abborracciato, più simile a una manifestazione politico-rivoluzionaria che non al sacrificio di Cristo. E, puntualmente, sono arrivate le contestazioni verbali rivolte al presule da parte di non pochi presenti: un principe della chiesa trascinato dentro un’indegna ed evitabilissima gazzarra.

Ma c’è ben altro. L’arcivescovo che celebra quel funerale dice esplicitamente all’opinione pubblica che, per la Chiesa cattolica, don Gallo ha rappresentato una legittima interpretazione del sacerdozio. Il Curato d’Ars e don Gallo sarebbero così le facce di un’identica medaglia: il primo un vecchio modello superato, il secondo una nuovissima e attuale versione, più aperta e meno rigida.

Su questa china, l’omelia del cardinale ha confermato il clima da sdoganamento del prete di strada, trasformandosi nella celebrazione post mortem di una figura che, a onor del vero, ha vissuto predicando agli antipodi della dottrina cattolica sulle più importanti questioni che riguardano la morale e il bene comune, il diritto e la regalità sociale di Cristo. Del resto, se si tiene tanto in conto il mondo, si può andare a un funerale di un personaggio così ingombrante tenendo un’omelia dal sapore censorio nei confronti del defunto?

Don Gallo era diventato da tempo un fenomeno mediatico e, dunque, se si accetta la logica dei media, incriticabile. Inoltre, in quanto fenomeno mediatico, attirava intorno a sé la solita corte di personaggi dello spettacolo che non poteva mancare di manifestarsi in massa ai suoi funerali. Anche questo era noto e, dunque, era altrettanto prevedibile che ci sarebbero stati i soliti, imbarazzanti “incidenti” in merito al legittimo accesso alla Comunione da parte di alcuni vip. In tal senso, la foto di Vladimir Luxuria che riceve il Santissimo dal Cardinale Bagnasco è l’icona, il simbolo potentissimo del “rito” cui il presidente della Conferenza episcopale ha deciso di partecipare. Nelle parrocchie, centinaia di preti di buona volontà si sgolano ogni domenica per spiegare ai fedeli divorziati risposati che la Comunione non possono riceverla. E l’arcivescovo di Genova cosa fa? Se la logica non è un opinione, fa il contrario.

Per spiegare tutto questo, si potrebbe fare appello alla legge fondamentale della Chiesa, a quella “salus animarum” dimenticata dalla teologia ufficiale degli ultimi cinquant’anni. In altri termini: un sacerdote, e quindi anche un cardinale, se sa che c’è anche una sola anima da salvare, non si ferma di fronte a nulla, prende e va anche in capo al mondo. Se c’è da confessare, da visitare un infermo, da dare cristiana sepoltura a un morto, da inseguire un’anima ribelle e lontana, il prete deve fare la sua parte, andando anche a casa di Matteo il pubblicano. Ma questo ammirevole apostolato il sacerdote non lo svolge sotto l’occhio osceno e volgare del Grande Fratello, sotto lo sguardo perverso e manipolatorio dei mezzi di comunicazione di massa.

Nei confronti di don Andrea Gallo si dovevano compiere tutti gli atti di pietà possibili e immaginabili, ma a patto di sottrarsi al palcoscenico mondano e deturpante del sistema mediatico. Si poteva celebrare un funerale in forma riservata e privatissima ed evitare parole di encomio che suonano francamente come oltraggiose nei confronti di tutti quei cattolici che ogni giorno si battono contro il relativismo e il nichilismo anticattolico montante nella società. Si doveva difendere il Corpus Domini dalla profanazione che, ragionevolmente, si compie accettando di comunicare chi non ha notoriamente la condizione soggettiva per farlo, compiendo così un atto d’amore nei confronti dello stesso peccatore, che evita di aggiungere colpa a colpa. Senza dimenticare che nelle chiese cattoliche di questa tragica modernità, alcuni sacerdoti negano la comunione a un fedele che osi, semplicemente, inginocchiarsi per riceverla.

