Mario Palmaro alla “Bussola Quotidiana”: la scristianizzazione la stanno facendo i cattolici.

Mario Palmaro, del mitico duo “Gnocchi & Palmaro”, ha preso carta e penna per replicare all’editoriale del 3 gennaio. C’è poco da commentare e rispondere. Meditate e basta.

Mario Palmaro alla “Bussola Quotidiana”: la scristianizzazione la stanno facendo i cattolici.

Si salvi chi può dalla scure di Melloni — Il risentito avvocato di Dossetti e gli allievi di Lazzati

di Giovanni Tassani (10/12/2013)

San Pio X? Scatenò “una repressione che, per i metodi di polizia segreta adottati, anticipa almeno un tratto del totalitarismo: una campagna che avrà come effetto quello di fabbricare un clero teologicamente scervellato che segnerà in modo particolare l’Italia e il rapporto con tutti i conservatorismi, da quello sanguinario del fascismo a quello boccaccesco del berlusconismo”.

Il riavvicinamento, avviato con Giolitti, dei cattolici ai liberali? “Nato in concomitanza con le celebrazioni costantiniane che dovevano lavare l’onta delle feste cinquantenarie del Regno usurpatore, il Patto Gentiloni inaugura la lunga vita di un’idea nata morta per la XXIV legislatura del Regno e rinverdita di lustro in lustro oltre il crinale repubblicano, quella cioè, per la quale i cattolici in Italia servono a rafforzare un moderatismo ‘naturale’ e benedetto”.

Veniamo a tempi più ravvicinati. Pio XII? Ebbe nel 1952 “la folle idea di sdoganare i fascisti nelle elezioni per Roma” in combutta con Luigi Gedda che intendeva traslare in Italia l’ideologia dell’Action française.

Ce n’è anche per il “conservatore” Alcide De Gasperi: “l’uomo della stabilità intesa come fine a sé stessa”.

A chi appartengono questi giudizi, strampalati più che sommari?

All’esimio professore ordinario di storia del cristianesimo Alberto Melloni, direttore a Bologna della Fondazione Giovanni XXIII, presentista ubiquo in RAI, Enciclopedia Italiana, “Corriere della sera”, nonostante inciampi e ripetuti svarioni storiografici.

Da tempo Melloni è impegnato a “salvare” la memoria di Giuseppe Dossetti da una vasta trama di affossatori della sua figura, a suo avviso centrale nella storia politica ed ecclesiastica italiana, e non solo.

I giudizi sopra citati sono appunto tratti da una sua “Lectio magistralis” dal titolo: “Sul ‘vero’ Dossetti”, pronunciata un anno fa, il 26 novembre 2012, in occasione della III Cattedra Giuseppe Lazzati, presso l’omonima Fondazione milanese, e che ora viene pubblicata dalla rivistina “Appunti di cultura e politica”, già organo della disciolta Lega democratica di Pietro Scoppola e dal 2002 fatta propria dall’associazione “Città dell’uomo”, fondata da Giuseppe Lazzati, che fu in vita sodale politico del Dossetti democristiano nonché suo amico sincero.

Nei confronti di Pio XII Melloni è da sempre particolarmente affilato: chi tenta di difenderlo è da lui arruolato in una creatura di sua fantasia: le “Brigate Pacelli”.

Meno esposto il giudizio su Paolo VI, che fu la bestia nera della “scuola di Bologna” in ragione del suo supposto spegnimento del Concilio giovanneo, del progetto di “Lex Ecclesiae Fundamentalis” e della destituzione del cardinal Lercaro dalla sede di Bologna, per il nostro: “un episodio con pochi precedenti nel secondo millennio”, su cui promette prossime e approfondite rivelazioni.

Su Dossetti, il Melloni si sente l’unico storico “veridico”, con l’eccezione di pochi allievi ed amici autorizzati, da lui arruolati in una non fortunata impresa editoriale: “Cristiani d’Italia”, in due volumi Treccani, opera benedetta alla partenza dall’allora patriarca di Venezia Angelo Scola, poi inutilmente sostenuto da Melloni dalle colonne del “Corriere della Sera” per la corsa al soglio pontificio. Una voce istruttiva di questa enciclopedia melloniana è dedicata a: “Il ruinismo. Visione e prassi politica del presidente della conferenza episcopale italiana, 1991-2007″.

Tutti gli altri studiosi che di Dossetti si sono occupati o continuano a scriverne in autonomia “peccano” a suo giudizio di imprecisione o tradimento: dai membri della famiglia religiosa fondata dallo stesso Dossetti, compresa suor Agnese Magistretti, ai curatori delle Edizioni Paoline che confezionano una “mousse dolciastra” nelle presentazioni degli scritti giovanili dossettiani in una collana da lui non controllata, alla “costruzione ideologica” di un vecchio prefatore di scritti dossettiani per Marietti come Mario Tronti, approdato ai “marxisti ratzingeriani”, al prefatore Walter Veltroni, reo col suo scritto “imperdibile” di avere promosso per Diabasis un’altra edizione reprint – in “frettolosa concorrenza” con la sua – di “Cronache Sociali”, la rivista dossettiana tra il 1947 e il 1952, addirittura – si pensi – “grazie ai finanziamenti di una banca romana”.

Neppure il buon padre Giovanni Sale della “Civiltà Cattolica”, che ha rivelato il ruolo di raccordo stretto tra il Vaticano e Dossetti ai tempi dell’assemblea costituente, ruolo sempre negato in vita da Dossetti, si salva da un giudizio di frettolosità.

E sono fatte le pulci anche a Leopoldo Elia e a Pietro Scoppola per aver alterato, in un libro-intervista postumo a Dossetti e Lazzati, alcune dichiarazioni di quest’ultimo, critiche del buon rapporto esistente tra papa Karol Wojtyla e Comunione e liberazione.

Gli altri autori non conformi sono silenziati, sorte a cui sfugge chi scrive, il cui apporto alla conoscenza del ritiro di Dossetti dalla Democrazia cristiana agli inizi degli anni Cinquanta (in libri e saggi pubblicati tra 1988 e 2007) non è affrontato, ma ricordato come “collezione di coriandoli documentari dediti alla scoperta politologica dell’acqua calda”.

Il torto di chi scrive è forse quello di aver partecipato a un convegno bolognese per i dieci anni dalla morte di Dossetti parlando bene di De Gasperi – con conseguente esclusione per non conformità dagli Atti, come buona parte dei relatori – e poi di aver criticato, documenti alla mano, la bizzarra tesi melloniana del Dossetti vicesegretario della DC “in opposizione al segretario Gonella”.

Altra bizzarra tesi di Melloni è quella circa la volontà dossettiana di creare un partito laburista cristiano a sinistra della DC con iniziale appoggio del sostituto alla segreteria di Stato vaticana Giovanni Battista Montini: fantasmi che fanno il paio a sinistra con quelli agitati a destra contro la supposta “Action italienne” di Gedda.

Dalla scure giacobina del nostro non si salvano – nella citata “Lectio magistralis” – i papi più recenti: Benedetto XVI, cui “qualcuno”, in occasione del 150° dell’unità d’Italia fece firmare “una ricostruzione grottesca del percorso costituente” omettendo Dossetti. E Giovanni Paolo II, che avrebbe ridotto “quella forma di ipocrisia canonica che è l’apertura del processo di beatificazione”, che pure per secoli ha avuto una sua severa prassi, a una specie di “cavalierato”.

A qualcosa di più di un “cavalierato” aspirano, col processo avviato di beatificazione, gli amici milanesi di Lazzati e le brave persone della redazione di “Appunti”. Ma stupisce che si siano affidati a un avvocato che non sa davvero difendere la memoria di Dossetti, né tutelare quella di Lazzati. Dopo un anno dalla lettura di quella “Lectio magistralis”, che credo avranno ascoltato con vigile attenzione quel 26 novembre dell’anno scorso, potevano forse evitare di pubblicarla.

© – FOGLIO QUOTIDIANO

JFK, il primo “cattolico adulto”

Cinquant’anni fa moriva assassinato a Dallas John Fitzgerald Kennedy, il primo presidente cattolico nella storia degli Stati Uniti. Ma stiamo parlando di un cattolico che predicava la separazione “assoluta” fra Stato e Chiesa e che relegava gli insegnamenti del Magistero alla sola sfera privata.

di Marco Respinti (22/11/2013)

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Il 22 novembre di 50 anni fa moriva, a 46 anni, il presidente degli Stati Uniti John Fitzgerald Kennedy (1917-1963), vittima, a Dallas, in Texas, di un attentato ancora avvolto nel mistero. La sua giovane età, la sua fine scioccante e l’aura quasi mistica che ne aveva accompagnato l’ascesa alla presidenza ne hanno da subito fatto una sorta di divinità laica: un novello re Artù – come si continua ancora a ripetere – che, dalla Camelot eretta sulle rive de Potomac (la Casa Bianca), inaugurava un’era di pace e di prosperità per le nazioni, continuando tutt’ora a ispirarle.

