L’affidamento al cardinale Matteo Zuppi di una “missione” di pace in Ucraina ancora tutta da definire, è l’ultima delle iniziative personali prese da papa Francesco tenendo ai margini i diplomatici della segreteria di Stato.
di Sandro Magister (24-05-2023)
L’affidamento al cardinale Matteo Zuppi di una “missione” di pace in Ucraina ancora tutta da definire, è l’ultima delle iniziative personali prese da papa Francesco tenendo ai margini i diplomatici della segreteria di Stato.
Zuppi, oltre che arcivescovo di Bologna e presidente della conferenza episcopale italiana, è membro storico della Comunità di Sant’Egidio, universalmente nota per la sua “diplomazia parallela” esercitata da anni in varie parti del globo.
In Ucraina Zuppi si sa che non è amato, né dal governo di Kyiv né dalla locale Chiesa greco-cattolica. Nel diluvio di sue parole sulla guerra egli si è sempre tenuto lontano dall’approvare con chiarezza sia il diritto della nazione ucraina a difendersi con le armi dall’invasione russa, sia il suo riarmo da parte di tante nazioni occidentali. “Il cristiano – ha detto – è un uomo di pace che sceglie un altro modo di resistere: la non violenza”.
Ma per la Russia queste sono parole di miele, come ancor più quelle del fondatore di Sant’Egidio, Andrea Riccardi, onnipotente monarca della Comunità.
Fin dal primo giorno dell’aggressione russa Riccardi si schierò per la resa dell’Ucraina, lanciando un appello perché Kyiv fosse dichiarata “città aperta”, cioè occupata dall’esercito invasore senza opporvi resistenza.
E poi ancora fu Riccardi a tenere il 5 novembre scorso il discorso di chiusura dell’imponente corteo pacifista che percorse le vie di Roma fino a San Giovanni in Laterano chiedendo il cessate il fuoco, con decine di bandiere di Sant’Egidio ma comprensibilmente neppure una dell’Ucraina.
È notevole la distanza che intercorre tra le posizioni di Zuppi e Riccardi e quelle del ministro degli esteri vaticano, l’arcivescovo Paul Gallagher, inequivocabile invece nell’approvare la difesa armata della nazione ucraina e l’intangibilità dei suoi confini.
Col suo affidamento a Zuppi della “missione”, Francesco mostra dunque di volere riaprire un dialogo con la Russia più che con l’Ucraina, e anche col patriarcato di Mosca, con il quale la Comunità di Sant’Egidio ha sempre coltivato un rapporto di amicizia, ritmato da suggestivi incontri ecumenici sempre attenti a schivare qualsiasi argomento anche minimo di discordia.
Ma non è tutto. Francesco apprezza e mostra di far propria la “diplomazia parallela” di Sant’Egidio anche con la Cina.
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Tra la Santa Sede e la Cina vi sono state ultimamente delle novità, che hanno visto deteriorarsi l’accordo segreto sulla nomina dei vescovi stipulato tra le due parti nel 2018 e rinnovato per la seconda volta e per altri due anni lo scorso ottobre.
Dalla stipula dell’accordo a oggi le nuove nomine sono state soltanto sei: nel 2019 a Jining e a Hanzhong (ma in questi due casi i candidati erano già stati concordati anni prima, rispettivamente nel 2010 e nel 2016); nel 2020 a Qingdao e a Hongdong; nel 2021 a Pingliang e a Hankou-Wuhan.
Poi per più di un anno niente. Finché il 24 novembre 2022 la Santa Sede comunica di aver saputo “con sorpresa e rammarico” della “cerimonia di installazione” di John Peng Weizhao, già vescovo di Yujiang, anche “come vescovo ausiliare di Jiangxi”.
Da Roma denunciano questo atto come “non in conformità” con l’accordo in corso e per di più compiuto in una diocesi, quella di Jiangxi, “non riconosciuta dalla Santa Sede”, cioè con i confini unilateralmente disegnati dal governo di Pechino.
Ma dalla Cina procedono inesorabili con un secondo atto non concordato. Il 4 aprile del 2023 il direttore della sala stampa vaticana Matteo Bruni – altro membro di Sant’Egidio – comunica che la Santa Sede “ha appreso dai media” che Joseph Shen Bin ha lasciato la sua precedente diocesi di Haimen ed è stato insediato alla testa di un’altra diocesi, quella di Shanghai.
Sul quotidiano della conferenza episcopale italiana “Avvenire”, lo specialista di questioni cinesi, Agostino Giovagnoli, cerca di attutire il colpo facendo notare che non si tratta di una nuova consacrazione episcopale ma soltanto del trasferimento di un vescovo da una sede all’altra, e che semmai sia intervenuta qualche “incomprensione” tra le autorità di Pechino, “complice in questo caso anche un recente cambio alla guida dell’organismo del Fronte unito che si occupa degli affari religiosi e in particolare del cattolicesimo”.
