I gesuiti sempre più “illuminati”: aprono anche al tantra sessuale ed agnostico

La Pontificia Università Gregoriana di Roma, gestita dai gesuiti, ai più conosciuta istituzione accademica pontificia, ha accolto lo scorso 17 ottobre un convegno inter-religioso dal titolo Illuminazione e via tantrica, promosso niente meno che dall’Ufficio nazionale per l’Ecumenismo ed il Dialogo inter-religioso, nonché dall’Unione Hinduista Italiana.

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Non esisterà mai un “papa liberale”

Eugenio Scalfari si domanda se Papa Francesco sia liberale. Si domanda se un uomo di fede possa esserlo e risponde di si. E invece no. Il suo argomento è storicamente e filosoficamente impossibile. Liberalismo si coniuga con relativismo, agnosticismo e scetticismo. Il cristianesimo afferma valori di verità assoluta.

di Ettore Gotti Tedeschi

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Un relativismo che porta all’agnosticismo

“[…] E ad un esame più attento scopriamo che i dogmi sono molto meno stabili di quello che sembri. Norman Tanner, gesuita britannico, analizzando la formula del Credo di Nicea e di Calcedonia, dimostra in un acuto saggio come i primi Concilii ecumenici abbiano speso molto tempo e molta sapienza teologica nel precisare e correggersi. Dunque se lo hanno fatto in quell’epoca, perché non oggi? In pratica le definizioni dogmatiche che consideriamo immutabli non lo erano al tempo in cui furono determinate e per molti decenni sono state riviste e rielaborate”. (Concilium 2/2014, Dall’«anathema sit» al «Chi sono io per giudicare?», Queriniana, pp. 200, euro 15; queriniana).

Se si dovessero seguire tutte le voci che si sentono senza dubbio s’impazzirebbe.

Riporto quest’estratto da una recensione di un libro pubblicato dall’editrice Queriniana perché ha un’opinione corrente e comune nel nostro povero mondo: “I dogmi sono relativi, poiché già agli inizi si dimostrarono fluttuanti; quindi anche oggi possiamo cambiarli (o relativizzarli)”. Di fatto molti cristiani se ne sono da tempo sbarazzati come se fossero vecchie scarpe rotte e questo discorso, alla fine, va esattamente in questa direzione anche se chi lo fa, magari, non lo vuole ammettere.

A differenza di un’argomentazione grezza che porta al relativismo, c’è da dire che nella recensione di questo libro si discetta con una certa raffinatezza intellettuale. Si sottolinea, infatti, che i termini usati nei primi secoli cristiani erano fluttuanti, incerti, a volte intercambiabili e, addirittura, dopo un po’ uno sostituiva un altro.

Questo è senz’altro vero poiché allora si stava formando un vocabolario teologico e i significati dei termini della cultura filosofica ed ellenistica non si prestavano sempre all’uso cristiano.

Quello che, però, pare sfuggire totalmente a questi “teologi” e filologi è che sin dall’epoca apostolica la Chiesa aveva ben chiaro chi fosse Dio e come si fosse manifestato in Gesù Cristo per averne avuto esperienza nei suoi propri membri. La chiarezza e la rocciosa stabilità di questa coscienza non nasceva da un apparato filosofico, da una sapienza di parole (come direbbe san Paolo), ma da un incontro: l’uomo, attraverso la fede in Cristo, aveva incontrato Dio, l’Inconoscibile si era reso conoscibile, direi “palpabile”. Al Dio sconosciuto dell’Areopago i cristiani sapevano dare un nome perché lo avevano incontrato. Si vedano, ad esempio, certi discorsi rivolti all’imperatore da sant’Ambrogio, discorsi che all’uomo attuale potrebbero parere di una sicumera irritante:
“Ciò che voi [pagani] ignorate, noi lo abbiamo conosciuto dalla voce di Dio. E ciò che voi cercate con le vostre ipotesi (suspiciones), noi lo abbiamo per certo dalla Sapienza di Dio e dalla Verità”[1].