Criticare uno come Kennedy equivale dunque ad attraversare un campo minato. Ma l’inibizione più grande resta quella riguardante il mito intoccabile del “primo presidente cattolico degli Stati Uniti”, di cui resta comunque innocente il beato Giovanni XXIII (1881-1963), sempre sconsideratamente raffigurato a fianco del presidente americano nell’Olimpo trasognato e irenista di quei “formidabili” anni 1960 che invece (come ha acutamente osservato l’opinionista cattolico George Weigel scatenarono una guerra senza precedenti alla morale e al costume con la diffusione della contraccezione prêt-à-porter, della contestazione alla famiglia “borghese”, della “Nuova Sinistra” nelle università e della grande spinta culturale che nel decennio successivo otterrà la legalizzazione dell’aborto.

La chiave di volta del cattolicesimo kennedyano rimane il discorso programmatico tenuto il 12 settembre 1960 alla Greater Houston Ministerial Association, famoso e controverso. Famoso perché in quell’occasione Kennedy, che oramai era il candidato presidenziale del Partito Democratico alle imminenti elezioni dell’8 novembre, cercò di rassicurare tutti, ma in specie i protestanti sospettosi, del fatto che anche un cattolico (era la prima volta) avrebbe potuto governare da buon presidente imparziale degli Stati Uniti. Controverso perché, mentre da un lato sembrò onorare i princìpi costituzionali su cui si regge il Paese, e in specifico il diritto di ogni cittadino alla libertà religiosa, Kennedy auspicò invece una clamorosa separazione assoluta fra Stato e Chiesa che anzitutto non esiste nella Costituzione federale americana e che soprattutto suona identica all’idea, tanto cara ai laicisti sino a oggi, di “proteggere” lo Stato dall’ingerenza delle Chiese quando invece i Padri fondatori, con il famoso Primo Emendamento alla Costituzione (lo stesso che tutela la libertà religiosa), vollero esattamente il contrario: difendere le Chiese dallo Stato. Laicismo, insomma, piuttosto che sana laicità.

Di tutto quel celebre discorso, costruito per paradossi e iperboli, più colmo di non detti che di detti, il punto cruciale è l’unica frase assertiva: «Sulle questioni d’interesse pubblico, io non parlo a nome della mia Chiesa – e la mia Chiesa non parla a nome mio». Vale a dire che per un cattolico kennedyano ciò che la Chiesa dice importa solo nella sfera privata. Non volendo evidentemente entrare nella sfera privata dell’uomo Kennedy, resta il fatto che pubblicamente la mentalità del presidente Kennedy costituisce il contrario esatto di un sano antidoto all’ingerenza indebita della Chiesa Cattolica, o altra, nella politica di un Paese e alla prevaricazione della giusta autonomia dei laici: è l’impedimento alla libertà della Chiesa di svolgere la propria missione evangelizzatrice nel mondo, anche politico. Il cattolicesimo kennedyano implica cioè una Chiesa relegata in sacrestia: irrilevante e ininfluente sulle grandi questioni pubbliche; impedita di farsi ascoltare dai cattolici impegnati in politica; impossibilitata a proporre a tutti quel suo giudizio con cui poi ovviamente si deve confrontare la libertà responsabile di ogni uomo. E, per converso, al cattolico impegnato in politica il kennedysmo pure prescrive come un dovere civile e democratico la pratica del cristianesimo più anonimo.

La breve presidenza di Kennedy è stata la messa in pratica di quell’impegnativo manifesto. Nel cataclisma degli anni 1960 – il “Sessantotto americano” –, per Kennedy l’aborto rimaneva quindi solo una scelta personale, le grandi questioni etiche legate ai “princìpi non negoziabili” sbiadivano sullo sfondo e la cultura anche politica che deriva da una fede davvero vissuta scivolava lieve sulla superficie della vita pubblica del Paese. Del resto, la voglia di Kennedy di sceverare radicalmente lo Stato e la Chiesa l’una dall’altro aveva allarmato anche più di un protestante, pure fra quelli che, temendo seriamente l’avvento di un presidente cattolico, avrebbero in teoria dovuto sentirsi invece confortati dalle sue parole.

Il giornalista Thomas Maier ha pubblicato un libro, The Kennedys: America’s Emerald Kings: A Five-Generation History of the Ultimate Irish-Catholic Family (n. ed., Basic Books, New York 2004), per affermare e documentare che sul piano personale il presidente tragicamente assassinato mezzo secolo fa era un cattolico fedele e devoto, non mancava mai a una Messa e rispettava le tradizioni; ma è più una conferma del suo anonimo cristianesimo pubblico che una smentita. Il maggior biografo nonché consigliere del presidente, Arthur M. Schlesinger Jr., ha ricordato che JFK detestava, percependola come intrinsecamente anticattolica, l’etichetta di liberal. Evidentemente si accontentava di essere un cattolico “adulto”.

© LA NUOVA BUSSOLA QUOTIDIANA

Cattolici «autocertificati»?

di Don Gabriele Mangiarotti (19/07/2013)

C’è una domanda che in questi tempi frulla nella mente, e che recenti fatti sollecitano. «Se interrogassimo un fedele qualunque, saprebbe indicarci con chiarezza e semplicità che cosa significa propriamente essere cattolico?»

Certo, se l’avessi chiesto a mio padre me lo avrebbe saputo spiegare. Anche mia mamma, che pure non era così ferrata. Ma oggi? Forse dei semplici. Forse persone che hanno ritrovato la fede, magari per l’incontro con qualche movimento, o per qualche pellegrinaggio a Medjugorie. Certo è estremamente difficile trovare delle chiare esposizioni sui giornali, presso tanti «cattolici adulti», a volte anche ascoltando certi preti o visitando certi siti internet.

Pensavo a queste cose leggendo l’intervista a Matteo Renzi su Famiglia Cristiana (in internet, non la compro e non la distribuisco in parrocchia, per ragioni che ho già esposto). 

Ecco alcune «chicche» del suo definirsi cattolico.

Da cattolico impegnato in politica non mi vergogno della mia appartenenza religiosa. Al contempo, non rispondo al mio vescovo o alla gerarchia religiosa ma ai cittadini che mi hanno eletto… Quando dico che una certa politica all’interno delle gerarchie non ha fatto il bene della politica italiana mi riferisco all’atteggiamento avuto da una parte della Conferenza episcopale italiana che ha ridotto tutto il dibattito all’interno del mondo politico cattolico alle sole questioni etiche… Non credo che il politico cattolico, in quanto cattolico, debba dire “sì, sì” e “no, no” ma su questi temi così complessi occorre fare lo sforzo del dialogo. C’è il rischio che i cristiani si “specializzino” in ciò che c’è all’inizio e ciò che c’è alla fine della vita e trascurino quello che c’è in mezzo, cioè la vita… Ben vengano le discussioni dei politici cattolici sui temi etici ma non richiudiamo i politici cattolici soltanto nella riserva indiana dei temi etici altrimenti finiamo come i moralisti senza morale…

E poi ho ripensato ad un incontro che ho fatto con più di duecento ragazzi in vacanza con la comunità cristiana. Era venuta a trovarci la mamma di Lorenzo, un ragazzo diciottenne ucciso da un compagno per una banale lite. Piangeva, raccontando, ma con chiarezza e fermezza diceva che per lei era stato naturale perdonare quell’assassino. «Ma Gesù sulla croce non ha dato il perdono a chi lo crocifiggeva? E poi non ho mai avuto bisogno di perdonarlo, perché non l’ho mai odiato». Era andata a Lourdes con sua figlia, tempo prima. Ascoltava Radio Mater, una emittente cattolica della Brianza. Andava spesso in parrocchia. Per lei, Carolina Porcaro, essere cattolico non è una ideologia di contrabbando. Non è una abitudine stanca e staccata dalla vita. Non sono idee. È un popolo a cui appartenere. È un parroco da seguire. È il Papa, vicario di Cristo in terra. Ma soprattutto sono i sacramenti della confessione e della eucaristia da vivere fedelmente. E questo ha cambiato la sua vita. E ha reso il suo racconto – drammatico – una proposta per quei duecentoventi ragazzi che l’hanno ascoltata in silenzio, attenti alle risposte che dava nella semplicità e concretezza del suo parlare e ricordare.

Papa Francesco, nella Lumen fidei, ci ha ricordato che avere fede significa avere lo stesso sguardo di Gesù sulla realtà, sulla vita, sulle persone, sulle circostanze. Se posso ritrovare questo sguardo in Carolina, la mamma di Lorenzo, non riesco proprio a ritrovarlo nelle parole della intervista di Renzi.

N.B.: ho appreso anche le disgustose notizie a proposito delle losche manovre all’interno del Vaticano [IOR e lobby gay]. E sono fiero di un Papa che ci fa continuamente capire che persone che usano della Chiesa per i loro scopi non sono degne del nome cristiano. Non si trovano a casa loro nella Chiesa, finché non imparano a chiedere perdono e cambiano vita. Chissà che questo scandalo abbia a finire, e che risuonino tra noi le voci di chi testimonia Cristo nella quotidianità delle scelte!

