Distogliere il discernimento cristiano dalla guerra come tale, sottrarsi con un no all’esame attento di un evento che andrà molto oltre i mali e le sofferenze dell’oggi, non è solo un errore. È fuggire una responsabilità.
di Sandro Magister (09-03-2022)
Ricevo e Pubblico. L’autore della lettera, il professor Pietro De Marco, ha insegnato sociologia della religione all’Università di Firenze e alla Facoltà teologica dell’Italia Centrale.
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Caro Magister,
le chiedo ospitalità per alcune riflessioni indotte dalla guerra in corso in Ucraina. L’orizzonte delle notizie, e la stessa distribuzione delle cronache e delle riflessioni sulle pagine dei media, indicano una duplicità, anzi una distonia. Da un lato il conflitto, con i suoi fatti: le azioni belliche e le decisioni politiche sul presente e futuro dell’intero spazio europeo. Dall’altro le manifestazioni, le preghiere, le dichiarazioni morali e politiche per la pace. Manifestazioni e preghiere che, nella loro verità, dicono però la guerra senza mai toccarla o guardarla come tale; gli sguardi sono rivolti ai sofferenti, ai migranti, alla pace.
Il doppio binario sarebbe una complementarità ineccepibile se nei compassionevoli o nei richiedenti pace vi fosse anche un esercizio razionale sul conflitto, una istanza di giudizio di merito, infine di presa di posizione non dualistica tra bene e male.
Dire: “C’è la guerra, viva la pace” equivale, a mio avviso, a muoversi entro un’esclusiva “razionalità secondo il valore”, ignorando le necessarie “razionalità secondo lo scopo”. Per questa indifferenza a risultati che non siano assoluti (la pace che sboccia), nelle piazze si può sentire di tutto, fino all’assenza di ogni giudizio o al vibrante “qualsiasi cosa purché si smetta di combattere”. E c’è anche troppo di ludico. Vi sono giovani, ma anche adulti, donne e uomini, che sembrano vivere nelle commedie di Aristofane (“Troppi ormoni in questa vicenda”, abbiamo sentito proclamare in tv, “se ci fossero le donne al potere…”) più che meditare Erodoto.
Ora i “pacifici”, di fronte alla storia dei popoli, non possono nascondersi dietro il velo del loro orrore per l’odio e il sangue, neppure sotto quello di una carità che prescinde da tutto. In questo ordine di realtà che è il conflitto in corso, deve dominare la meno gratificante virtù della giustizia. Meno gratificante perché la giustizia, nelle relazioni tra popoli, se si dà deve essere giustiziabile: la sua sentenza dovrà avere conseguenze. E queste saranno, anzi lo sono già, coerenti alla meccanica della guerra poiché la riguardano: armi e mezzi forniti alla parte debole per combattere, sanzioni all’aggressore per ferirlo su più piani e certamente creare sofferenze, minacce simmetriche per intimorire. Con alla fine l’inevitabile soccombere (o cedere terreno con danno) di una parte.
Se le parole di pace non vedono questa concatenazione di fatti necessitati, volti realisticamente a fermare il conflitto, se lo considerano un male non degno di esame “iuxta propria principia”, si condannano ad essere astratte. E quelle parole, che tanto si compiacciono di sé, se le beccheranno i passeri.
Non è la guerra in genere, ma questa o quella guerra precisa il luogo della decisione. La preghiera, la più intensa e più teologicamente consapevole, è necessaria e senza dubbio gradita a Dio, ma cade entro il disegno insondabile della Sua volontà. O siamo tentati come Chiesa di assumere la preghiera come “escamotage” per non prendere posizione e non operare in e su questa guerra? Non cadremmo in questa tentazione se avessimo conservato la capacità di pensare gli eventi in termini di teologia della storia. Invece le teologie dominanti sono antitetiche a Paolo, ostili ad Agostino, irriderebbero Bossuet o de Maistre. Flirtano con le filosofie ma sono estranee all’eretica ma altissima teologia della storia di Hegel. Pensano in piccolo o utopicamente, e l’utopia è il prodotto affabulato delle etiche del sentimento.
Dove voglio arrivare? “La guerra è un atto di forza per condurre l’avversario al nostro volere”, secondo una delle note definizioni di Clausewitz. Distogliere il discernimento cristiano dalla guerra come tale, sottrarsi con un no all’esame attento di un evento che andrà molto oltre i mali e le sofferenze dell’oggi, non è solo un errore. È fuggire una responsabilità.