Dietro a ciò c’è quello che, in termini fin troppo banalizzati e alcune volte equivoci, definiamo “esperienza nello Spirito” [2].

Ecco perché lo stesso Ambrogio affermava:
“Perché [tu, imperatore,] cerchi i Vescovi di Dio, cui hai preferito le richieste sacrileghe dei pagani? Non possiamo avere nulla in comune con l’errore altrui” [3]. Parole assai poco… ecumeniche!

Il nucleo dell’esperienza di Dio è passato dagli apostoli alle comunità cristiane e da queste è stato sempre più custodito in particolari comunità di credenti. I monasteri, nati come reazione al rilassamento dei cristiani in un impero che non li perseguitava più e che, anzi, li allettava nel lusso della corte imperiale, conservarono il nucleo di questa esperienza mistica: il Cristianesimo è prima di tutto un incontro con il Dio della vita manifestato in Gesù Cristo, un incontro che è e resta ineffabile, indicibile. Poco importa che siano relativamente pochi ad averlo avuto. Quei pochi fanno la verità del Cristianesimo.

Non a caso i più autorevoli padri della Chiesa, fatte le scuole più alte dell’impero, si ritiravano in monastero o ne passavano un certo tempo.
Lo stesso Gregorio Magno sospirava i tempi in cui poteva vivere in monastero, lontano da mille problemi pastorali che gli assorbivano tutte le energie, proprio perché quello era il luogo dell’incontro con l’Ineffabile, nella preghiera ininterrotta.

Se la Chiesa dei primi secoli ha la chiarissima coscienza di chi è Dio deve immediatamente confrontarsi con alcuni che, capendolo a modo loro, deformano quest’esperienza mostrando tutta un’altra via. Sono i cosiddetti eretici. I dogmi, allora, non nascono tanto dall’esigenza di affermare con parole umane chi è Dio (cosa in realtà impossibile e legata alla pura indicibile esperienza) ma dall’esigenza di dire chi Dio non è.

Nel momento in cui si stabiliscono delle affermazioni simboliche per porre dei “paletti” entro i quali orientare il proprio spirito, ci s’imbatte nelle difficoltà della lingua e della cultura di allora.

S’inizia, dunque, ad usare timidamente certi termini, li si sostituisce con altri, si dona nuovo significato a parole che, nell’ellenismo, volevano significare altro, ecc.

Questa fluttuazione di linguaggio non significava che i dogmi (o meglio i “paletti” per orientare il proprio spirito) non fossero chiari. Non significava che Cristo nell’esperienza dei cristiani non fosse Dio, non fosse la porta per il Padre, ecc. Queste ultime cose erano gelosamente custodite ed erano chiare come il sole!

La fluttazione terminologica significava, invece, che i termini utilizzati mostravano sempre qualche evidente limite.

Tuttavia ci si rendeva conto che era necessario stabilire delle convenzioni perché il Cristianesimo da via verso Dio (come lo era stato nell’esperienza dei più ferventi fino ad allora) non si trasformasse in una semplice filosofia umana.

Riassumendo: la chiarezza dell’esperienza precede il tentativo, a volte a tentoni, di stabilire dei “paletti” o dei dogmi. Una volta che questi si stabiliscono universalmente (con i concili ecumenici) si tengono come punto di non ritorno, come affermazioni simboliche per stabilire la differenza tra l’ortodossia della fede dall’eterodossia che porterebbe ad un cammino spirituale fuorviato [4].

Detto ciò, oggi, si ha chiaro che il Cristianesimo è un cammino e che Cristo è una porta verso Dio? Nella maggioranza dei casi, no! Viviamo in pieno relativismo incoraggiato, talora, pure dagli stessi papi recenti.
Oggi, in molti ambienti occidentali, il Cristianesimo è un discorso su Dio con un’istanza puramente etica da seguire. L’orizzonte è sempre più puramente umano. Anzi, ormai è esclusivamente umano!
In un contesto vuoto di “esperienza nello Spirito”, cambiare il linguaggio dei dogmi significherebbe senza dubbio alterarne il linguaggio simbolico chiudendo il Cielo, buttando la chiave e impedendo a se stessi e ad altri di accedere al Cielo stesso [5].