Dove sono finiti i cattolici? Sciolti nella marmellata.

di Lorenzo Bertocchi

Per la prima volta nella storia della Repubblica abbiamo un Presidente al secondo mandato. Qualcuno ha scritto che si tratta del “comunista che salvò l’Italia”, qualcun’altro lo avrebbe voluto nonno a tempo pieno, ma i grandi elettori non hanno saputo far altro che rieleggere Giorgio Napolitano.

Da questa vicenda emerge la disfatta del Pd, un partito attraversato dalle contrapposizioni di varie conventicole, dagli ex-margherita, fino al rottamatore toscano, passando per Massimo D’Alema e company. La base del partito però ha mostrato di essere assolutamente di sinistra, anzi con qualche tentazione grillina, mentre la dirigenza sembra ancora intenta nella realizzazione della “fusione a freddo” tra un certo cattolicesimo e gli ex-comunisti.

La bocciatura di Prodi al Quirinale è stata il colpo finale, mostrando che la “fusione” non è stata per niente metabolizzata: basta fare un giro nelle feste dell’Unità, o nelle amministrazioni locali, lì dove uomini dell’una e dell’altra anima convivono, per rendersi conto che spesso lo fanno a denti stretti, quando non sgambettandosi allegramente.

Devo riconoscere che provo maggior simpatia per gli ex-comunisti che, dopo la caduta del muro, dovevano pur trovare una strada per sopravvivere, mentre la scelta degli ex-democristiani del Pd mi sembra a fine corsa. Dopo la bufera di questi giorni vedremo se il Pd riuscirà ad evitare spaccature, in un certo senso però sarebbe un operazione di chiarezza, soprattutto per ridefinire lo scacchiere dei cattolici in politica. Chissà che non possa finire lo strano balletto sui cosiddetti valori non negoziabili (vita, famiglia, educazione) che sembrano non interessare nessuno. Ad onor del vero anche a destra.

Eppure in Francia, sulla questione del matrimonio omosessuale, qualcuno comincia a parlare di un ’68 a rovescio, vista la ingente e incessante mobilitazione di piazza a difesa della famiglia naturale. I parlamenti europei sembrano sordi: quasi tutti di stampo radical-chic, dicono di pensare al lavoro e ai nuovi poveri, ma intanto mettono ai primi posti dell’agenda politica le questioni riguardanti il matrimonio e l’adozione per persone dello stesso sesso e l’eutanasia. Va a finire che anche su un eventuale ’68 a rovescio arriveremo in ritardo, pochi riescono ad ammettere il nesso tra crisi antropologica e crisi socio-economica. In particolare nel cattolicesimo democratico, laddove i valori non negoziabili si preferisce relegarli alla sfera privata.

Quest’anno ricorrono i 100 anni dalla nascita di don Dossetti, nella sua storia si possono trovare le tracce per capire questa situazione. L’idea di una Chiesa intimistica, silenziosa, lontana da ogni dimensione sociale e politica, è l’unica Chiesa che, secondo Dossetti, può abbracciare l’ineluttabile avanzata della post-cristianità. In questa prospettiva l’adeguamento della Chiesa alla realtà post-cristiana si sostanzia nell’abbraccio politico-culturale con il mondo comunista, così da una parte il comunismo avrebbe aiutato la dissoluzione della Chiesa istituzionale, mentre in politica avrebbe rafforzato un senso forte delle istituzioni, basato sulla stella polare della Costituzione.

A ben guardare questa rappresentazione del dossettismo sembra essersi realizzata proprio nel Pd, ma la Chiesa istituzionale è di là da morire e l’abbraccio con il mondo post-comunista si mostra politicamente sempre più debole.

Siamo sul viale del tramonto di un’utopia? Nella marmellata del centro-sinistra si perde il sapore cattolico. Purtroppo va detto che i cattolici sono sempre più irrilevanti anche a destra. Verrebbe da dire: dove sono finiti i cattolici?

Rosy Bindi ha scritto che per essere fermento i cattolici “devono accettare la contaminazione”, peccato che a furia di contaminarsi non si capisca più dove sta la differenza.

(La Voce di Romagna, 24/04/2013)

Moro “beato”? Quando la beatificazione diventa una patacca mondana come un’altra

di Antonio Margheriti Mastino (07/10/2012)

L’ultima stravaganza di questo clero senza discernimento – ancora psicologicamente vedovo della Dc e che a suo tempo scambiò la Dc per la Chiesa onde la secolarizzazione che ne è derivata, quando non il delirio – è il patetico se non comico avvio della causa di “beatificazione” di Aldo Moro. La scusa? “Sarebbe un martire della cristianità”… almeno quanto io sono un campione delle olimpiadi.

Moro, dunque, secondo il solito avanzo di sacrestia che vorrebbe beatificarlo, sarebbe un “martire del cristianesimo” (manco cattolicesimo, badate: pure i preti vaticani “postulatori” si vergognano del termine) perché vittima dei nientemeno “veterocomunisti, il cui disegno era radicalmente anticristiano“.

Attenzione a questa trovata esilarante: “vetero…”, non comunisti e basta, ma “vetero”. Una invenzione politologica di fresco forgiata non si sa se al Vicariato di Roma o nell’ufficio stampa di Casini, che ultimamente sono la stessa cosa. “Vetero”: a qualche cardinale vicario evidentemente preme non denigrare i “comunisti”, quelli veri, i soliti, quelli che oggi sono “ex” ma che anche allora, pur comunisti erano, stando alla teoria di Berlinguer, non “vetero” ma “progressisti”, non comunisti come i russi ma millantanti la loro “diversità”.

Soprattutto chiamarli col loro nome e cognome (cioè: comunisti come tutti gli altri e finanziati dall’Urss), faceva imbarazzo e gettava nel ridicolo questa già screditatissima prima di nascere “causa di beatificazione” di colui che proprio quei comunisti aveva portato al governo, e coi quali intendeva costruire “l’alternanza”. Quindi meglio dare del comunista ad altri, accusare dei comunisti “altri”, inventati di sana pianta per l’occasione: i “veterocomunisti”. Dei marziani, praticamente. Per questi ideologi in clergy, dei poveracci in fondo, se la realtà smentisce il loro programma ideologico da dilettanti allo sbaraglio, si modifica la realtà. Si falsifica, a dirla tutta. E il vicariato di Roma ha premeditato, controfirmato, diffuso questa menzogna, che è prima di tutto una farsa da sacrestia.

A parte il fatto che le BR del cattolicesimo o cristianesimo che fosse, se ne sbattevano altamente e anzi lo ritenevano (e non tutto a torto) un fenomeno sorpassato, tant’è che non hanno mai strappato un solo capello a un prete, né hanno minacciato mai un fedele (prova ne sia che si sono serviti di un prete come tramite per le lettere di Moro, e che a Moro non hanno negato il conforto del prete e i sacramenti). A parte il fatto che la Dc non era né il cristianesimo né il cattolicesimo né la Chiesa né Cristo. A parte questo, le BR hanno colpito Moro proprio in quanto artefice dell’alleanza di governo col Pci, e lo hanno colpito oltre che per colpire i comunisti stessi loro compagni, principalmente per destabilizzare e attaccare non un presunto “cristianesimo” bensì quanto di più lontano da questo: lo Stato Borghese! Del quale Moro era artefice. E l’ideologia liberal-borghese è anticristiana quanto il “veterocomunismo” immaginario. Ossia quanto il comunismo reale.

Come dice un amico: Moro lavorava per la “democrazia compiuta”: cioè uno Stato se possibile ancor più laico nel quale anche la Chiesa comunista riducesse la sua “fede” così come avevano fatto i cattolici rappresentati dalla Dc.

Detto questo, vanno accennate alcune amare considerazioni, che poi sono solo delle constatazioni.

A quanto pare, questa vecchia e stantia idea partigiana della “santità” di Moro è partita in prima istanza da suoi ras locali in Puglia, dei cattocomunistoni da paura: da quand’ero bambino che sento blaterarne. Ora, che la Puglia segua un magistero non solo parallelo ma immaginario nel classificare i presunti “santi” (e tutto il resto, dottrina compresa) non è questione nuova, ammorbata com’è da olezzo di arcobalenismo sinistrorso, iniettato in questa terra da Tonino Bello prima e dai suoi orfanelli poi, a cominciare da Vendola.

Dico solo 4 cose:

1 Non c’è da dare più tanto retta (o almeno: non fidarsene ciecamente) a questo istituto inflazionatissimo che è diventato una fabbrica di diplomi tarocchi e di patacche mondane: il mercato dei “servi di Dio” e dei “beati”. Causa i processi approssimativi, basati più che sui documenti sulle ondate emotive e sui titoli dei giornali; e purtroppo anche sulle disponibilità economiche degli “sponsor” (a questo siamo arrivati) del candidato agli onori degli altari. E a questo proposito sta risultando nefasta la decisione di Benedetto XVI di tornare all’antica tradizione che voleva che tutte le fasi del processo di beatificazione fossero fatte a livello diocesano, dove le pressione degli interessi locali, politici ed economici, più che la reale sussistenza di criteri canonici (e l’ignoranza di questi, spesso), spingono in un senso o nell’altro l’esito del processo. Senza contare che c’è proprio un fraintendimento su cosa siano e a cosa servano le “beatificazioni” e le stesse “canonizzazione”: le quali dovrebbero avere come primo criterio la “professione della dottrina cattolica”, non la “santità personale”… Ma su quest’ultimo punto ne riparleremo un giorno.