Accettare di diventare protagonisti dello spettacolo allestito dai mass media per i funerali del personaggio pubblico don Gallo: questa è la colpa grave del cardinale. Cosa ben diversa dal compiere, discretamente, l’azione salvifica del sacerdote. Accettare la logica del mondo propagata dai suoi media porta a situazioni grottesche nella loro essenza ma anche nel dettaglio. Come si fa, per esempio, ad andare al funerale di un prete che sul sagrato viene pubblicamente elogiato dall’ebreo Moni Ovdia e, nello stesso tempo chiedere, ai bolognesi di non votare per l’abolizione del contributo comunale alle scuole cattoliche in un referendum nel quale Moni Ovadia stesso era uno dei testimonial della fazione anticattolica? Un cattolico, per fare un altro esempio, non può accettare di essere ridotto alla condizione di schizofrenico, che da un lato si batte contro l’aborto, e poi è costretto a vedere “beatificato” il prete che non faceva mistero di accompagnare le prostitute in ospedale ad abortire.

Ma, a conti fatti, sorge il sospetto che ai funerali di don Gallo il cardinale sia andato non malgrado i mass media, ma proprio per la loro presenza. Anche lui vittima di quel patetico complesso di inferiorità che spinge presuli di varia indole e grado gerarchico a inseguire il consenso e l’attenzione del mondo. Vescovi e cardinali scrivono discorsi e compiono gesti nella speranza di poter “passare” nelle notizie e nelle immagini del Tg delle 20. “Eminenza, siamo sul Tg3″ saltellano garruli per le curie i segretari dei pastori che hanno bucato lo schermo, credendo, così, di rendere un gran servizio alla Chiesa. Del resto, basta onestamente rispondere alla seguente domanda: se don Gallo fosse stato lo stesso identico tipo di prete, ma sconosciuto, ignoto a giornali e tv, senza Albe Parietti e Vladimiri Luxuria pronti a piangerlo al suo funerale, se fosse stato un prete rivoluzionario, ma inesorabilmente anonimo, il Presidente della Cei si sarebbe scomodato andando ai suoi funerali? 

Non si può più tacere

di Massimo Viglione e Corrado Gnerre (Il Giudizio Cattolico, 28/05/2013)

Dinanzi alla scelta compiuta dall’arcivescovo di Genova, cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza Episcopale Italiana, di celebrare la Santa Messa funebre per don Gallo e di lodare tale sacerdote nella omelia e soprattutto di offrire la Santa Comunione a pubblici peccatori, in primis Vladimir Luxuria, non si può più tacere e far finta di non indignarsi. Non licet.

L’amore per Cristo Eucaristia, l’amore per la Chiesa e per l’ordine del creato voluto da Dio, l’amore per la verità e il giusto, ci impongono il doloroso quanto scomodo compito di denunciare pubblicamente uno scandalo indegno e intollerabile, perpetrato senza remora alcuna.

Don Gallo è stato per tutta la vita un eretico pubblico e un sovversivo. Ha predicato l’odio di classe, la ribellione sociale, il sovvertimento della morale cattolica e naturale, di fatto il superamento della gerarchia ecclesiastica; si è schierato pubblicamente per decenni con i nemici di Dio e della Chiesa, della Fede e della Verità cristiane. Sotto l’usuale maschera del pacifismo e della preoccupazione per i poveri, don Gallo ha predicato il comunismo e l’egualitarismo sovversivo e gnostico, rinnegando ripetutamente non solo la sana dottrina della Chiesa ma anche Dio stesso, così come Lo conosciamo e Lo adoriamo.

Vivendo e operando don Gallo nella diocesi di Genova, era compito del cardinal Bagnasco sorvegliare, correggere fraternamente, quindi riprendere ufficialmente, quindi minacciare, e, dinanzi al costante rifiuto di obbedienza, anche prendere provvedimenti adatti, fino alla sospensione a divinis e alla scomunica, se necessario. Questo dovere il cardinale Bagnasco non lo ha ricevuto da fittizi vincoli amministrativi e giuridici (anche), lo ha ricevuto da Gesù Cristo stesso, quando il Signore ha dato ordine agli apostoli di pascere le pecore e difenderle dai lupi travestiti da agnelli.