Giovagnoli è anche lui membro d’alto grado di Sant’Egidio, oltre che professore di storia contemporanea all’Università Cattolica di Milano e vicepreside del Pontificio istituto Giovanni Paolo II per il matrimonio e la famiglia. Fa parte dell’Istituto Confucio di Milano, uno dei tanti istituti di questo nome promossi da Pechino in tutto il mondo per la diffusione della lingua e della cultura cinese.
Ma Shanghai non è una diocesi qualsiasi, è una delle più antiche e importanti della Cina. Governata fino alla sua morte nel 2013, a 97 anni, dal gesuita Aloysius Jin Luxian – a sua volta preceduto dall’eroico Ignace Kung Pinmei fatto cardinale in segreto da Giovanni Paolo II nel 1979 mentre era in carcere –, aveva pronti in sede per la successione sia il vescovo “sotterraneo” Joseph Fan Zhongliang che aveva dovuto cedere il passo a Jin ma continuava a essere ritenuto da Roma il titolare della diocesi, sia il vescovo ausiliare Joseph Wenzhi Xing, sia l’altro vescovo ausiliare Thaddeus Ma Daqin.
Il primo dei tre possibili successori, Fan, è però morto nel 2014. Il secondo, Wenzhi, oggi sessantatreenne, il preferito dal Vaticano, fu fatto dimettere dal regime nel 2011 per ragioni mai chiarite. E il terzo, consacrato vescovo nel 2012 con l’accordo congiunto di Roma e Pechino, il giorno stesso dell’ordinazione fu messo agli arresti per essersi dimesso dall’Associazione patriottica dei cattolici cinesi, lo strumento principe del regime per il controllo della Chiesa. E da allora, sempre agli arresti nonostante una sua successiva pubblica ritrattazione, vive confinato nel seminario attiguo al santuario mariano di Nostra Signora di Sheshan, poco fuori Shanghai.
Invece, dopo un decennio di diocesi vacante, ecco che a scegliere e insediare il nuovo vescovo di Shanghai sono state le autorità cinesi, da sole. E si capisce perché. Shen è il numero uno dei vescovi organici al regime comunista, è vicepresidente della Conferenza politica consultiva del popolo cinese, l’organo con oltre duemila delegati chiamato ad approvare le decisioni del presidente Xi Jinping e dalla leadership del partito, ed è anche il capo del Consiglio dei vescovi cinesi, la pseudoconferenza episcopale mai legittimata da Roma che designa ogni nuovo vescovo nei termini dell’accordo segreto del 2018, lasciando al papa solo di approvarlo o no.
In più, il nuovo vescovo di Shanghai è anche un affezionato ai meeting internazionali organizzati dalla Comunità di Sant’Egidio. Gli ultimi ai quali ha preso parte sono stati a Münster e Osnabrück nel settembre del 2017 e a Bologna nell’ottobre del 2018, con Zuppi da tre anni alla guida della diocesi.
Ma da qui a pensare che la filocinese “diplomazia parallela” di Sant’Egidio possa positivamente influire su un miglioramento dei rapporti tra Roma e Pechino, ce ne corre.
A raffreddare questo ottimismo, già ampiamente contraddetto dai fatti, è venuta la recente intervista a “La Civiltà Cattolica” del vescovo di Hong Kong Stephen Chow, gesuita, rilasciata di ritorno da un suo viaggio a Pechino su invito del vescovo della capitale, Joseph Li Shan, presidente dell’Associazione patriottica dei cattolici cinese, anche lui molto organico al regime.
Chow ha fatto un riferimento esplicito ai due casi di Jangxi e di Shanghai per dedurre che “l’accordo non è morto” ma rivela serie “discrepanze di vedute tra le due parti”, che esigerebbero “colloqui più regolari e approfonditi”, anche “sui presupposti che devono reggere il processo del dialogo tra le parti coinvolte”.
Ha aggiunto che “quanti sono contrari all’accordo provvisorio sembrano piuttosto prevenuti nei confronti di Francesco”, anche se “una grande maggioranza dei cattolici in Cina” resta “fedele al papa”.
Ma soprattutto ha tratto un consuntivo deludente dell’accordo, quando ha detto che “circa un terzo delle diocesi del continente” continua a essere “in attesa delle rispettive nomine episcopali”.
Perché in effetti le cose stanno così. Il conteggio vaticano è di 147 diocesi in tutta la Cina, comprese Macao e Hong Kong. Ma c’è il conteggio del governo, che ha ridisegnato unilateralmente tutti i confini e ha ridotto le diocesi a 99. Ebbene, tra queste 99 diocesi ben 34 sono ancora senza vescovo, nonostante l’accordo del 2018 sulle nuove nomine. L’elenco dettagliato delle diocesi vacanti, prima che scoppiassero i casi di Jiangxi e di Shanghai e prima della recente scomparsa del vescovo di Fuzhou Peter Lin Jiashan, è stato pubblicato da “Asia News”, l’agenzia del Pontificio Istituto Missioni Estere di Milano, specializzata sulla Cina.