2 Se devono aprire il processo di beatificazione di Moro, allora si aprano anche gli archivi dei servizi segreti, con tutti i pedinamenti di Moro. Credo ci sia materiale bastante per fa ricoprire di polvere (per usare un eufemismo) per secoli i faldoni ecclesiastici che lo riguardano.

3 C’è una confusione pericolosissima fra i cosiddetti “eroi” civili, veri o presunti, e gli eroi della fede, fra le vittime del crimine e i martiri della fede. C’è un olezzo ripugnante di tentativo di amalgamare e confondere la religione cattolica con la religione civile. Non è un caso (e ripeto: è solo un caso italiano), che ogni giorno sentiamo gruppi e lobby che parlando di “beatificare” Falcone, Borsellino, i “martiri di Nassirya”, gli agenti della scorta morti di questo e quello. Tutte persone rispettabilissime, ma che non c’entrano niente con la fede, tanto più che non sappiamo neppure se ne avessero una e come di preciso la professassero. Di questo passo non tarderà che si chieda la beatificazione di Scalfari non appena sarà morto.

4 Infine, siamo realisti. Non sarà mai beato Moro, se la verità dei fatti interessa ancora a qualcuno. Anche alla Gazzetta del Mezzogiorno, che non si è mai rassegnata – come diceva Bocca – a essere giornale che desse notizie, essendo più propensa alla “promozione del territorio”, che poi vorrebbe dire leccare i piedi a tutti i potenti di ieri, di oggi, di sempre, al governo e all’opposizione. Per la Gazzetta, queste “beatificazioni” a scopo civile, sono una “promozione del territoriale” a prescindere, per il clero e i politici indigeni “incremento del turismo religioso”: ossia soldi per gli uni e gli altri. Per questo da sponsorizzare a occhi chiusi, magari con sottoscrizioni: si tratti di Moro, Tonino Bello, domani Nichi Vendola, o di un vero santo come Padre Pio, poco importa. Purché se magni!

Dossetti a 100 dalla nascita, visto da un grande cardinale e da un sedicente monaco

di Satiricus (14/02/2013)

Avrei tanto voluto scrivere un bell’articolo su Dossetti, ma non ne sono all’altezza. Allora ho fatto qualcosa di meglio. Sono andato a sbirciare tra due teste di ariete quali fossero i loro pareri sull’amico comune, e ho fatto scoperte interessanti. Le penne duellanti sono, udite udite: mons. Giacomo Biffi (d’ora in poi Monsignore) e il dott. Enzo Bianchi (d’ora in poi Fratelenzo). Il testo di Monsignore è la riedizione di un lavoro precedente, quello di Fratelenzo è un articolo apparso domenica scorsa, la malignità di Satiricus è che Fratelenzo volesse colpire proprio Monsignore. Ma forse ho torto, forse voleva colpire anche tanti altri.

Ora permettetemi di fare con voi un gioco, lascio a voi la lettura ragionata dei due testi, e mi limito a elencarvi i punti in comune. Nell’ordine, siccome sono cavaliere, darò prima la parola a Fratelenzo e poi a Monsignore. Questo rende l’articolo un po’ lungo, ma vi autorizza pure a saltare subito al finale…

Questioni di linguaggio

Fratelenzo imita Fazio e fa lo scandalizzato: Purtroppo in questo dibattito, cosa inconsueta, proprio nell’ambito ecclesiale si registra un pesante silenzio nel quale si levano alcuni interventi accaniti, tesi a delegittimare la sua figura. Questo provoca in molti cristiani una grande sofferenza, fa emergere quanta ingratitudine possa annidarsi in spazi ecclesiali e quanta insensatezza possa ispirare alcuni ecclesiastici.

Ma Monsignore non si scompone, perché al j’accuse è stato svezzato da tempo: C’è anche da dire che papa Montini, per il suo naturale temperamento e per la sua abitudine al rispetto dell’interlocutore e alla gentilezza del tratto, non doveva avere una grande simpatia per l’aggressività del linguaggio che talvolta manifestavano gli appartenenti all’ambiente dossettiano. Sono indicativi, a questo riguardo, i giudizi che si leggono nel diario della sua attività conciliare (!) di Angelina Nicora Alberigo al giorno 19 novembre 1963: “Uomini insignificanti come Carli, vescovo di Segni”, “uomini inintelligenti e teologicamente vuoti come Siri”, “uomini conservatori e reazionari come Ottaviani, Ruffini e alcuni nord-americani”. Così erano impietosamente squalificati dei legittimi successori degli Apostoli.

Il Teologo

Fratelenzo lamenta: Si dice che Dossetti non era un teologo, che nel suo pensiero c’erano lacune perché la sua formazione era quella di un giurista.

Ed effettivamente Monsignore interrogava: Giuseppe Dossetti è stato anche un vero teologo e un affidabile maestro nella “sacra doctrina”? La questione non è semplice.

Autodafé?

Fratelenzo incalza: Si dice che Dossetti non era un teologo, che nel suo pensiero c’erano lacune perché la sua formazione era quella di un giurista e il suo curriculum era privo di studi di teologia in una facoltà cattolica, senza ricordare che tratti analoghi sono riscontrabili anche in grandi Padri della Chiesa, a cominciare da sant’Ambrogio.

Monsignore scalza: Qualcuno domandò una volta a san Tommaso d’Aquino quale fosse il modo migliore di addentrarsi nella sacra doctrina e quindi di diventare un buon teologo. Egli rispose: andare alla scuola di un eccellente teologo.

Dagli ebrei la salvezza

Fratelenzo, scudo umano e uomo della memoria: Si dice che avesse di Israele quale popolo di Dio e della sua salvezza una lettura non conforme alla dottrina cattolica

Monsignore curiosa nelle sue “Memorie e digressioni di un italiano cardinale”: Purtroppo, qualcosa che non andava ho effettivamente trovato; ed era l’idea, presentata con favore, che, come Gesù è il Salvatore dei cristiani, la Torah (la Legge mosaica) è, anche attualmente, la strada alla salvezza per gli ebrei.

Semel cum Petro!

Fratelenzo cerca di difendere l’inclinazione giudaizzante del Nostro: Giovanni Paolo II con audacia era giunto ad affermare [cose che, se sottoposte a raffinate ermeneutiche, sembrerebbero scusare alcune posizioni dubbie di Dossetti, nella fattispecie quelle de judaeis].

Monsignore, che ha costatato con mano l’indifendibile, ricorda altri pontificati: “Quello non è il posto di don Dossetti”, è il commento del papa. [Trattasi di Paolo VI, non certo uno stinco di reazionario. E senza bisogno di ulteriori ermeneutiche]

Temperamento e temperanza

Per Fratelenzo: Vescovi e cardinali, semplici e poveri cristiani, personaggi importanti della vita sociale, giovani, non credenti, andavano a cercare una sua parola e lui sovente si sottraeva, quasi nascondendosi.

Sed contra: Dossetti non era solito rinunciare a nessuno dei suoi convincimenti. Ma qui alla fine cedette davanti alla mia avvertenza

Ritorno al futuro

Fratelenzo: Quando nelle lunghe veglie a Monteveglio, in Terrasanta, a Montesole commentava la parola di Dio contenuta nelle Sacre Scritture, sembrava di ascoltare un Padre della Chiesa.

Monsignore: Questo “incidente” [l’ostinazione sul de judaeis] mi ha fatto molto riflettere e l’ho giudicato subito di un’estrema gravità, pur se non ne ho parlato allora con nessuno. Ogni alterazione della cristologia compromette fatalmente tutta la prospettiva nella “sacra doctrina”.

La più bella del mondo

Vi è anche chi critica il dossettismo come via politica… [Fratelenzo il mansueto lo accetta] purché non si finisca col mettere in contraddizione tra loro la fede cattolica di Dossetti e il suo impegno politico precedente la scelta presbiterale e monastica.

Monsignore ha la fissa del pastore e nota: Qualche incresciosa confusione metodologica. Egli proponeva le sue intuizioni politiche con la stessa intransigenza del teologo.[nessun “purché”]

Dopo 50 anni

Fratelenzo celebra: la sua preziosissima opera al Concilio, dove aveva fornito un apporto decisivo di studio, di consigli e di elaborazione di proposte, coadiuvando in particolare il suo vescovo.

Monsignore sgonfia: don Dossetti si è lasciato andare a qualche considerazione che deve renderci avvertiti. Egli legge sorprendentemente il suo apporto al Vaticano II alla luce della sua partecipazione ai lavori della Costituente: «Nel momento decisivo proprio la mia esperienza assembleare ha capovolto le sorti del Concilio stesso».

Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico

Il buon samaritano? Mentre don Giuseppe risiedeva a Gerico, sostai cento giorni a Gerusalemme e potei incontrarlo più volte, e anche p. Carlo Maria Martini, allora all’Istituto biblico di Gerusalemme, veniva ad ascoltare le sue omelie.