Ma il cardinal Bagnasco non ha fatto nulla di tutto questo, per anni. Mai si è preoccupato di difendere il gregge dai lupi travestiti da agnelli. Ora, offrendosi volontario per la pubblica celebrazione di un pubblico eretico e sovversivo, è come se avesse aperto il cancello del recinto e buttate le chiavi.

Se questo fosse tutto, sarebbe già molto grave. Ma non è tutto, e non è la cosa più grave.

Come sappiamo, il cardinal Bagnasco ha offerto la Santa Comunione a pubblici nemici della Chiesa e della fede, fra cui Vladimir Luxuria, il quale (o la quale, non sappiamo) è a tutti noto/a e pertanto è superfluo spiegare la gravità inaudita dell’atto in sé. Ha dato l’Eucaristia a chi non solo non ha alcuna intenzione di cambiare vita, ma che professa continuamente la giustezza di qualsiasi sovversione dell’ordine morale e cristiano. Lo ripetiamo a scanso di equivoci: qui non si tratta di fare perbenismo farisaico. Nessun peccatore è irredemibile. Tutti possono salvarsi e arrivare a gradi di grande di santità… ma a patto che si pentano. C’è una differenza che un cristiano non dovrebbe mai dimenticare, a maggior ragione un ecclesiastico. La differenza tra odio d’inimicizia e odio di abominio. Il primo non è mai permesso al cristiano. Questi deve sempre e comunque amare il peccatore pregando per la sua conversione. Il secondo è un santo odio che è dovuto al cristiano: è l’odio per il peccato. Ora, quando un peccatore non è pentito del suo peccato, anzi lo difende, lo propaganda, ne fa una bandiera, si è tenuti alla pubblica condanna e a evitare qualsiasi scandalo offrendo una falsa misericordia che diverrebbe giocoforza approvazione del peccato.

Allora, dinanzi a un mondo che quotidianamente (l’avverbio di tempo va preso alla lettera) minaccia sia la morale pubblica e civile in ogni modo possibile, appoggiando l’omosessualismo e tentando di distruggere la famiglia naturale e tutto ciò che è naturale, e di conseguenza quotidianamente contrasta e deride la dottrina cattolica, sia attaccando in ogni maniera la Chiesa, la sua tradizione, la sua civiltà, le sue gerarchie, i suoi esponenti; dinanzi a tutto ciò, e a molto altro che è superfluo ricordare, come giudicare tale atto e le conseguenze immediate che ne derivano?

Coloro che scrivono sono due poveri laici, che indegnamente e inadeguatamente da decenni si sforzano di fare dell’apostolato fra i giovani e non, difendendo, contro la cultura dominante, la sana e tradizionale dottrina della Chiesa Cattolica, quella dottrina tradita ogni giorno negli ultimi decenni anzitutto da un numero considerevole di ecclesiastici … ma pur sempre ribadita e difesa dagli ultimi Pontefici e da tanti e tanti ecclesiastici ancora fedeli alla Verità di Cristo. Molte volte ci siamo sentiti dire che la Chiesa è vecchia, non capisce il mondo, ecc. ecc., e quindi dovrebbe aprire al divorzio (e questo è solo l’inizio), ma poi anche alla convivenza (e siamo sempre all’inizio), quindi all’aborto (e non siamo più all’inizio, ma il processo è ineludibilmente consequenziale) e ai diritti degli omosessuali (e non siamo certo alla fine); innumerevoli volte abbiamo taciuto ma tante altre abbiamo invece difeso, rimettendoci in prima persona e tanti modi, la sana dottrina, la naturalità della famiglia, la sacralità della vita, l’ordine del creato come Dio lo ha voluto.