Inoltre, anche altre statistiche palesano una Chiesa in difficoltà. Nei seminari cinesi, sia “ufficiali” che “sotterranei”, si è calati dai circa 2400 aspiranti al sacerdozio d’inizio secolo ai soli 420 del 2020, che “fanno anche fatica a fidarsi tra loro e tendono a rimanere isolati”, ha constatato un missionario a Hong Kong che ha scritto su di loro la tesi di dottorato.
Ma più ancora pesano sulla Chiesa cattolica cinese le implacabili vessazioni e restrizioni imposte a numerosi vescovi, a tanti sacerdoti e a un gran numero di semplici battezzati. Tra i vescovi più sotto tiro, oltre all’ausiliare di Shanghai Ma Daqin di cui s’è detto, si possono segnalare:
– il vescovo di Xuanhua Augustin Cui Hai, da anni finito più volte in prigione e ora di nuovo agli arresti in una località sconosciuta, senza più sue notizie dalla primavera del 2021;
– il vescovo di Baoding James Su Zhimin, nelle mani della polizia da più di 25 anni, dopo averne già passati oltre 40 ai lavori forzati sotto Mao Zedong;
– il vescovo di Wenzhou Shan Zhumin, più volte arrestato e trattenuto dalla polizia;
– il vescovo di Zhengding Jules Jia Zhiguo, agli arresti domiciliari dal 15 agosto del 2020;
– il vescovo di Xinxiang Joseph Zhang Weizhou, imprigionato il 21 maggio 2021 e da allora detenuto chissà dove;
– il vescovo ausiliare di Xiapu-Mindong Vincent Quo Xijin, sottoposto a domicilio coatto e costretto a dimettersi da ogni carica.
I più perseguitati sono i vescovi “sotterranei”, privi del riconoscimento ufficiale del regime. Anche quando qualcuno di loro, al culmine delle pressioni, accetta di registrarsi, le autorità usano portarlo in una località segreta e sottoporlo a sessioni di “rieducazione” politica, fino a che non dia una prova sicura di sottomissione.
Contro tutto questo né la gerarchia cinese, né le autorità vaticane, né tanto meno papa Francesco hanno mai elevato una sola parola pubblica di protesta. L’unico ad aver più volte alzato la voce è stato l’intrepido cardinale Joseph Zen Zekiun, anche lui arrestato e condannato qualche mese fa per aver difeso la libertà dei suoi concittadini di Hong Kong e tuttora sottoposto ad indagine per “collusione con forze straniere”.
A Hong Kong più di mille persone, molte delle quali cristiane, sono in carcere per i moti democratici del 2014 e del 2019. Nel corso di una delle sue visite ai detenuti, il cardinale Zen ha anche portato al battesimo Albert Ho, un importante leader democratico.
L’attuale vescovo della città, Chow, nel suo messaggio pasquale ai fedeli pubblicato poco prima del suo viaggio a Pechino, ha chiesto alle autorità politiche un atto di clemenza verso questi prigionieri, in vista di una pacificazione.
“C’è da lodare il vescovo Chow per questo intervento inedito e coraggioso”, ha scritto su “Asia News” Gianni Criveller, sinologo e per 26 anni missionario a Hong Kong.
E c’è da sperare che questo gesto del suo confratello gesuita incoraggi una simile svolta anche nella “via cinese” di papa Francesco, più che non la sterile “diplomazia parallela” di Sant’Egidio.
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POST SCRIPTUM – Al termine dell’udienza generale di mercoledì 24 maggio, Francesco ha detto (sottolineature nostre):
“Oggi ricorre la giornata mondiale di preghiera per la Chiesa cattolica in Cina. Essa coincide con la festa della Beata Vergine Maria Aiuto dei cristiani, venerata e invocata nel Santuario di Nostra Signora di Sheshan, a Shanghai. In questa circostanza, desidero assicurare il ricordo ed esprimere la vicinanza ai nostri fratelli e sorelle in Cina, condividendo le loro gioie e le loro speranze. Un pensiero speciale è rivolto a tutti coloro che soffrono, pastori e fedeli, affinché nella comunione e nella solidarietà della Chiesa Universale possano sperimentare consolazione e incoraggiamento. Invito tutti ad elevare la preghiera a Dio, perché la Buona Novella di Cristo crocifisso e risorto possa essere annunciata nella sua pienezza, bellezza e libertà, portando frutti per il bene della Chiesa cattolica e di tutta la società cinese”.
(Fonte: Settimo Cielo)