Per giunta in questa nostra atmosfera relativistica è logico aspettarsi che i dogmi siano addirittura dichiarati insensati. E, in una realtà “vuota di Spirito”, lo sono per davvero!

Quello che oggi manca, a differenza della Chiesa nei primi secoli, è la matura coscienza d’aver incontrato Dio nella fede in Gesù Cristo, d’averne in qualche modo “patita” la presenza, come dicono gli esicasti bizantini.

D’altronde, gli stessi santi occidentali sono raramente dei mistici e prevalentemente dei puri uomini etici.

Tutto diventa, allora, questione di semplici parole, di semplici concetti. Di qui la paura più o meno incoscia che la scienza smentisca il Cristianesimo!

Così, senza un profondo incontro, si disquisisce dell’aria fritta e nulla ha più senso: il relativismo vuoto di esperienza cristiana porta all’agnosticismo bello e buono!

A questo punto, pure la liturgia (della quale questo blog si occupa) diviene pura celebrazione umana tra uomini e per gli uomini con qualche istanza etica in nome di Dio. Lo vediamo nella pratica, infatti…

La Chiesa in occidente continua velocemente la sua corsa verso il basso senza che alcuno la freni e queste pubblicazioni mostrano in modo drammaticamente chiaro il vuoto di esperienza nello Spirito che pare precederle. Tutto pare essere un puro discorso, una filosofia…

A differenza di ciò, i santi antichi sapevano bene quello che facevano. Essi dicevano: “Noi non lottiamo per delle parole (poiché una parola può essere combattuta da un’altra) ma per una questione di vita o di morte. Il Cristianesimo è, infatti, vita in Dio e morte in chi non lo accetta”.
I dogmi hanno questo background cosa, oggi, quasi completamente persa.
Non fanno che affastellarsi fatti su fatti a riprova di tutto ciò…

Un appunto dell’ultimo momento

Inserisco, quale documentazione, questo scritto che rivela in modo eloquente la coscienza dogmatica di una certa parte del mondo occidentale. Come si nota, qui esiste, di fatto, la costruzione di un “nuovo cristianesimo” con basi ben differenti da quelle tradizionali.

NON TUTTI I CRISTIANI CREDONO NELLE DUE NATURE DI GESU’
Credo che il dialogo ebraico- cristiano- islamico, nel quale il papa si è mosso con tanto impegno, abbia un nodo fondamentale da sciogliere. Si tratta di rifare i conti con i Concili di Nicea e di Calcedonia che, nel loro linguaggio filosofico-ellenistico, vanno riletti e reinterpretati alla luce delle Scritture.
Un immenso e documentatissimo lavoro storico ed ermeneutico ci permette in tutta tranquillità di negare le due nature in Gesù. La dottrina delle due nature, nel linguaggio dei Concili, non poteva essere altro che la dichiarazione di fede per cui i cristiani non separavano Gesù da Dio, nel senso che egli era il “tramite” e il testimone della presenza e della “rivelazione” di Dio.
Leggere oggi come ontologico questo linguaggio, significa prescindere totalmente dal Gesù storico e dal messaggio del Secondo Testamento. La divinizzazione di Gesù, come fatto ontologico, non appartiene necessariamente alla fede cristiana (Barbaglio, Ortensio da Spinetoli, Schillebeeckx, Kung, Salas, Spong, Lenaers, Adriana Destro, Mauro Pesce, Tamayo,Elizabeth Johnson, M. Fox, Haigth, Boimard, Vigil, Gounelle……), ma ad una sua interpretazione filosofica, letteraria contingente [6]. Oggi possiamo liberamente e responsabilmente sentirci cristiani sapendo che la nostra fede non è vincolata a formule che potevano avere un senso dentro una stagione culturale datata. Non è amore alla tradizione, ma becero tradizionalismo ripetere delle formule ignorando la inevitabile mutazione dei linguaggi. La nostra fede deve sempre reinventare il modo con cui dirsi [7].