Ora, dinanzi al gesto del prelato di cui sopra, che dà la Santa Comunione a Luxuria, cosa potremo più dire? E cosa potranno più dire centinaia di migliaia non solo di sacerdoti e suore, ma anche di laici impegnati nell’apostolato, in difesa della fede, della morale, della famiglia e dell’ordine, se finanche il cardinal Bagnasco, arcivescovo e presidente della CEI, non si perita di offrire il Corpo e il Sangue immacolati di N.S.G.C. a chi da una vita ha scelto la via dell’odio a Dio e della ribellione pubblica e scandalosa all’ordine del creato?

Cosa potremo rispondere? Che la Chiesa si sbaglia da duemila anni? O forse che si è sbagliato N.S.G.C. quando ha detto «Chi scandalizza uno di questi piccoli che credono, è meglio per lui che gli si metta una macina da asino al collo e venga gettato nel mare» (Mc, 9,42)? O forse che si è sbagliato San Paolo Apostolo quando ha scritto che «Chi mangia il Corpo del Signore inde­gnamente, mangia la propria con­danna» (l Cor, 11,29)? O forse che si è sbagliato il Dottore Angelico e Dottore dell’umanità, san Tommaso d’Aquino, insegnando che non v’è salvezza per chi profana l’Eucaristia, quando nel Lauda Sion ha scritto: (Lo) ricevono i buoni, (lo) ricevono i malvagi, / ma con ineguale sorte: di vita o di morte. È morte per i malvagi, vita per i buoni: / vedi di pari assunzione quanto sia diverso l’effetto (…) Ecco il pane degli angeli fatto cibo dei viandanti: / vero pane dei figli da non gettare ai cani.

Chiunque, a questo punto, fedele o meno, potrebbe obiettare che ci sbagliamo a difendere la morale tradizionale e a condannare l’omosessualismo, specie quello pubblicizzato e politico, visto che per il cardinal Bagnasco non è un peccato degno di riprovazione; mica ne possiamo sapere più del presidente della CEI! O, peggio ancora, chiunque, potrebbe avanzarne un’altra più intelligente e ancor più logica, asserendo che il cardinal Bagnasco non crede più alla Transustanzazione, per cui tutti possono prendere l’Ostia consacrata senza commettere sacrilegio.

Cosa potremo rispondere a tali obiezioni, che sono logiche e consequenziali in sé? Ma non basta. Una persona ancor più intelligente, potrebbe arrivare alla ovvia conclusione che per il cardinal Bagnasco la confessione è ormai un sacramento inutile e “vecchio”, visto che ha dato l’Immacolato Corpo e Sangue di N.S.G.C. a una persona che vive pubblicamente nel più turpe dei peccati e ne fa anche bandiera politica. Lo stesso Luxuria ha detto che l’ultima volta che aveva avuto accesso all’Eucaristia aveva 17 anni…

Che ne è della dottrina della Chiesa Cattolica quando il Presidente della Conferenza Episcopale Italiana dà questi esempi? Che ne è della necessità della Confessione per avvicinarsi in maniera degna all’Eucaristia? E che ne è dell’Eucaristia? Che ne è dei sacramenti istituiti da Cristo stesso? E se saltano i sacramenti, che ne è della Chiesa Cattolica? È ancora il Corpo mistico di Cristo e società di salvezza, oppure è ormai concepita come una ONG assistenziale? E, se così fosse, a quale ONG dovremmo fare riferimento, a quella dei ricchi e delle banche appoggiati da Bagnasco (ci riferiamo all’appoggio sconsiderato e imperterrito dato al governo Monti, responsabile della rovina economica di decine di migliaia di aziende e della disperazione di un numero enorme di padri di famiglia e disoccupati, fra i quali decine hanno scelto la via della disperazione giungendo al suicidio), o a quella dei comunisti in rivolta di don Gallo? Quale è peggio?