Un brigante [per solidarietà col CLN]? Era ancora un “politico” nel 1974, quando noi sacerdoti milanesi ordinati nel 1950 siamo andati a trovarlo a Gerico. Ormai da diciotto anni egli aveva abbracciato la vita religiosa e da un anno si era dato alla meditazione e alla preghiera in Terra Santa. Eppure ci ha intrattenuti soltanto sulla “catastrofica” politica italiana.

Princeps monachorum

Come il primo dei monaci?! Come per Antonio, il grande Padre del deserto, di lui si potrebbe dire: «Bastava vederlo».

Sì, magari! Nei suoi ultimi giorni non esitò a uscire dal suo ritiro e a rompere il silenzio monastico per salvare la “sua” Costituzione.

È tutto. Prima di congedarvi, vi do la mia lettura definitiva del testo. Io di Dossetti probabilmente non ci ho capito ancora nulla, ma mi è chiarissimo che Dossetti è uno dei grandi miti giovanili di Fratelenzo. Voglio dire, tutti hanno il loro idolo da ragazzini. Chi un calciatore, chi un musicista, per me è stato Alvaro Vitali. Fratelenzo ha Dossetti. E che? Vogliamo rimproverarlo per questo? Ci mancherebbe, avessimo tutti degli idoli di tal calibro. Fratelenzo da Dossetti ha preso quasi tutto: una formazione non ecclesiale (questo giurista, quello economista); la formazione teologica da autodidatta (pur vantando maestri cartacei del calibro di Kung); la vita dimessa e nascosta; l’umile servizio di consigliere a vescovi e papi (questo il Concilio e quello i Sinodi); l’amore per la Bibbia, l’ebraismo e Martini; la tempra da Padre della Chiesa; l’attivismo politico anche a costo di violare la cella; la grafomania. Fratelenzo ha migliorato appena appena il linguaggio. Ha un po’ calcato col look. È davvero tutto.

Quindi, scusate, ma io non me la sento di dire altro su Dossetti, né di prendere posizione pro o contro. Fosse solo per non offendere ulteriormente Fratelenzo e la sua sensibilità sabauda. Anche perché temo si darebbe fuoco per protesta, visto che è pure favorevole alla cosa.

E non credete a Fratelenzo quando scrive: Da parte mia, nei suoi confronti mi sento di osare una parola forte, con la libertà di chi non è stato suo discepolo ma, anzi, ha avuto sguardi diversi sul monachesimo nel mondo di oggi e sulle altre Chiese cristiane: era veramente un santo, un uomo di Dio e di nessun altro!

Fratelenzo infatti suo discepolo lo è stato, più di molti altri!

A conclusione basti il monito di Dossetti stesso: Il tema… è quanto mai vivo, attuale, importante. Un punto da chiarire inizialmente è questo: non dobbiamo riguardare a questo tema con sguardo unilaterale.

La “teologia” di Dossetti

Il 13 febbraio 2013 si compie il primo centenario dalla nascita di Giuseppe Dossetti (1913-1996), politico e giurista bolognese che dopo aver militato nella Resistenza e aver partecipato attivamente alla Costituente fu parlamentare democristiano, compagno di partito e avversario di De Gasperi. Monaco e sacerdote, fondò la Piccola famiglia dell’Annunziata a Monteveglio e fu una presenza importante del Concilio Vaticano II. Docente universitario e storico, fondò anche, a Bologna, l’Istituto per le scienze religiose. Nella ricorrenza, mons. Giacomo Biffi, Arcivescovo emerito di Bologna, ne ricorda la “straordinaria” ma anche “complessa personalità” e ripropone una raccolta di tutte le pagine che gli ha dedicato nelle sue “Memorie e digressioni di un italiano cardinale” (Cantagalli, 2010). Il nuovo libro-estratto s’intitola “Don Giuseppe Dossetti – Nell’occasione di un centenario” ed esce anch’esso per i tipi di Cantagalli. In accordo con l’editore ne pubblichiamo qui integralmente il IX capitolo.

di Giacomo cardinal Biffi (La Bussola Quotidiana, 10/02/2013)

La “teologia” di Dossetti

Giuseppe Dosetti è stato anche un vero teologo e un affidabile maestro nella “sacra doctrina”? La questione non è semplice, data la complessa personalità del protagonista, e richiede un discorso articolato. Mi limiterò, richiamando qualche notizia utile, a formulare alcune osservazioni che riguarderanno prima di tutto l’ecclesiologia, poi la cristologia e infine la metodologia propria e inderogabile della “sacra doctrina”.

Un’ecclesiologia politica

Il 19 novembre 1984, in una lunga conversazione con Leopoldo Elia e Pietro Scoppola5, don Dossetti si è lasciato andare a qualche considerazione che deve renderci avvertiti. Egli legge sorprendentemente il suo apporto al Vaticano II alla luce della sua partecipazione ai lavori della Costituente: «Nel momento decisivo proprio la mia esperienza assembleare ha capovolto le sorti del Concilio stesso». Parrebbe da questa frase che egli non percepisse l’assoluta eterogeneità dei due eventi. Ma come è possibile – a chi abbia qualche consuetudine di contemplazione della realtà trascendente della Chiesa – confrontare e porre in relazione un’accolta disparata di uomini lasciati alle loro forze, ai loro pensieri terreni, ai loro problemi economici e sociali, alla loro ricerca del difficile equilibrio degli interessi, con la convocazione di tutti i successori degli apostoli, assistita dallo Spirito Santo da essi quotidianamente invocato? Senza dire, che un presbitero ammesso, fosse pur legittimamente, alle loro discussioni non può ritenere di avere la funzione di “manovratore strategico” (tanto meno quella di “capovolgere”). La sua presenza è per aiutare i vescovi, se gli riesce, a chiarirsi e ad enucleare al meglio quella verità rivelata che essi (soli maestri, in senso rigoroso e pertinente, del popolo di Dio) già possiedono, sia pure implicitamente. Di più, nella stessa circostanza Dossetti addirittura si compiace di aver «portato al Concilio – anche se non fu trionfante – una certa ecclesiologia che era riflesso anche dell’esperienza politica fatta». Ma che tipo di “ecclesiologia” poteva scaturire da una tale ispirazione e da queste premesse “mondane”?

“Anche se non fu trionfante”

Questo inciso, sommesso e un po’ reticente, evoca con discrezione la fine dell’attività conciliare di don Giuseppe; e merita che lo si chiarifichi nella sua rilevanza. Egli era stato introdotto legittimamente nell’assise vaticana con la qualifica di esperto personale dell’arcivescovo di Bologna. Il 12 settembre 1963 il nuovo papa, Paolo VI, comunica la sua decisione di designare quattro “moderatori”, nelle persone dei cardinali Lercaro, Suenens, Dopfner e Agagianian, con il compito di presiedere a turno l’assemblea conciliare per conto del papa6. Era, come si vede, un incarico che ciascuno dei designati avrebbe dovuto esercitare soltanto singolarmente. Lercaro persuade invece i suoi colleghi ad accettare don Giuseppe Dossetti come loro comune segretario; e con questa nomina si configura in pratica una specie di “Consiglio dei Moderatori”, che finisce con l’avere indebitamente una funzione molto diversa da quella prevista e intesa, con un’autorità ben più ampia della sua indole originaria. È il momento della massima influenza di Dossetti; ma non poteva durare. Si trattava, in fondo, di un arbitrario colpo di mano che alterava la struttura legittimamente stabilita. Il Concilio aveva già una Segreteria Generale, presieduta dal vescovo Pericle Felici, il quale non tarda a lamentarsi della situazione irregolare che si era creata. Di più, l’attivismo del segretario sopraggiunto e le tesi innovative da lui propugnate cominciano a suscitare qualche naturale inquietudine. “Quello non è il posto di don Dossetti”, è il commento del papa. “Alla fine don Dossetti – afferma il cardinale Suenens – a causa dell’atmosfera ostile e per tatto verso il papa, si ritirò spontaneamente evitandoci una situazione imbarazzante”7. Su quell’incidente dell’attività conciliare mette conto di conoscere il giudizio del Segretario Generale, Pericle Felici, che egli ha espresso nella relazione annuale consegnata a Paolo VI il 12 dicembre 1963: 

“Gli Em.mi Cardinali Moderatori all’inizio dei lavori del secondo periodo hanno creduto di poter agire da soli, indipendentemente dalla Segreteria Generale, servendosi dell’opera del Rev. Don Giuseppe Dossetti. A seguito dell’intervento del Santo Padre8, i rapporti con la Segreteria Generale sono migliorati. “È mancato però per tutto il secondo periodo una intesa tra gli Em.mi Moderatori ed il Consiglio di Presidenza ed a volte i primi hanno preso iniziative assai impegnative e di grande importanza per il Concilio senza avvertire tempestivamente i Membri della Presidenza, come avvenne per i famosi quattro punti sulla ‘collegialità’, che furono annunziati all’Assemblea e proposti alla votazione su affrettata e unilaterale iniziativa degli Em.mi Moderatori… È stato inoltre rilevato come sia poco consono con la propria funzione che i Moderatori esprimano sulle questioni più dibattute idee personali: averlo fatto ha posto i Moderatori in posizione di dirigenti non imparziali, diminuendo nei Padri la fiducia nella loro azione. Sembra perciò opportuno che in futuro si astengano dal partecipare ai dibattiti”9.