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Note

[1] AMBROGIO DI MILANO, Lettera 73, 8 in Lettere 70-77, a cura di G. Banterle, Milano – Roma 1988, p. 67

[2] ID., Lettera 72, 14 in Lettere 70-77, a cura di G. Banterle, Milano – Roma 1988, p. 47.

[3] La definizione di “esperienza nello Spirito” è stata ampiamente sfruttata e abusata da parte di alcuni settori cristiani sia nel mondo protestante che in quello cattolico. Spesso è presentata come qualcosa di puramente psicologico, nevrotico, sentimentale, dunque assolutamente umano. Anche questo è il segno palese di un incredibile allontanamento dalla prassi e dalla prudenza della Chiesa antica. In realtà l’ “esperienza nello Spirito” evangelica è qualcosa che rimane nel dominio dell’ineffabile, per quanto possa essere esperito.

[4] Nella coscienza della Chiesa antica non esiste alcuna distinzione tra dogma e spiritualità, poiché il primo è ordinato per la seconda: “Per noi e per la nostra salvezza…”, recita il Credo, aggiungendo tutta una serie di punti fermi da credersi. Purtroppo oggi, negli scaffali “spiritualità” delle librerie religiose i due campi paiono ampiamente dissociati (e lo sono pure nell’insegnamento). Questo da adito ad un certo individualismo “fai da te” oltre che ad un consolidato relativismo: tutte le vie spirituali sono considerate equivalenti tra loro.
Un religioso cattolico, un giorno, si recò nell’Athos e voleva parlare di spiritualità. Il monaco ortodosso iniziò col parlargli di dogmi con meraviglia e un certo indispettimento del primo. Come si vede nel monaco ortodosso è ancora intatta la coscienza della Chiesa antica.

[5] Chi presume di poter cambiare il linguaggio dei dogmi lo può pensare proprio perché mosso da un individualismo di stampo moderno. Anticamente nessuno poteva pensarlo e questo è dimostrato pure dal dialogo avuto da papa Leone III con i presuntuosi teologi di Carlo Magno. Il dogma è cosa che riguarda tutta la Chiesa, non una sola persona, e quindi dev’essere discusso da tutta la Chiesa. Neppure un papa, affermava Leone III, può inserire, togliere o modificare qualsiasi cosa dal dogma della Chiesa.
Relativismo e individualismo selvaggio oramai la fanno da padroni nel Cristianesimo di casa nostra. È, appunto, un Cristianesimo “vuoto di esperienza nello Spirito” e totalmente pieno di presunzione umana!

[6] Questa frase riduce quella che è l’esperienza spirituale di Cristo, quale “porta al Padre”, ma pure quale Dio in sé, ad una sorta di “filosofia contingente”. Questa conclusione può discendere o da una totale ignoranza o da una lettura degli scritti ascetici e patristici con occhiali unicamente razionalistici. Era questo quello che avrebbe inteso sant’Atanasio di Alessandria? Non credo proprio!
Il destino di questi pensatori è unicamente quello di svuotare definitivamente il Cristianesimo della sua peculiarità. A questo punto, se va bene, Cristo diviene un semplice “profeta”, esattamente come si predica nell’Islam.
C’è da dire che questi autori hanno il coraggio di dire quello che pensano e vivono ma la maggioranza, priva di tale coraggio, di fatto non si allontana molto da queste conclusioni. L’arianesimo ha sempre tormentato l’Occidente cristiano proprio perché i suoi presupposti fin troppo umanistici lo permettono.