Ma la Chiesa Cattolica non è una ONG, non è una “società di rivolta sociale” né un’associazione zerbino di potentati finanziari e bancari internazionali. La Chiesa è il Corpo mistico di Cristo, composto da tutti i battezzati in unione con il Papa, e il suo scopo primo è offrire la via della salvezza eterna a ogni uomo e, secondariamente, aiutare ogni uomo nei suoi bisogni materiali. Questa società di salvezza ha un suo magistero, che spetta alle gerarchie ecclesiastiche, in unione con Pietro, preservare nella sua immutabile integrità e diffondere. Elementi essenziali per offrire la salvezza a ogni uomo sono i sette sacramenti, fra cui assolutamente necessari, dopo il Battesimo, sono l’Eucaristia e la Confessione, senza la quale non si può accedere all’Eucaristia quando si è in stato di peccato grave, perché accostarsi all’Eucaristia in uno stato non di grazia è peccato abominevole e profanazione.

Non spetterebbe ai laici ricordare queste immutabili verità della Fede cattolica mentre è compito del clero tutto, e a maggior ragione delle gerarchie farle rispettare e rispettarle. Quando gli invitati non hanno la veste adatta per il banchetto nuziale… tocca agli storpi, ai ciechi, ai poveri dei crocicchi delle strade, andare a prendere il loro posto.

Mentre il cardinale presidente della CEI dava la Santa Comunione a un transessuale rivendicatore dei “diritti dei gay” e del “matrimonio omosessuale” (nonché del “diritto” all’adozione dei bambini), celebrando il funerale di un eretico, centinaia di migliaia di uomini e donne, e anche sacerdoti e suore, sfilavano a Parigi in difesa del matrimonio naturale fra uomo e donna e contro l’affidamento dei bambini agli omosessuali. Mentre il cardinale Bagnasco era sotto i riflettori di questo mondo, centinaia di migliaia di persone nel silenzio dell’umile attività al servizio di Cristo testimoniavano contro il principe di questo mondo.

«Non potete servire a Dio e mammona» (Mt, 6,24): si potrà dire ciò che si vuole, ma l’equazione: servilismo al supercapitalismo finanziario + appoggio al comunismo gnostico e sovversivo… sa tanto di mammona.

Noi non ci stiamo, costi quello che costi. Giovedì prossimo la Chiesa Cattolica commemora la solennità del Corpus Domini. Il Giudizio cattolico invita tutti i suoi amici a offrire la Santa Comunione o la partecipazione alla processione in riparazione dell’oltraggio ignominioso che Cristo Eucaristia ha ricevuto a Genova lo scorso venerdì, e in riparazione ovviamente di tutti gli oltraggi che ogni giorno riceve nel mondo intero. (

IL PAPA, I VESCOVI PUGLIESI E IL VANTAGGIO DI RITROVARSI TUTTI MUSULMANI

di Francesco Colafemmina (2805/2013)

Abbassare ciò che è in alto e innalzare ciò che è in basso. Un programma estremamente chiaro sebbene dagli esiti incerti. È il programma attuale della Chiesa Cattolica. Si sfronda qua e là col machete, e non importa se si dà la comunione in piedi e senza la patena, se sull’altare ci sono due o sette candelabri, se il Papa veste di bianco o di nero, non importa. Importa l’essenziale che è poi un Dio inclusivo, i cui apostoli erano dei rozzi intolleranti, la cui Chiesa è stata per anni la “Chiesa del no”, una Chiesa talmente perversa da aver condotto guerre, crociate in nome di Dio.

E forse sarebbe stato meglio farsi sterminare e convertire mille anni fa. O cinquecento anni fa, o quattrocento anni fa. Avremmo un altissimo minareto nel centro di Vienna e una moschea al posto di San Pietro, ma in compenso non potremmo sentire Radio Vaticana esaltare film dedicati ai compiaciuti accoppiamenti di adolescenti lesbiche esaltati come fossero gli ideali amplessi di un romanzo delle sorelle Brontë, non potremmo vedere il Cardinal Bagnasco dare l’Eucaristia (ridotta concettualmente ad un semplice pezzo di pane) ad un notorio depravato dalla spiritualità confusa almeno quanto la sua identità sessuale, non potremmo leggere le sconclusionate omelie oggi di moda, solitamente condite con un po’ di Dio spray, poco sale e tanto peperoncino all’aceto.