Le apprensioni di Paolo VI però non erano soltanto di natura procedurale e organizzativa. Egli sentiva acutamente la sua responsabilità di salvaguardare in pienezza, pur nella cordiale accettazione della collegialità episcopale, la verità di fede del primato di Pietro e del suo totale, incondizionato e libero esercizio. Questa è la ragione che lo spinge a proporre la famosa Nota esplicativa previa, nella quale offriva alcuni criteri interpretativi inderogabili di lettura e comprensione del capitolo III della Lumen gentium (che pur veniva accolto integralmente). Così tranquillizzò tutti i padri sinodali e ottenne l’approvazione praticamente unanime del documento nella votazione del 21 novembre 1964: 2.151 placet e solo 5 non placet. “Con il suo intervento diretto e risoluto aveva evitato il rischio di possibili future interpretazioni contrarie alla dottrina tradizionale”10; e aveva salvato il Concilio. C’è anche da dire che papa Montini, per il suo naturale temperamento e per la sua abitudine al rispetto dell’interlocutore e alla gentilezza del tratto, non doveva avere una grande simpatia per l’aggressività del linguaggio che talvolta manifestavano gli appartenenti all’ambiente dossettiano. Sono indicativi, a questo riguardo, i giudizi che si leggono nel diario della sua attività conciliare (!) di Angelina Nicora Alberigo11 al giorno 19 novembre 1963: “Uomini insignificanti come Carli, vescovo di Segni”, “uomini inintelligenti e teologicamente vuoti come Siri”, “uomini conservatori e reazionari come Ottaviani, Ruffini e alcuni nord-americani”. Così erano impietosamente squalificati dei legittimi successori degli Apostoli, i quali non avevano altro demerito che quello di non condividere in coscienza le posizioni ideologiche della signora Nicora, che non aveva altra oggettiva autorevolezza che quella di essere moglie del prof. Giuseppe Alberigo, al quale Dossetti era legatissimo.

Una cristologia improponibile 

Alla fine di ottobre del 1991 Dossetti mi ha cortesemente portato da leggere il discorso che gli avevo commissionato per il centenario della nascita di Lercaro (cui già s’è fatto cenno in queste pagine). «Lo esamini, lo modifichi, aggiunga, tolga con libertà», mi ha detto. Ed era certamente sincero: in quel momento parlava l’uomo di Dio e il presbitero fedele. Purtroppo, qualcosa che non andava ho effettivamente trovato; ed era l’idea, presentata con favore, che, come Gesù è il Salvatore dei cristiani, la Torah (la Legge mosaica) è, anche attualmente, la strada alla salvezza per gli ebrei. L’asserzione era mutuata da un autore tedesco contemporaneo, e gli era cara probabilmente perché ne intravedeva l’utilità ai fini del dialogo ebraico-cristiano. Ma, come primo responsabile dell’ortodossia nella mia Chiesa, non avrei mai potuto accettare che si mettesse in dubbio la verità rivelata che Gesù Cristo è l’unico Salvatore di tutti. Per superare la mia opposizione, egli cercò di attenuare la frase in questi termini: «Non sembra che risulti ancora abbastanza fondata la proposta delle due vie di salvezza, cioè Cristo per i gentili e la Torah per Israele». Era, come si vede, un maldestro compromesso ideologico; non era la fede di sempre. «Don Giuseppe, – gli dissi – ma non ha mai letto le pagine di san Paolo e la narrazione degli Atti? Non Le pare che nella prima comunità cristiana il problema fosse addirittura quello contrario? In quei giorni era indubbio e pacifico che Gesù fosse il Redentore degli ebrei; si discuteva caso mai se anche i gentili potessero essere pienamente raggiunti dalla sua azione salvifica». Basterebbe tra l’altro – dicevo tra me – non dimenticare una piccola frase della Lettera ai Romani, là dove dice che il Vangelo di Cristo “è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo prima e poi del Greco” (cfr. Rm 1,16). Dossetti non era solito rinunciare a nessuno dei suoi convincimenti. Ma qui alla fine cedette davanti alla mia avvertenza che, nel caso, l’avrei interrotto e pubblicamente contraddetto; e accondiscese a pronunciare questa sola espressione: «Non pare che sia conforme al pensiero di san Paolo dire che la strada della salvezza per i cristiani è Cristo, e per gli ebrei è la Legge mosaica». Non c’era più niente di errato in questa frase, e non ho mosso obiezioni, anche se ciò che avrei preferito sarebbe stato di non accennare nemmeno a un parere teologicamente tanto aberrante (che, tra l’altro, non aveva nessun nesso con il centenario di Lercaro). Questo “incidente” mi ha fatto molto riflettere e l’ho giudicato subito di un’estrema gravità, pur se non ne ho parlato allora con nessuno. Ogni alterazione della cristologia compromette fatalmente tutta la prospettiva nella “sacra doctrina”: in un uomo di fede e di sincera vita religiosa, come don Giuseppe, era verosimile che l’abbaglio fosse conseguenza di una ambigua e inesatta impostazione metodologica generale.

Due traguardi, una sola tensione 

“C’era in Dossetti il monaco nel politico e il politico nel monaco”12. Questa breve espressione, enunciata da uno che gli è stato per diverso tempo vicino e ha collaborato con lui, coglie con rapida sintesi una personalità singolare e complessa. Chi ha studiato la lunga e multiforme vicenda di questa personalità straordinaria, non può non riconoscere la validità e la pertinenza di tali parole. Dossetti nel suo intimo era già “monaco” quando partecipava attivamente alla Resistenza emiliana. Ed era ancora un “politico” nel 1974, quando noi sacerdoti milanesi ordinati nel 1950 siamo andati a trovarlo a Gerico. Ormai da diciotto anni egli aveva abbracciato la vita religiosa e da un anno si era dato alla meditazione e alla preghiera in Terra Santa. Eppure ci ha intrattenuti soltanto sulla “catastrofica” politica italiana: nelle sue parole abbiamo avvertito il rammarico, ancora vivo in lui, di non essere riuscito a far prevalere la sua linea su quella alternativa di De Gasperi (che era morto da vent’anni). Nei suoi ultimi giorni non esitò a uscire dal suo ritiro e a rompere il silenzio monastico per salvare la “sua” Costituzione, dicendo di seguire in questo l’esempio di san Saba, l’archimandrita del deserto di Giuda che nel VI secolo abbandonò il suo eremo per difendere l’ortodossia calcedonese e combattere il monofisismo (quasi che nei due casi si trattasse di valori omogenei e paragonabili). La coesistenza – se non l’identificazione – dei due traguardi (quello “politico” e quello “teologico”), inseguiti simultaneamente e col medesimo impegno, è all’origine di qualche incresciosa confusione metodologica. Egli proponeva le sue intuizioni politiche con la stessa intransigenza del teologo che deve difendere le verità divine; ed elaborava le sue prospettive teologiche mirando a finalità “politiche” (sia pure di “politica ecclesiastica”). E qui c’è anche il limite intrinseco del suo pensiero e del suo insegnamento. Perché la teologia autentica è essenzialmente contemplazione gratuita e ammirata del disegno concepito dal Padre prima di tutti i secoli per la nostra salvezza e per il nostro vero bene; e solo in quel disegno si trovano e vanno esplorate le luci e gli impulsi che potranno davvero giovare alla Sposa del Signore Gesù, che è pellegrina nella storia.

I “teologi autodidatti”

Dossetti ha avuto uno svantaggio iniziale: è stato teologicamente un autodidatta. Qualcuno domandò una volta a san Tommaso d’Aquino quale fosse il modo migliore di addentrarsi nella sacra doctrina e quindi di diventare un buon teologo. Egli rispose: andare alla scuola di un eccellente teologo, così da esercitarsi nell’arte teologica sotto la guida di un vero maestro; un maestro, soggiunse, come per esempio Alessandro di Hales13. La sentenza a prima vista meraviglia un po’: ci si sarebbe aspettati prima di tutto il suggerimento di un percorso culturale e libresco; di buone letture personali; di esplorazione degli scritti dei padri e degli scrittori sacri; di ricerche esegetiche, filosofiche, storiche. E invece ancora una volta il Dottore Angelico rivela la sua originalità, la sua saggezza, la sua conoscenza dell’indole sia della sacra doctrina sia della psicologia umana. Nella sua concretezza egli vedeva il rischio non ipotetico degli autodidatti: quello di ripiegarsi su se stessi e di ritenere fonte della verità le proprie letture e la propria acutezza; più specificamente il rischio di finire col compiacersi di un sapere incontrollato, e perfino di arrivare a un’ecclesiologia incongrua e a una cristologia lacunosa. È stato appunto il caso di don Giuseppe Dossetti, che nell’apprendimento della “scientia Dei, Christi et Ecclesiae” non ha avuto maestri adeguati. A chi gli avesse chiesto da dove avesse preso le sue idee, le sue prospettive di rinnovamento, le sue proposte di riforma, egli avrebbe ben potuto rispondere (e non facciamo che usare le sue parole): «dalla mia testa e dal cuore»14.