[7] Cfr. http://donfrancobarbero.blogspot.it/2014/05/non-tutti-i-cristiani-credono-nelle-due.html

© TRADITIO LITURGICA (1° giugno 2014)

Così la Cassazione istituzionalizza la religione dei “senza Dio”

di Mauro Faverzani (03/07/2013)

È passata quasi sotto silenzio, come una notizia di minor conto. Ma di minor conto non è. Anzi, per molti versi è ben più importante dei fiumi di parole ogni giorno spesi dai media per voci di corridoio, gossip e paparazzate. Le sezioni unite civili della Corte di Cassazione hanno depositato una sentenza, che stabilisce come «anche le associazioni atee e agnostiche debbano ricevere dal governo la stessa tutela e gli stessi diritti riconosciuti dall’art. 8 della Costituzione alle confessioni diverse da quella cattolica, mettendo al bando la discriminazione tra le fedi acattoliche».

Dando torto così al ricorso del governo Monti, teso invece ad escludere intese con l’Uaar, l’Unione degli atei e degli agnostici razionalisti. Ergo: la questione torna al Tar, che dovrà pronunciarsi sull’argomento. Quale la portata rivoluzionaria di tale verdetto? Innanzi tutto, rappresenta un pericoloso precedente, che interviene chirurgicamente sull’immaginario collettivo, introducendo in modo forzato ed indiscriminato un “pluralismo confessionale e culturale”, ch’è di fatto sincretismo di massa, più simile ad un mercato religioso che all’effettiva tutela delle minoranze.

Qui non si stanno proteggendo diritti calpestati, si sta banalizzando la sfera spirituale, degradandola riduttivisticamente al ruolo di semplice “centro commerciale” della fede, dove ognuno possa comprare quel che gli pare. A prescindere dal ruolo storico, dalle basi teologiche, filosofiche, culturali ed artistiche che ogni credo in quanto tale possa avere o non avere nella storia di un popolo, di un Continente, di ogni anima. Che, ad esempio, l’Europa delle Cattedrali ‒ con buona pace di illuministi e illuminati ‒ abbia le proprie radici in secoli di Cristianesimo non importa più nulla, anzi conta tanto quanto gli ultimi arrivati, quand’anche ininfluenti sul tessuto sociale e culturale contemporaneo.

Non solo: questa sentenza introduce una pericolosa destrutturalizzazione del sacro, intervenendo in una sfera, quella religiosa, che non dovrebbe essere codificata per legge, appartenendo all’ambito delle coscienze e ad una Tradizione, nel caso della Chiesa Cattolica, ultrabimillenaria. Qualcuno deve pur spiegare a confessioni dotate di una precisa liturgia, storicamente fondata, di una chiara gerarchia, territorialmente diffusa, di un diritto ecclesiastico, specificamente normato, come esse possano essere equiparate ad associazioni prive di una precisa configurazione, di una connotazione chiara e di una ritualità precisa, spesso anche di un’autorità riconosciuta.

Chi celebrerà i matrimoni tra atei? Che sacerdoti saranno abilitati a presiederli? Secondo quale cerimonia? Appare questo il grimaldello, con cui scalzare ed annientare anche ogni differenza di fatto tra il concetto di “religione” e quello di “setta”, finora scientificamente distinte e definite, anche per trarne conseguenze importanti sul piano del diritto: non a caso la Chiesa Cattolica fonda i propri rapporti con lo Stato Italiano sulla scorta di un preciso Concordato. Di cui l’Uaar chiede l’abolizione, contraddicendosi: da una parte spara a zero sul Concordato, dall’altro esulta per una sentenza della Cassazione, che di fatto introduce per tutti ‒ anche per loro – la  necessità di un riconoscimento istituzionale da parte dello Stato.

V’è poi un non indifferente risvolto anche di carattere economico con la prospettiva, alla luce di un simile pronunciamento, di poter, anzi dover estendere la distribuzione dell’8 per mille a chiunque, indiscriminatamente, prescindendo da qualsiasi credenziale, qualifica o attributo.