Tristi destini del Cattolicesimo decadente, come la società europea che ha prodotto. Sessant’anni di rivoluzione permanente e questo è il risultato: una Chiesa sciatta e sgarrupata, intimidita dal potere, complice delle imperanti ideologie mondane. Poi ci lamentiamo se le chiese sono disgustose… Come potrebbe un simile clero immerso in un perenne spleen soporifero edificare le grandiose creazioni del passato? Già è tanto se riescono a mettersi una casula decente, figuriamoci ora le chiese… Si discute poi tanto delle recenti esternazioni dei loquaci vescovi pugliesi, tutte volte alla santificazione del Papa. In realtà volte alla giustificazione personale. Così Mons. Di Molfetta che mentre pensa a costruire una nuova cripta nel duomo di Cerignola onde ospitare la sua augusta salma nel lontano giorno della sua dipartita, d’altro canto deve apparire più francescano di papa Francesco e dunque farsi bello con la condivisione dei messaggi papali sulla povertà e sulla Chiesa in cerca di periferie. Così Mons. Padovano il cui obiettivo è dimostrare che il “tradizionalismo” oltre a dover essere oggetto di “vigilanza” (termine solitamente riservato all’antisemitismo) deve sapersi integrare così come fa Mons. Marini con il Papa. Messaggio occultamente rivolto a qualche consultore dell’ufficio per le celebrazioni liturgiche del Sommo Pontefice e ai suoi seguaci in terra di Puglia, piuttosto invisi al Padovano. Così Mons. Martella, tutto intento al culto dontoninobellista della povertà e dell’accoglienza. Sono così i nostri Vescovi, li rispettiamo e gli vogliamo bene, ma pretenderemmo meno chiacchiere e più fatti!

Detto questo, sarò forse un cattolico depresso o acido o tragico? No, sono felice perché credo, perché ancora riesco a contemplare il creato e a farmi largo nella giungla del brutto, del deforme, cercando il bello nelle piccole cose. Ma sono un cattolico incazzato! Non sopporto più la retorica delle buone intenzioni e la doppiezza dei discorsi buonisti. Vorrei vedere dedizione in chi dovrebbe vigilare sulla fede e in vece continuo a vedere un’inesausta gara all’inseguimento del mondo. Signore, per carità, convertili, donagli più luce perché nonostante tutto continuano a brancolare nel buio!

La messa antica non si tocca, il Papa gesuita spiazza ancora tutti

I vescovi pugliesi chiedono il ritiro del motu proprio di Ratzinger. Bergoglio dice no, servono cose nuove e antiche.

di Matteo Matzuzzi (28/05/2013)

Chi pensava che con l’arrivo al Soglio di Pietro del gesuita sudamericano Jorge Mario Bergoglio la messa in latino nella sua forma extra-ordinaria fosse archiviata per sempre, aveva fatto male i conti. Il motu proprio ratzingeriano del 2007, il Summorum Pontificum, non si tocca, e il messale del 1962 di Giovanni XXIII (che poi è l’ultima versione di quello tridentino del Papa santo Pio V) è salvo. Quel rito con il celebrante rivolto verso Dio e non verso il popolo, con le balaustre a separare i banchi per i fedeli dal presbiterio, non è un’anticaglia, detrito da spedire in qualche museo a impolverarsi. E’ stato proprio il Pontefice regnante a dirlo, ricevendo qualche giorno fa nel Palazzo apostolico la delegazione dei vescovi pugliesi giunti a Roma in visita ad limina apostolorum, come fa tutto l’episcopato mondiale ogni cinque anni.