[Tratto da Memorie e digressioni, 2010, pp. 485-492]

NOTE

5 A colloquio con Dossetti e Lazzati – Intervista di Leopoldo Elia e Pietro Scoppola (19 novembre 1984), Il Mulino, Bologna 2003, p. 106.

6 A. Tornielli, Paolo VI – L’audacia di un papa, Mondadori, Milano 2009, p. 358.

7 Ibidem, p. 365.

8 Chiara e sobria allusione all’allontanamento di don Dossetti, presentato all’esterno come “spontanea dimissione”.

9 Acta Synodalia Sacrosancti Concilii Oecumenici Vaticani II – Volumen VI – Acta Secretariae Generalis,

552 s.

10 A. Tornielli, Paolo VI, op. cit., p. 39.

11 Si tratta della moglie del professor Alberigo. Le frasi sono riportate da A. Torniell i, Paolo VI, op.

cit., p. 363.

12 La frase è del prof. Achille Ardigò ed è citata in G. Baget Bozzo – P. P. Saleri, Giuseppe Dossetti – La

Costituzione come ideologia politica, Edizioni Ares, Milano 2009, p. 123.

13 L’episodio è riferito da Giovanni Gerson (1363-1429), ed è citato da I. Biffi in Figure medievali della teologia, Jaca Book, Milano 1992, p. 25 (nota). Incidentalmente notiamo la libertà di spirito del Dottor Angelico che non cita Alberto, il suo grande Maestro di Colonia, ma l’iniziatore della scuola francescana.

14 Si veda A colloquio con Dossetti e Lazzati…, op. cit., p. 27.

Per chi suona Campanini

Lo storico e sociologo dalla rivista gesuita Aggiornamenti Sociali attacca la dottrina dei princìpi non negoziabili, manipolando l’enciclica “Evangelium Vitae” e ignorando il Magistero di Benedetto XVI. Ma la politica non è l’ambito del relativo, vi si giocano anche valori assoluti.

di Stefano Fontana (La Bussola Quotidiana05-02-2013)

Sul numero di gennaio della rivista dei gesuiti Aggiornamenti sociali lo storico e sociologo Giorgio Campanini ribadisce la visione, diciamo così, canonica dei “cattolici democratici” sulla agibilità politica dei princìpi non negoziabili in una democrazia laica. 

Nell’ordine egli propone le seguenti valutazioni: non esiste una dottrina dei principi non negoziabili e nemmeno un preciso elenco; gli unici princìpi non negoziabili della Chiesa cattolica sono i dogmi (che pure, egli dice, sono stati negoziati, soprattutto nei concili dei primi secoli: curiosa questa idea che la mediazione produca perfino i dogmi); il Magistero non è mai intervenuto dogmaticamente sui temi che oggi di solito si fanno rientrare nei princìpi non negoziabili; più che dal Magistero i temi propri dei principi non negoziabili derivavano un tempo dal diritto naturale che oggi è definitivamente in crisi; la politica è per sua natura l’ambito del relativo e della mediazione tra valori e visioni diverse; l’appello ai principi non negoziabili svilisce l’autonomia della politica e dell’impegno dei laici rispetto alla gerarchia; compito dei laici impegnati in politica è quello di cercare di realizzare nella forma più alta possibile e perseguendo il male minore i princìpi non negoziabili impegnandosi nella mediazione.

Molti equivoci presenti nell’articolo di Campanini derivano dalla sua equiparazione tra “valori” e “principi”. Il titolo dell’articolo infatti suona così: “I valori non negoziabili e i dilemmi della politica”. E nel testo le due parole – valori e principi – sono accostate ad indicarne il significato sinonimo. Ma non è così. Il termine valore indica qualcosa di intrinsecamente apprezzabile e che come tale dovrebbe essere perseguito nella società. Il termine principio invece indica un fondamento architettonico e nello stesso tempo un criterio per dare luce. I principi non negoziabili non sono solo (sono anche quello…) un valore, ma gli architravi senza dei quali una società non può dirsi umana, anzi senza dei quali nemmeno esiste come tale e dei principi di sapienza politica che danno luce a tutto l’impegno politico e non solo quello indirizzato a perseguire quei valori direttamente. La difesa della vita o della famiglia tra uomo e donna non sono solo dei valori che il politico cerca di promuovere davanti a leggi specifiche, ma sono delle colonne della convivenza che, se si incrinano, viene meno la convivenza stessa, almeno in quanto umana, e sono dei criteri regolativi per l’attività politica in tutti i campi. 

Non avendo fatto questa distinzione, Campanini non ha considerato la profondità della valenza dei principi non negoziabili e, quindi, il vero fondamento della loro non negoziabilità. Forse non ha nemmeno potuto considerare che dai principi non negoziabili derivano degli assoluti morali negativi. L’accoglienza della vita è anche un valore, naturalmente. Ma il principio non negoziabile relativo alla vita suona come un assoluto morale negativo: non uccidere. Non credo che ci sia un dogma che definisca il ”non uccidere”. Mi sembra però che il Decalogo rientri ugualmente nei princìpi non negoziabili del cattolico. 

Campanini si riferisce a sproposito al paragrafo 73 della Evangelium vitae. Questo, come è noto, dice che il cristiano impegnato in politica può votare una legge che riduca gli effetti negativi per il rispetto della vita di una norma già approvata in precedenza. Campanini trova in questo passo una indicazione a sostegno della mediazione politica. Sono però convinto che si sbagli. Nessun cattolico può votare una legge che non rispetti la vita. Si può, semmai, a legge approvata (dagli altri, perché non si può aiutare gli altri a sbagliare) e in presenza di una nuova proposta di legge che riduca gli effetti negativi della precedente, votarla, dicendo pubblicamente che non si è d’accordo. 

Campanini, invece, vorrebbe forse appellarsi al paragrafo 73 della Evangelium vitae per avallare il voto o la firma di un cattolico in calce ad una legge contraria alla vita, cioè al primo dei princìpi non negoziabili, e forse anche per avallare la partecipazione a partiti che già nel loro programma prevedono leggi di questo genere. Come dire: inizio a mediare ancora prima di entrare in gioco. Chi entra in un partito che si sa – per il programma, per la cultura di riferimento, per la storia – farà certe cose contrarie ai princìpi non negoziabili per favore non si appelli alla necessità della mediazione. È lui il primo ad averci già rinunciato.

È strano che Campanini non citi mai il documento normativo principale in tema di princìpi non negoziabili, ossia la Nota Ratzinger del 2002. Si tratta di un atto della principale congregazione della Curia romana approvato dal Papa. Come si fa a dire che non esiste una dottrina sui princìpi non negoziabili? La dottrina cattolica non è data solo dai dogmi. Dottrinale e dogmatico non sono equivalenti. Quella Nota la cancelliamo o la teniamo? Lì c’era un elenco preciso, che credo vada anche considerato nell’ordine in cui i principi sono enunciati: vita, famiglia, libertà di educazione, tutela dei minori dalla moderne forme di schiavitù, libertà religiosa, solidarietà nella sussidiarietà. Che poi ci si sia esercitati a togliere questo per aggiungere quello, è vero. Anche Enzo Bianchi ha fatto un “suo” elenco di princìpi non negoziabili, naturalmente diverso da quello del Papa vero. Non dimentichiamo poi che Benedetto XVI è tornato moltissime volte nel suo magistero ordinario a spiegare questi concetti. (Non saranno dogmi, ma a me hanno insegnato ad avere un religioso riguardo anche per il magistero ordinario del Papa). Lo stesso ha fatto il cardinale Bagnasco a Todi e alla Cei proprio alcuni giorni fa. Le chiese locali le valorizziamo solo quando dicono cose diverse da quelle del Papa o anche quando ne sviluppano coerentemente l’insegnamento? 

Il servizio al mondo e alla laicità della politica il cristiano non lo fa mediando sui princìpi non negoziabili. Così facendo priva il mondo proprio di quello che il mondo vuole da lui. E’ il mondo a non sapersene che fare di cristiani così. Il mondo ha bisogno che la fede gli ricordi la verità quando se ne dimentica. Ha bisogno che la fede rimetta in grado la ragione di essere se stessa: questa è la laicità. Ricordandogli i princìpi non negoziabili la fede aiuta la ragione ad essere se stessa, ossia laica. Inoltre il cattolico che media sui principi priva se stesso e l’intera comunità cristiana della forza che deriva dalla fede di andare avanti anche quando questo costasse sacrificio e sofferenza. E’ un depauperamento che poi passa anche in altri campi. L’impegno politico che non conosce dei no assoluti che razza di impegno è? E’ una passeggiata, e magari anche ben pagata. 

Non è vero, come dice  Campanini, che la politica è solo l’ambito del relativo. Nella politica si giocano anche valori assoluti. Altrimenti perché il cristiano dovrebbe impegnarvisi? Non basterebbero gli altri? Lo scopo della presenza dei cattolici in politica è la difesa del Creato e aprire un posto a Dio nel mondo. Senza la fedeltà ai princìpi non negoziabili diventa altro. 