Non risulta che l’Uaar sia mai stato discriminato in alcun modo, penalizzato, sanzionato, emarginato per le proprie idee, inibito nella libertà d’espressione: dunque, salutare la sentenza della Cassazione quale riconoscimento dell’uguaglianza di tutti i cittadini, «indipendentemente dalle loro opinioni in materia religiosa», risulta un insulto a quei credenti, che ogni giorno nel mondo pagano la propria fede con la vita o con l’emarginazione sociale, un insulto alla Chiesa, quella vera, delle catacombe.

Anche fatti come questo confermano la verità delle parole di Gilbert Keith Chesterton, secondo cui «chi non crede in Dio non è vero che non crede in niente, perché comincia a credere a tutto». Ma probabilmente nemmeno Chesterton avrebbe mai immaginato che anche questo “tutto” potesse un giorno nell’Italia, che ospita il cuore della Cristianità, vedersi attribuire le stesse credenziali, gli stessi diritti normativi e la stessa patente di affidabilità della Fede Cattolica. 

Mancuso, teologo senza Dio

In un recente articolo scrive del rispetto che si deve a chi ha deciso liberamente di porre fine ai suoi giorni. Come dire: prestare la corda a chi si vuole impiccare. Soltanto un grande vuoto umano può propagandare e giustificare la solitudine che uccide.

di Angelo Busetto (15-05-2013)

Letture: ci sono quelle buone e quelle cattive. Tra le cattive ne registro un mazzetto. Per intanto, quella di un autore che si definisce e si fa definire ‘teologo’, Vito Mancuso. Qualche tempo fa avevo letto con una certa simpatia qualche suo intervento, nel tentativo di riconoscergli lo sforzo di avvicinare la teologia ai problemi dell’uomo d’oggi. Ormai però mi sembra di vederlo imbarcato con l’equipaggio di chi si fa servo dei luoghi comuni ampiamente propagandati sui mass-media. 

In un recente articolo, dopo un elaborato argomentare venato di richiami cristiani, Mancuso scrive: “E se un essere umano ha liberamente scelto di mettere fine alla sua vita-bios perché per lui o per lei l’esistenza è diventata una prigione e una tortura, chi veramente vuole il “suo” bene, chi veramente si dispone con vicinanza solidale alla sua situazione, lo deve rispettare”. Come dire che se io vedo un uomo o una donna determinati a tentare il suicidio, ‘per il bene che gli voglio’ gli presto anche la corda. 

Non so quale condizione personale viva Mancuso, ma certamente appare un uomo solo, che non vede e non sa immaginare altra ‘vicinanza solidale’ verso il prossimo in difficoltà se non quella di collaborare alla sua disperazione. E’ strano che un ‘teologo’ non abbia in mente e non suggerisca la via della carità, della vicinanza, del sostegno fraterno, che ha salvato e salva ogni giorno persone disperate o travolte da situazioni tremende, malati terminali, uomini e donne soli. Nelle situazioni difficili e nei grandi dolori, la nostra società chiama all’appello schiere di psicologi specializzati nell’assistenza alle persone colpite. Potrà essere una salutare garza sulla ferita. 

Ma certi dolori colpiscono il profondo del cuore, che solo una ‘medicina diversa’ può guarire. Perché dunque essere così reticenti nell’annunciare la fede, nel proporre Cristo Crocifisso e Risorto? E’ la missione di ogni cristiano, teologo o prete o laico o padre o madre o amico o collega. E’ il dono che è stato fatto a noi in favore di tutti. Perché lasciarci nel deserto, come se Cristo non fosse ancora vivo, non potesse percorrere le nostre strade, non potesse entrare nelle nostre case, raccogliendo i tormenti e le attese della vita? Dice il Vangelo che se un figlio ci chiede un pane, non gli daremo certo un sasso. Se c’è bisogno di speranza, di carità, di vicinanza, di aiuto concreto, non possiamo propagandare e giustificare la solitudine che uccide.