Come ha scritto sul suo blog il vaticanista Sandro Magister, i vescovi pugliesi sono stati i più loquaci, con clero e giornalisti. La scorsa settimana, il capo della diocesi di Molfetta, Luigi Martella, ha raccontato come Francesco sia pronto a firmare entro l’anno l’enciclica sulla fede che Benedetto XVI starebbe portando a termine nella tranquillità del monastero Mater Ecclesiae, aggiungendo addirittura che Bergoglio ha già pensato alla sua seconda lettera pastorale, dedicata alla povertà e intitolata “Beati pauperes”. Dichiarazioni che hanno costretto la Santa Sede a smentire, rettificare e chiarire, con padre Federico Lombardi che invitava a pensare “a un’enciclica per volta”. Poi è toccato al vescovo di Conversano e Monopoli, Domenico Padovano, che al clero della sua diocesi ha raccontato come la priorità dei vescovi della regione del Tavoliere sia stata quella di spiegare al Papa che la messa in rito antico sta creando grandi divisioni all’interno della chiesa. Messaggio sottinteso: il Summorum Pontificum va cancellato, o quanto meno fortemente limitato. Ma Francesco ha detto no.

E’ sempre monsignor Padovano a dirlo, spiegando che Francesco ha risposto loro di vigilare sugli estremismi di certi gruppi tradizionalisti, ma suggerendo altresì di far tesoro della tradizione e di creare i presupposti perché questa possa convivere con l’innovazione. A tal proposito, come scrive Magister, Bergoglio avrebbe pure raccontato le pressioni subite dopo l’elezione per avvicendare il Maestro delle cerimonie liturgiche, quel Guido Marini dipinto al Papa come un tradizionalista che andava rimandato a Genova, la città che nel 2007 lasciò a malincuore obbedendo alla volontà di Benedetto XVI che lo volle a Roma. Anche in questo caso, però, Francesco ha opposto il suo rifiuto a ogni cambiamento nell’ufficio delle cerimonie. E lo ha fatto “per fare tesoro della sua preparazione tradizionale”, consentendo al mite e poco protagonista Marini di “avvantaggiarsi della mia formazione più emancipata”.

La differenza culturale c’è tutta, il gesuita che per tradizione ignaziana “nec rubricat nec cantat” si trova improvvisamente catapultato in una realtà in cui negli ultimi otto anni erano stati pazientemente e lentamente recuperati elementi liturgici abbandonati negli ultimi trenta-quarant’anni, giustificando così chi vedeva nel Concilio una rottura anche in campo liturgico. Il filo conduttore delle cerimonie benedettiane era riassumibile nella sintesi tra solennità e compostezza: il ritorno sull’altare dei sette alti candelabri e della croce centrale e gli avvisi a non applaudire ne sono un esempio. E poi il latino, lingua della chiesa, che veniva usato per le celebrazioni non più solo a Roma ma in ogni angolo del pianeta, Africa compresa. Non pochi, guardando il volto serio di Marini quella sera di marzo mentre Bergoglio appariva per la prima volta alla Loggia delle Benedizioni con la semplice talare bianca, senza mozzetta né stola, avevano previsto un avvicendamento imminente. Invece Francesco sa che Roma non è Buenos Aires, che fare il Papa richiede anche di mantenere un apparato simbolico ancorato nella storia e nella tradizione millenaria della chiesa cattolica.

La continuità che non piace a tutti

Un recupero, quello avvenuto negli anni di Benedetto XVI, che a molti non è piaciuto, anche dentro le Mura leonine. Monsignor Sergio Pagano, prefetto dell’Archivio segreto vaticano, diceva lo scorso 7 maggio a margine della presentazione della costituzione d’indizione del Concilio “Humanae  salutis” che “quando oggi vedo in certi altari delle basiliche quei sette candelabri bronzei che sovrastano la croce mi viene da pensare che ancora poco è stato capito della costituzione sulla liturgia Sacrosanctum Concilium”. Ecco perché qualcuno, come il vescovo di Cerignola-Ascoli Satriano, monsignor Felice Di Molfetta – che da sempre considera la messa in forma extra-ordinaria incompatibile con il messale di Paolo VI, espressione ordinaria della lex orandi della chiesa cattolica di rito latino – qualche giorno fa ha fatto sapere ai fedeli della sua diocesi di essersi vivamente rallegrato con Francesco “per lo stile celebrativo che ha assunto, ispirato alla nobile semplicità sancita dal Concilio”.