Il Concilio di Melloni. Il “balzo in avanti”… tra le braccia di Satana

di Giorgio Vedovati, da Campari e de Maistre (30/01/2013)

Giovedì 24 gennaio, nel contesto delle ricorrenze del cinquantenario del Concilio Vaticano II, s’è svolta a Pavia una conferenza dal titolo “La Pentecoste del Concilio”, con unico relatore Alberto Melloni, giornalista del Corriere della Sera e segretario della Fondazione per le Scienze Religiose Giovanni XXIII, ben noto per essere uno dei fari del progressismo italiano, ultimo frutto della scuola bolognese di Dossetti e Alberigo.

Melloni, navigato giornalista di mondo, ha sfoderato le proprie doti da talk-show, dove conta di più l’impressione immediata, l’estro originale, il gusto gossipparo e la continua ironia.

Non poteva non partire dall’esaltazione del Beato Giovanni XXIII – a cui senz’altro dobbiamo tutti grande venerazione –, condotta però con un fine ben preciso: contrapporlo a tutti i Papi della storia precedente e, più o meno velatamente, a tutti quelli successivi. Con un primo autogol, l’epigono bolognese menziona una delle fondamentali virtù di Roncalli, l’obbedienza (intesa anche verso le gerarchie ecclesiastiche), di cui poi darà egli stesso grande dimostrazione nel corso della conferenza. Il cuore del discorso insiste sul Papa buono (tranquilli: il celebre discorso con la luna e la carezza è stato ovviamente proiettato!), in mezzo al branco di leoni complottisti, ai cardinali menefreghisti e «fascisti» («non c’era nemmeno uno di colore!», ha sentenziato colui che, sotto sotto, auspica l’arrivo della “quota rosa”…), ai soliti discorsi sul papato di transizione. 

Scontata è la forzatura di celebri affermazioni di Giovanni XXIII, a partire dalla «nuova Pentecoste» che avrebbe dovuto derivare dal Concilio; profondamente scorretta la scelta di far ascoltare in latino la celebre Gaudet Mater Ecclesia, per nascondere – sospettiamo noi, malfidenti – queste fondamentali parole del beato: il Concilio «vuole trasmettere pura ed integra la dottrina, senza attenuazioni o travisamenti […] È necessario che questa dottrina certa ed immutabile, che deve essere fedelmente rispettata, sia approfondita e presentata in modo che corrisponda alle esigenze del nostro tempo»[1].

La linea di Melloni è chiara: Roncalli ha operato una fortissima rottura, a cui con fatica il malefico Paolo VI, dileggiato sotto vari punti di vista (notevole esempio di obbedienza al successore di Pietro!), ha tentato di porre rimedio chiudendo bruscamente il Concilio. Peccato che lo stesso Giovanni XXIII, dopo il grande ottimismo iniziale (la speranza era di rinnovare dall’interno la Chiesa, nel solco della Tradizione di sempre), avesse manifestato chiaro scontento di come stava evolvendo il Vaticano II[2] e, a buon diritto, tutti i suoi successori abbiano insistito sulle grandi difficoltà che sono subentrate, soprattutto il cosiddetto “para-concilio”, ossia quelle forzature che fanno leva, più che sui documenti conciliari, su presunti spiriti soggiacenti, frenati e celati in extremis dalle forze “malvagie” della Chiesa. 

Ecco il modus operandi melloniano, che affidandosi al proprio umorismo oscilla tra feroci accuse nei confronti degli ultimi pontificati, colpevoli di aver disilluso le attese del Concilio[3], e la contraddittoria affermazione dell’unità della Chiesa attuale, che sarebbe interamente ispirata al Concilio[4].

Le incongruenze scoppiano quando un’ingenua domanda dal pubblico chiede lumi sull’ermeneutica della continuità. Qui Melloni dà il meglio di sé, accusando da un lato il Papa di aver sopravvalutato il suo uditorio nel famoso discorso alla Curia romana del 22 dicembre 2005, dall’altro il «giornalume tradizionalista» di aver totalmente frainteso le parole di Benedetto XVI, che nell’esprimersi così avrebbe attinto alla propria impostazione filosofica platonica. 

Rasentiamo il ridicolo! Come appare evidente alla lettura del discorso ratzingeriano, il riferimento è chiaramente alle ermeneutiche del Vaticano II e alla contingenza storica della Chiesa[5], non a un fantomatico iperuranio. Melloni addirittura tenta di presentarsi “dalla parte della continuità”, estraendo il passe-partout che molti progressisti usano: l’accusa al gruppo maledetto[6], i lefebvriani ovviamente, che manipolerebbero addirittura l’opinione comune (eppure, sembra che siano i Melloni e i Battista a scrivere sul principale quotidiano nazionale).

Ma il Pontefice pensa in primo luogo ai progressisti nella sua condanna dell’ermeneutica della rottura: questa, infatti, «asserisce che i testi del Concilio come tali non sarebbero ancora la vera espressione dello spirito del Concilio. Sarebbero il risultato di compromessi nei quali, per raggiungere l’unanimità, si è dovuto ancora trascinarsi dietro e riconfermare molte cose vecchie ormai inutili. Non in questi compromessi, però, si rivelerebbe il vero spirito del Concilio, ma invece negli slanci verso il nuovo che sono sottesi ai testi […] sarebbe necessario andare coraggiosamente al di là dei testi». C’è ben poco da fraintendere: stiamo parlando delle avanguardie nostrane! Possiamo ammirare l’astuzia del tentativo di dribblare la recente definizione di «interpretazioni eretiche» del Concilio formulata dal cardinale Müller[7] (certo non un tradizionalista!), ma, caro “dattero” bolognese, non ci freghi!

Ecco dunque Melloni, quello che nei suoi starnazzanti articoli accusa la Chiesa attuale di fondamentalismo, di aver «dimenticato che la vita è fatta di percorsi tortuosi»[8]; quello che è incapace di comprendere il recente Discorso per la Pace di Benedetto XVI, quello che critica velenosamente le mobilitazioni di piazza contro il mariage pour tous; quello che pontifica contro il «ritualismo pizzuto», la «religiosità precotta» e «i più cocciuti tradizionalisti»[9]; quello che sproloquia sul pluralismo religioso[10], ignorando i moniti del pontefice[11]. Nell’arsenale di Melloni non può poi mancare il secondo cavallo di battaglia dei progressisti: il “passatismo” del rito in latino, un “atto di regresso oscurantistico”, com’è definito da chi palesemente non lo conosce né lo comprende. 

Melloni, insomma, mentre si professa storico, fa del Concilio il randello per la sua lotta ideologica, propagandando «la profezia del cardinale Martini»[12], l’unico che avrebbe rotto con il modello tradizionale per cui «un cattolico, specialmente se gesuita e vescovo, debba essere e non possa non essere arrogante, chiuso, mordace, sprezzante, spietato con gli altri, autoindulgente con se stesso», in una ben poco obbediente contrapposizione con il Magistero, a suo dire impegnato in «un’agenda corta, fatta di lotta al relativismo e di concessioni ai lefebvriani».

Caro Melloni, continua pure ad auspicare un’assurda collegialità ecclesiale che travalichi il definito spazio del Concilio (come insegna invece il Magistero), e continua pure a esortare alla realizzazione del sogno martiniano («un balzo innanzi verso una collegiale schietta»[13]), ma sia chiaro a tutti quanto già diceva papa Montini sul «fumo di Satana» entrato nella Chiesa: questo «balzo innanzi»[14] porta dritto tra le braccia del Nemico.

NOTE

[1] S. Oec. Conc. Vat. II. Constitutiones, Decreta, Declarationes, 1974, pp. 863-865.

[2] Oltre alle tante riflessioni degli ultimi pontefici, si pensi a quanto emerge dai diari del cardinal Siri, al quale Roncalli avrebbe rivelato «che non era affatto contento del Concilio».

[3] «Una comunione che […] attende ancora un “balzo innanzi”» (CdS 29 Ottobre 2012, p. 30).

[4] «La Chiesa è nella sua interezza quella del Concilio» (CdS 10 Ottobre 2012, p. 38).

[5] «l’“ermeneutica della riforma”, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato».

[6] Secondo una strategia già stigmatizzata da Benedetto XVI, cfr. Lettera ai Vescovi del 10 Marzo 2009.

[7] Osservatore Romano 29 Novembre 2012.

[8] CdS 16 Dicembre 2012, p. 34.

[9] CdS 10 Ottobre 2012, p. 38.

[10] CdS 6 Ottobre 2012, pp. 1. 5.

[11] «se la libertà di religione viene considerata come espressione dell’incapacità dell’uomo di trovare la verità e di conseguenza diventa canonizzazione del  relativismo, allora essa da necessità sociale e storica è elevata in modo improprio a livello metafisico ed è così privata del suo vero senso, con la conseguenza di non poter essere accettata» (Discorso alla Curia romana, 22 Dicembre 2005).

[12] CdS 2 Settembre 2012, p. 32.

[13] CdS 2 Settembre 2012, p. 32.

[14] CdS 2 Settembre 2012, p. 32; CdS 29 Ottobre 2012, p. 30.