DON ENNIO INNOCENTI, STUDIOSO DELLO GNOSTICISMO

di P. Giovanni Cavalcoli, OP (10/05/2013)

Molti anni fa ebbi modo di leggere la traduzione curata da Don Ennio di una “Storia dello gnosticismo” di Julio Meinvielle, un’opera che mi colpì perché presentava un concetto di “gnosticismo” più allargato e più intelligente di quello che fino ad allora conoscevo, nella linea della impostazione tradizionale come per esempio quella pur meritoria ed interessante di Hans Jonas, Jean Daniélou, Filoramo, la Sfameni Gasparro, Samek Lodovici o il Festugière, tanto per fare qualche esempio, un’impostazione che riserva il termine a quel fenomeno ben noto, detto appunto “gnosticismo”, che appartiene alla storia dell’eresiologia e che in quanto fenomeno storico, presenta contorni ben precisi, consistenti nella visione dualistica della realtà, dove la materia appare porincipio del male e lo spirito principio del bene.

Ma sappiamo anche come la prospettiva “gnostica” non fu solo di questi eretici, contro i quali combatterono S.Ireneo e lo stesso Plotino, ma fu anche di un grande filosofo cristiano dei primi secoli, S.Clemente Alessandrino, il quale anzi concepiva la sapienza cristiana come la vera e somma “gnosi” (ghnosis), la più alta forma della conoscenza di fede, non certo qualcosa che superasse la fede, ma che al contrario ne fosse la più sublime espressione.

In base al senso stesso della parola gnosi, “conoscenza”, “scienza”, il termine “gnosi”, “gnosticismo” poteva dunque essere emancipato dalla categoria storica dello “gnosticismo” di Valentino o Bardesane, che comunque una volta spiegato conserva il suo valore, ed essere utilizzato per designare un certo atteggiamento dello spirito che periodicamente si presenta nella storia delle idee in Occidente come in Oriente.

Si trattava di cogliere il significato di fondo dello gnosticismo storico al di là della forma particolare che aveva assunto in quello che tradizionalmente gli storici chiamano “gnosticismo”. Tale operazione risulta utile dal punto di vista teoretico e morale, perché consente di mettere in luce un certo modo di porsi in rapporto con la rivelazione cristiana e più in generale di far teologia, che si basa su di una gnoseologia per la quale il soggetto, ritenendo di possedere una scienza divina o suprema comunque insuperabile e giudice di tutte le altre, si sente autorizzato a giudicare dall’alto di questo sapere assoluto, certissimo ed insindacabile, anche i dati della stessa rivelazione cristiana e per conseguenza la dottrina del Magistero della Chiesa, visti come livelli inferiori di conoscenza teologica inficiati dall’immaginazione e dalla mitologia, e quindi soltanto ombra o figura, Vorstellung, “rappresentazione”, per dirla con Hegel, del puro pensiero, il denken, che si esprime nella gnosi.

Naturalmente lo gnostico non necessariamente usa questo termine per designare tale sua impostazione, anzi normalmente non lo usa mai, per lo più consapevole che si tratta di un termine compromesso e preferisce denominare in altri modi il suo sistema o la sua speculazione, sia filosofica come teologica.

Ma ciò non basta certo a nascondere il suo atteggiamento mentale e morale che resta nel suo significato oggettivo e che comunque al di là delle sue intenzioni che possono anche essere buone, merita scientificamente l’appellativo di gnosticismo. Questo è il metodo seguito da Don Innocenti, di per sé totalmente corretto e molto illuminante.

L’intuizione di questa possibilità di usare il termine “gnosi” in questo senso più ampio e più utile, si trova già nel Maritain, il quale, nel suo La Philosophie morale. Examen historique-critique des grands systèmes, parla assai opportunamente di “gnosi hegeliana”.