Da questa responsabilità niente esonera la Chiesa cattolica. La Santa Sede, che è potenza spirituale, sì, ma pur sempre potenza, si è mossa fino ad oggi in maniera timida, come sospesa tra la preghiera – col papa ammirevole ma attivo come un singolo, non come il vertice umano della Chiesa – e l’azione, quella degli altri. Ho vissuto, molto attento, gli anni lontani dell’azione politica internazionale di Giorgio La Pira (crisi di Cuba, Vietnam), forse priva di risultati maggiori, ma portatrice di ragione, di analisi, capace di influenza.
Sappiamo che le celebri “divisioni del papa” sono solo il popolo cattolico mondiale. Ora, offrire una sede di incontro e trattativa in Vaticano non è sublimare il conflitto ucraino in un luogo mistico. La Santa Sede medierà solo se ne avrà la forza e il prestigio; ad esempio se nel gioco delle forze morali, religiose, politiche mondiali essa potrà dire: la Chiesa cattolica, in accordo o meno con le Chiese ortodosse, non può accettare, né pensare di subire, la prova di potenza in corso, che nega deliberatamente e secondo un chiaro progetto le decisive libertà, i grandi spazi di nuova autodeterminazione guadagnati dal mondo e dalle Chiese tutte col crollo dell’URSS. Il crollo del sistema sovietico fu voluto dai suoi stessi popoli, è in certo modo un bene storico-mondiale che si vorrebbe irreversibile.
La Chiesa cattolica, come Santa Sede, ha il potere, se necessario, di obbligare in coscienza i cattolici a non offrire alibi né spazio di manovra (morale, ideologica, politica) al progetto di una Russia neo-imperiale, chiudendo, così, anche con le scriteriate posizioni cattoliche filo-Putin nuovo Costantino. Essa intende, premesso questo, aiutare con tutte le sue energie di esperta di umanità, di sorella delle Chiese ortodosse, delle trattative di pace su una materia circoscritta (garanzie, eventuali correzioni di confini) e non politicamente e religiosamente retroattiva (non un ritorno di grandi aree europee sotto l’arbitrio di un autocrate).
Di questa, o analoga, determinatezza da parte della Santa Sede non c’è traccia. Dobbiamo sperare che la difficoltà, finora mostrata da Roma, nell’elevare le sue esternazioni al livello della statura internazionale della Chiesa cattolica, sia dovuta alle cautele di una seria ricognizione, e non alla constatazione di avere sciolto nel frattempo il proprio esercito morale mondiale, e di aver pensionato i propri corpi scelti, quelli capaci di giudizio di realtà. Tra questi eccelleva un tempo la Compagnia di Gesù. La storia ne farà a meno.
Pietro De Marco
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(s.m.) Due piccole note a margine sull’azione della Chiesa in questa guerra. La prima ha a che fare con l’avvenuta messa al bando, in Russia, della parola stessa “guerra”, da sostituirsi con “operazione militare”. All’Angelus di domenica 6 marzo papa Francesco vi ha reagito esplicitamente: “Non si tratta solo di un’operazione militare, ma di guerra, che semina morte, distruzione e miseria”. Con la chiosa di Andrea Tornielli, direttore editoriale del dicastero per le comunicazioni della Santa Sede, che sulla prima pagina de “L’Osservatore Romano” ha scritto che “papa Francesco ha smentito la ‘fake news’ che vorrebbe presentare quanto sta accadendo con sotterfugi verbali per mascherare la crudele realtà dei fatti”.
Ma basta tornare indietro di pochi giorni per constatare che a questi “sotterfugi verbali” aveva fatto ricorso proprio la Santa Sede nella sua prima dichiarazione ufficiale – emessa il 24 febbraio dal cardinale segretario di Stato Pietro Parolin – dopo l’aggressione russa, ovvero, come si legge nel documento, “dopo l’inizio delle operazioni militari russe in territorio ucraino”.
La seconda nota riguarda la proposta della Comunità di Sant’Egidio e in particolare del suo fondatore Andrea Riccardi di fare di Kyiv una “città aperta”. L’intento dichiarato è di “sottrarla allo scontro armato, alla lotta casa per casa, strada per strada”. Perché “Kyiv è la Gerusalemme dell’ortodossia di Rus’ e quindi dell’ortodossia bielorussa, russa e ucraina. Non deve diventare Aleppo.”
Pochi sanno, però, che tecnicamente “città aperta” è la città che per accordo esplicito delle parti in conflitto viene lasciata occupare dal nemico, in questo caso la Russia, senza che gli si opponga resistenza.
(Fonte: Settimo Cielo)