Ebbene Don Innocenti ha il merito di far uso di questo senso allargato, teoreticamente utilizzabile, di gnosi[1], partendo dallo studio storico del Meinvielle, che già si pone su questa strada con la sua storia dello gnosticismo, che iniziando certo dallo gnosticismo nel senso tradizionale, percorre poi l’arco di molti secoli, con riferimenti a  molte altre correnti filosofiche di pensiero, soprattutto la kabbala ebraica, l’ermetismo, li pensiero magico rinascimentale, il rosacrucianesimo, la massoneria, la teosofia fino a giungere a Karl Rahner.

Don Innocenti dà un significato positivo alla parola gnosi, sulla scorta di Clemente Alessandrino e per questo parla di “gnosi spuria” per significare quella gnosi presuntuosa e pretenziosa per la quale lo gnostico pretende di conoscere Dio e Gesù Cristo meglio di quanto viene proposto dalla Chiesa cattolica e si permette di giudicarne i dogmi dall’alto di un “sapere”, che non è altro che il parto della sua imperizia o della sua fantasia o di elucubrazioni empie, assurde e deliranti, e quindi moralmente pericolose, benché forse fascinose e dall’apparenza della genialità e dell’ardimento teoretico.

In tal modo don Ennio ci ha dato di recente un poderoso ed informatissimo studio storico sullo gnosticismo i due volumi, che raccoglie i risultati dei suoi lunghi studi e dà un contributo prezioso alla conoscenza di questo atteggiamento mentale, che ancor oggi è presente nella teologia cattolica, come per esempio nel rahnerismo.

Ma non sarebbe difficile trovare tale atteggiamento in tutti gli eretici[2], regolarmente spinti dalla convinzione di interpretare la rivelazione cristiana meglio di quanto sappia fare la Chiesa cattolica, deviando con ciò dalla vera fede per offrire concezioni apparentemente più elevate e spirituali, ma che in realtà cadono nei più miserevoli errori della mente e del cuore.

L’opera di Don Innocenti si presenta particolarmente utile ed opportuna nell’attuale clima della teologia cattolica, nel quale, per un fraintendimento del pluralismo e del progresso teologici promosso dal Concilio Vaticano II, è venuto meno da tante parti quel pie et sobrie quaerere raccomandato al teologo dal Concilio Vaticano I, come garanzia di una ricerca e di una produzione teologica, veramente conforme alla Parola di Dio sull’esempio del grande Aquinate, oggi troppo spesso dimenticato e che invece, per raccomandazione dello stesso Vaticano II e dei Pontefici seguenti, resta e deve restare, seppur in dialogo con le altre grandi voci della cultura universale, l’insuperato Maestro che per la sua santità e la sua sapienza ci ripara dal pericolo della superbia e dell’empietà gnostiche e ci insegna quell’atteggiamento di umiltà e di coraggio ad un tempo che fa il vero grande teologo al servizio delle anime, della Chiesa e della cultura del nostro tempo.

NOTE

[1] E’ possibile trovare questo senso dello gnosticismo anche negli informatissimi studi di Massimo Introvigne, ed oggi ormai, per merito di Don Innocenti, questo significato allargato è divenuto comune, come si può notare anche nel pensiero di Mons.Antonio Livi.

[2] Mi permetto qui di segnalare il mio La questione dell’eresia oggi, Edizioni Vivere In, Monopoli (Bari), 2008

Cristianesimo Cattolico: In Germania Dio è morto

cristianesimocattolico:

Un terzo delle chiese tedesche è destinato a chiudere, e sul sito eBay è già partita l’asta. Nella città di Marx le sacrestie diventano palestre e si progettano “amalgami religiosi”.

di Giulio Meotti su “Il Foglio” del 28/03/2013

Un tempo, con Robert Schuman, veniva chiamata “l’Europa delle…

Cristianesimo Cattolico: In Germania Dio è morto